TAR Napoli, sez. VI, sentenza 2014-12-03, n. 201406310

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Napoli, sez. VI, sentenza 2014-12-03, n. 201406310
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Napoli
Numero : 201406310
Data del deposito : 3 dicembre 2014
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 02680/2014 REG.RIC.

N. 06310/2014 REG.PROV.COLL.

N. 02680/2014 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

(Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2680 del 2014, integrato da motivi aggiunti, proposto da L D C, rappresentato e difeso dall'avv. L C, con domicilio eletto presso lo studio dell’Avv. Clorinda Rosciano in Napoli, Via S. Maria dell'Aiuto n.17;

contro

Ministero dell'Economia e delle Finanze, Guardia di Finanza Comando Generale, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli, presso i cui uffici – alla via A. Diaz n°11 – è ope legis domiciliato;

per l'annullamento

A) quanto al ricorso principale,

del provvedimento prot.llo n. 602880/13 del 13.12.2013, recante l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dall’impiego per la durata di mesi sei a decorrere dalla data del 14.12.2013 e fino alla data del 13.6.2014, emesso dal Comando Interregionale dell'Italia Meridionale della Guardia di Finanza;

B) quanto ai motivi aggiunti,

della determina del Comando Generale della Guardia di Finanza prot. 0101430/14 del 7.4.2014, notificata in data 23.5.2014, di rigetto del ricorso gerarchico.

Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Economia e delle Finanze – Guardia di Finanza;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 novembre 2014 il dott. Umberto Maiello e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Il ricorrente, Maresciallo Capo della Guardia di Finanza, risulta destinatario – giusta provvedimento prot.llo n. 602880/13 del 13.12.2013 – della “ sanzione disciplinare della sospensione dall’impiego per la durata di mesi sei (SEI) a decorrere dalla data del 14.12.2013 e fino alla data del 13.6.2014 ”.

La suddetta misura punitiva veniva applicata a valle del procedimento disciplinare attivato dall’Autorità qui intimata all’indomani della definizione di quello penale, recante n. 3071/04 ed iscritto presso il Tribunale Penale di Nocera Inferiore per i delitti di cui agli artt. 485, 61 n. 2, 56, 640, 48 e 378 c.p.

Gli addebiti venivano rubricati in relazione alla contestazione di una truffa, in ipotesi, ordita dal ricorrente, in concorso con altri, ai danni della compagnia Meie Assicurazioni e consistita nel simulare un incidente stradale mediante falsificazione di un modello CID ed articolando coevamente una richiesta di risarcimento danni alla predetta compagnia di assicurazione. I danni richiesti, viceversa, non sarebbero stati prodotti dal sinistro denunciato, essendo l’autovettura di proprietà attorea danneggiata e non marciante fin dal momento del suo acquisto. Il ricorrente, inoltre, in epoca successiva, al fine di eludere le investigazioni dell’Autorità, si sarebbe fatto rilasciare una dichiarazione compiacente dalla concessionaria presso la quale aveva acquistato la propria auto onde far risultare che la stessa, al momento dell’acquisto, e contrariamente al vero, non era incidentata.

Per i fatti sopra sintetizzati il ricorrente veniva giudicato dal Tribunale Penale di Nocera Inferiore che pronunciava, in data 2.10.2008, una sentenza con la quale dichiarava di non doversi procedere nei confronti dell’imputato per i reati di cui agli artt. 485, 61 n. 2 e 56, 640 c.p. “perché estinti per intervenuta prescrizione” e di assoluzione dal reato di cui agli artt. 48 e 378 c.p. “perché il fatto non costituisce reato”.

La suddetta decisione veniva poi confermata dalla Corte d’Appello di Salerno in data 12.4.2013 (sentenza divenuta irrevocabile il 27.4.2013).

Alla definizione del procedimento penale faceva seguito l’attivazione del procedimento disciplinare culminato, come detto, nell’irrogazione della “ sanzione disciplinare della sospensione dall’impiego per la durata di mesi sei (SEI) a decorrere dalla data del 14.12.2013 e fino alla data del 13.6.2014 ”.

Avverso tale sanzione, applicata con provvedimento prot.llo n. 602880/13 del 16.12.2013, il ricorrente, con il gravame principale, in epigrafe sub A), ha articolato le seguenti censure:

1) le sentenze non riconducibili alle specifiche tipologie indicate nell’articolo 653 c.p.p. – e dunque quella qui in rilievo – non assumono autorità di giudicato nel procedimento disciplinare. Di talchè l’Autorità procedente avrebbe dovuto osservare nello sviluppo del procedimento disciplinare due indefettibili principi: quello dell’autonomo accertamento e quello dell’autonoma valutazione dei fatti (tanto anche in applicazione della stessa circolare n. 1/2006 del Comando Generale della GdF) di cui occorre dare evidenza nella motivazione del provvedimento finale. Ciò viepiù in considerazione del fatto che il dibattimento penale avrebbe avuto uno sviluppo compresso dalla incombente prescrizione, con conseguente reiezione delle richieste istruttorie dell’imputato, tra cui quella di procedere ad una perizia calligrafica. I medesimi principi troverebbero, altresì, applicazione nei casi di assoluzione in sede penale con la formula “ perché il fatto non costituisce reato ”, nella specie pronunciata in relazione alla contestazione del reato di cui agli artt. 48 e 378 c.p;

2) sarebbero incongruenti gli elementi di prova valorizzati nel rapporto finale dell’Ufficiale inquirente del 5.9.2013 e recepiti, per relationem , nel provvedimento finale;

3) non risulterebbe motivata la pretesa infondatezza degli argomenti a discarico prodotti dal ricorrente;

4) del pari sarebbe carente la motivazione sulla presunta superfluità delle richieste istruttorie avanzate nel corso del procedimento;

5) risulterebbe omessa ogni considerazione in ordine alla denunciata (dal ricorrente) falsificazione del contratto di vendita ovvero in merito alla falsa dichiarazione (solo apparentemente proveniente dalla moglie del ricorrente) con la quale sarebbe stato conferito incarico allo studio di consulenza automobilistica “La generale” di Striano per l’immatricolazione dell’autovettura Mercedes;

6) il provvedimento impugnato non indicherebbe le norme violate e non conterebbe una specifica valutazione della rilevanza disciplinare dei fatti in addebito;

7) risulterebbe applicata una sanzione abnorme e sproporzionata rispetto ai fatti in addebito;

8) il procedimento disciplinare risulterebbe viziato dalla situazione di incompatibilità in cui si sarebbe trovato il Capo di Stato Maggiore del Comando Regione Campania;

Con atto recante motivi aggiunti depositato il 19.6.2014, in epigrafe sub B), il ricorrente ha esteso il giudizio già pendente alla determina del Comando Generale della Guardia di Finanza prot. 0101430/14 del 7.4.2014, notificata in data 23.5.2014, di rigetto del ricorso gerarchico.

Avversato tale ulteriore atto – e sul presupposto della sua natura di atto elusivo del procedimento pendente – ha articolato un primo gruppo di censure, di seguito sintetizzate:

1) l’atto de quo , siccome notificato in data 23.5.2014, dopo l’iscrizione a ruolo del ricorso proposto avverso il provvedimento del 13.12.2013, rifletterebbe la sua chiara finalità elusiva del giudizio pendente;

2) l’Amministrazione intimata, nel valutare la situazione di incompatibilità e conflitto di interessi collegata alla posizione del Capo di Stato Maggiore del Comando Regione Campania, avrebbe fatto applicazione in termini meramente formali e restrittivi del disposto di cui all’articolo 1380 c.o.m.;

3) il provvedimento impugnato violerebbe il principio della necessità di un autonomo accertamento dei fatti in sede disciplinare ove il procedimento penale risulti definito – com’è nel caso di specie – con sentenza in rito;

4) la decisione reiettiva del ricorso gerarchico non sarebbe sorretta da adeguata motivazione nella parte in cui non esplicita le ragioni che indurrebbero a ritenere inutili gli accertamenti richiesti dal ricorrente.

Il ricorrente ha, poi, strutturato un ulteriore gruppo di doglianze per l’ipotesi in cui questo Collegio ritenesse rituale e non elusiva la determina del Comando Generale della Guardia di Finanza prot. 0101430/14 del 7.4.2014, all’uopo riproducendo le medesime argomentazioni sopra richiamate ovvero i motivi di doglianza già compendiati nel mezzo principale.

Resiste in giudizio l’Amministrazione intimata che ha concluso per il rigetto del ricorso.

All’udienza del 19.11.2014 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO

Il ricorso, per come integrato dai motivi aggiunti, è infondato e, pertanto, va respinto.

Priva di pregio è, anzitutto, la censura – introdotta con l’atto recante i motivi aggiunti - con cui parte ricorrente deduce che la determina di rigetto del ricorso gerarchico, siccome notificata in data 23.5.2014, dopo l’iscrizione a ruolo del ricorso proposto avverso il provvedimento applicativo della sanzione disciplinare del 13.12.2013, rifletterebbe una chiara finalità elusiva del giudizio pendente.

La censura in esame è priva di pregio.

Rileva il Collegio che la trama argomentativa in cui essa impinge si rivela manifestamente insufficiente allo scopo in quanto la pretesa finalità elusiva che ispirerebbe tale decisione viene arbitrariamente ricavata da una lettura orientata della tempistica degli eventi suddetti, peraltro obliterando il dato pur significativo che solo la comunicazione della decisione in argomento si colloca a valle della scadenza del termine di 90 gg previsto dalla disciplina di settore.

D’altro canto, non è dato comprendere in che modo opererebbe l’ordito elusivo congegnato dall’Autorità procedente atteso che la sopravvenienza della decisione su ricorso gerarchico non comporta affatto la vanificazione delle difese svolte dal ricorrente dando, al più, causa ad un’integrazione degli originari asserti mediante l’articolazione di censure aggiuntive, come d’altronde è avvenuto nel caso di specie.

La dinamica della vicenda processuale qui in rilievo si è, infatti, sviluppata in coerenza con la declinazione applicativa - quale risultante dai contributi giurisprudenziali avutisi in subiecta materia – del disposto di cui all’articolo 6 del d.p.r. n. 1199/1971.

Com’è noto, l’inerzia dell’Autorità adita mediante ricorso gerarchico, alla scadenza dello spatium deliberandi di 90 gg, non genera un atto di contenuto negativo, presunto ex lege, ma costituisce un limite di legge oltre il quale, al dichiarato fine acceleratorio dei procedimenti, l'interessato non è tenuto ad attendere l'esito del ricorso amministrativo da lui stesso promosso e può senz'altro adire il giudice per tutelarsi in sede di legittimità contro l'atto amministrativo reputato lesivo (conclusioni, cui è giunta l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, n. 16 del 1989, ed alla quale si è costantemente uniformata la giurisprudenza amministrativa). Ne consegue che, una volta formatosi il silenzio, l'amministrazione non perde la facoltà di decidere e il privato può scegliere tra l'immediato ricorso in sede giurisdizionale (o straordinaria) contro il provvedimento di base, entro i termini di decadenza, e il successivo ricorso giurisdizionale contro l'eventuale decisione gerarchica tardiva, ove lesiva.

In definitiva, la decisione dell’Autorità intimata, di rigetto del ricorso gerarchico e confermativa della sanzione applicata in prime cure, costituisce fisiologica espressione del potere attribuito dall’ordinamento di settore che non può affatto ritenersi deviato dai suoi fini istituzionali per il solo fatto che la comunicazione alla parte istante è intervenuta oltre il termine di scadenza di 90 gg. previsto dall’articolo 6 del d.p.r. 1199 del 1971.

Parimenti, deve ritenersi priva di pregio l’ulteriore doglianza, già contenuta nel mezzo principale e viepiù circostanziata con l’atto recante motivi aggiunti, con cui parte ricorrente si duole della mancata valorizzazione della presunta situazione di incompatibilità e di conflitto di interessi in cui si sarebbe venuto a trovare il Capo di Stato Maggiore del Comando Regione Campania, la cui posizione risulterebbe valutata dall’Amministrazione qui convenuta in termini meramente formali e restrittivi.

La denunciata situazione di incompatibilità deriverebbe da pregresse situazioni di conflitto legate anche alle indagini svolte dal predetto Ufficiale e rileverebbe, ai fini in questione, in ragione delle peculiari attribuzioni di cui è depositario il Capo di Stato Maggiore siccome preposto all’ufficio personale/disciplina con possibilità di impartire direttive ed indicazioni con riferimento ai procedimenti disciplinari.

Nella prospettazione di parte ricorrente l’articolo 1380 c.o.m. dovrebbe essere inteso come precipitato tecnico dei canoni generali di buon andamento e di imparzialità dell’azione amministrativa e, come tale, dovrebbe avere un campo di applicazione più esteso sì da consentire la radicale rimozione di qualsivoglia sospetto di parzialità dell’azione amministrativa indipendentemente dalla tipizzazione delle fattispecie previste dal diritto positivo.

Orbene, contrariamente a quanto dedotto, a giudizio del Collegio del tutto condivisibile è la posizione assunta dall’Amministrazione intimata nella parte in cui evidenzia che “… ai sensi dell’articolo 1380 del c.o.m. (il quale, come noto, individua tassativamente le cause di incompatibilità solamente in relazione alla composizione della commissione di disciplina) non è ravvisabile, neanche in via astratta, alcun profilo di parzialità nell’operato dell’Amministrazione..dal momento che il citato Ufficiale Superiore non ha preso parte al procedimento disciplinare in parola quale componente della Commissione di disciplina, né risulta aver avviato il citato procedimento né, tantomeno, aver assolto l’incarico di Ufficiale inquirente ”.

Ed, invero, rilievo dirimente assume la circostanza che il predetto Ufficiale non ha in alcun modo partecipato alla gestione del procedimento in argomento, al quale risulta, dunque, completamente estraneo, essendosi semplicemente limitato a comunicare al Comando di appartenenza del ricorrente l’intervenuta applicazione della sanzione qui gravata.

E’ pur vero che le cause di incompatibilità (tra cui, quelle codificate dall’art. 51 c.p.c.) devono ritenersi predicabili in tutti i campi dell'azione amministrativa quale applicazione dell'obbligo costituzionale d'imparzialità (cfr., per tutti, Cons. St., III, 24 gennaio 2013 n. 477), ciò nondimeno, e sotto diverso profilo, nemmeno può essere trascurato che esse rivestono un carattere tassativo. Le fattispecie contemplate dall’ordinamento sfuggono, infatti, ad ogni tentativo di manipolazione analogica (arg. ex Cons. St., VI, 3 marzo 2007 n. 1011;
id., 26 gennaio 2009 n. 354;
id., 19 marzo 2013 n. 1606) all'evidente scopo di tutelare l'esigenza di certezza dell'azione amministrativa e la stabilità della composizione degli organi amministrativi.

Orbene, in disparte il fatto che le disposizioni evincibili dall’ordinamento ed applicabili in subiecta materia – tanto quelle di cui all’articolo 1380 del c.o.m. quanto quelle di cui all’articolo 51 del c.p.c. – si pongono a presidio della terzietà dell’organo giudicante, deve ribadirsi che il Capo di Stato Maggiore non ha in alcun modo interferito con la gestione dello specifico procedimento qui in rilievo.

Non è dato comprendere, dunque, in che modo i denunciati profili di (asserita) incompatibilità ascritti al Capo di Stato Maggiore possano essere traslati, con la pretesa automaticità, in capo ai militari che hanno definito (o anche solo condotto) il procedimento disciplinare in argomento, i quali non versano in nessuna delle tassative ipotesi di incompatibilità delineate dall’ordinamento.

Venendo al merito della res iudicanda, alla medesima conclusione reiettiva deve pervenirsi all’esito del vaglio delle residue censure che involgono il corredo istruttorio e motivazionale dell’atto impugnato, segnatamente quanto alla mancata considerazione delle argomentazioni difensive svolte nel corso del procedimento ovvero della personalità dell’incolpato ovvero ancora rispetto alla entità della sanzione applicata.

A tal riguardo, mette conto evidenziare che, contrariamente a quanto dedotto, i provvedimenti qui gravati risultano adottati in piena sintonia con le coordinate evincibili dalla disciplina di settore secondo cui l'illiceità penale e quella disciplinare operano su piani differenti, salvo che per i profili di cui all’articolo 653 c.p.p, vale a dire:

- nel caso di assoluzione, “ quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l'imputato non lo ha commesso”;

- nel caso di condanna, “ quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso”.

Ed, invero, l'Amministrazione procedente muove dalla pregnanza delle risultanze processuali acquisite al procedimento penale e menziona solo per finalità descrittive il contenuto delle statuizioni intervenute in sede penale, alle quali non può comunque assegnarsi una valenza neutra nella complessiva ricostruzione della vicenda qui in rilievo.

Vi è stata, quindi, contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente, da un lato, una puntuale e corretta valutazione della portata da annettersi alla sentenza di non doversi procedere che ha definito il giudizio penale, dovendo desumersi dalla stessa, specularmente, la non emersione di una verità processuale, che avrebbe consentito - ed imposto - l'adozione di una sentenza di proscioglimento nel merito;
nonché, dall’altro, un razionale convincimento di responsabilità disciplinare, basato sugli elementi di fatto emergenti dagli atti processuali.

In altri termini, l’Autorità procedente, pur muovendo da una disamina del giudizio penale, ha pienamente assolto all’onere di operare un'autonoma e completa ricostruzione dei fatti, mutuando le risultanze processuali acquisite nel giudizio penale in modo da modulare sulle stesse l'istruttoria amministrativa, così da evitare accertamenti ingiustificati, perché già provati, alla luce del principio dell'economia del procedimento (Consiglio di Stato sez. IV n. 1993 del 4.4.2012).

Ed, invero, in ossequio al principio di economia dei mezzi giuridici, l’Amministrazione, in sede disciplinare, non ha l'obbligo di svolgere una particolare attività istruttoria al fine di acquisire ulteriori mezzi di prova quando dispone di elementi emersi dal giudizio penale, fermo restando l'obbligo di valutare autonomamente e discrezionalmente i fatti addebitati all'incolpato. Ne consegue che i fatti compiutamente accertati nella sede penale vanno assunti nel procedimento disciplinare senza che sugli stessi l'amministrazione possa procedere a nuovi e separati accertamenti, trattandosi di dati irremovibili, dovendo la p.a. procedere solo all'autonoma e discrezionale valutazione della loro rilevanza sotto il profilo disciplinare (Consiglio di Stato sez. IV 22 giugno 2004 n. 4464 ).

E ciò viepiù a dirsi nel caso di specie in cui l’istruttoria dibattimentale svoltasi in sede penale ha condotto, per effetto dell’acquisizione di copiosa documentazione e dell’assunzione di numerose prove testimoniali, ad un sufficiente livello di approfondimento dei fatti per cui è processo.

La vicenda qui in rilievo prende abbrivio dall’acquisto, in data 7.2.2000, da parte di Amalia Miranda, moglie del ricorrente, di un’autovettura tipo Mercedes tg BH907VJ che, nell’ipotesi accusatoria, era incidentata e non marciante. Tale acquisto veniva effettuato presso la concessionaria P.A.R.M. Auto di R Michele che, in tali condizioni, l’avrebbe importata dal Belgio.

Per tale autovettura venne, dunque, avanzata richiesta di risarcimento danni alla società Meie Assicurazioni (poi incorporata nella società Aurora Assicurazioni) per un incidente stradale asseritamente avvenuto il 25 giugno 2000 tra l’autovettura de qua e l’autocarro Fiat 190 tg. SA532222, di proprietà di tale C Migliaro e condotto dal figlio, Francesco.

In realtà – e sempre nella prospettazione accusatoria – tale incidente non si sarebbe mai verificato nelle circostanze di luogo e di tempo denunciate ed i danni rilevati sull’autovettura Mercedes sarebbero proprio quelli che tale autovettura evidenziava fin dal momento del suo acquisto. Peraltro, per il sinistro in argomento veniva trasmesso alla compagnia di assicurazione un modello CID recante sottoscrizioni apocrife.

Di qui la contestazione - replicata anche in sede disciplinare – di una truffa ordita dal ricorrente, in concorso con altri, ai danni della compagnia Meie Assicurazioni e consistita nel simulare un incidente stradale mediante falsificazione di un modello CID ed articolando coevamente una richiesta di risarcimento danni alla predetta compagnia di assicurazione. I danni richiesti, viceversa, non sarebbero stati prodotti dal sinistro denunciato, essendo l’autovettura di proprietà attorea danneggiata e non marciante fin dal momento del suo acquisto. Il ricorrente, inoltre, in epoca successiva, al fine di eludere le investigazioni dell’Autorità, si sarebbe fatto rilasciare una dichiarazione compiacente dalla concessionaria presso la quale aveva acquistato la propria auto onde far risultare che la stessa, al momento dell’acquisto, e contrariamente al vero, non era incidentata.

L’accertamento posto a base della decisione disciplinare riposa sui seguenti, convergenti elementi di prova:

- la natura falsa del modello CID trasmesso alla compagnia Meie Assicurazioni sottoscritto con firme apocrife e recante dati non veritieri quanto al contratto di assicurazione del soggetto (apparentemente) danneggiato, tale S C, ovvero quanto ai dati della patente del conducente l’autocarro, F M;

- la deposizione testimoniale di M R (proprietario della concessionaria che ha venduto l’auto in argomento) il quale ha riferito che l’auto era stata acquistata già incidentata e non marciante siccome presentava consistenti danni nelle parti anteriore e posteriore sinistra e proprio per tale ragione era stata acquistata ad un prezzo, di circa 32/33 milioni, ben inferiore a quello di mercato, pari a 60/65 milioni. Il R aggiungeva di aver segnalato al D C il nominativo di tale G F quale carrozziere presso cui far riparare i suddetti danni. Il teste ha, inoltre, riferito che il D C si era successivamente presentato alla sua concessionaria chiedendogli una dichiarazione attestante che l’auto, al momento dell’acquisto, non era danneggiata, aggiungendo di aver acconsentito a tale richiesta, nonostante le obiezioni mosse dal suo consulente, dr. G M, curando di far sottoscrivere tale dichiarazione alla cognata M R in ragione dei compiti amministrativi dalla stessa svolti in senso alla società;

- le convergenti deposizioni testimoniali di G F, Galasso Salvatore e Galasso Giuseppe, i quali hanno riferito di aver effettuato consistenti riparazioni, alla carrozzeria ed alla parte meccanica dell’autovettura in uso al D C utilizzando, peraltro, pezzi di ricambio forniti dallo stesso (il ricorrente nel corso del suo esame assume, viceversa, di essersi effettivamente avvalso della collaborazione del Falcone solo per far rimuovere piccole “strusciature” che l’auto al momento dell’acquisto presentava);

- la deposizione testimoniale resa da A C il quale ha riferito di aver visionato l’autovettura in questione, danneggiata e non marciante, una domenica di giugno e di aver, su richiesta del ricorrente, confezionato un preventivo che reca una data, quella del 15.6.2010, antecedente a quella (25.6.2010) in cui si sarebbe verificato il sinistro stradale;

- la deposizione di S C, che ha disconosciuto la propria firma (apparentemente) posta in calcio al modello CID, negando al contempo di aver trasmesso il suddetto modello alla Meie Assicurazioni;

- la deposizione di F M, che parimenti ha disconosciuto la propria firma (apparentemente) posta in calcio al modello CID negando, altresì, il proprio coinvolgimento nel sinistro in argomento. A tal riguardo, il teste ha precisato di essere stato avvicinato, nelle medesime circostanze spazio/temporali di cui al sinistro in argomento, da una persona qualificatasi come appartenente alla GdF che lamentava di essere stata tamponata durante le operazioni di svolta. Ha, viceversa, ribadito di non aver giammai impattato l’autovettura del D C, che la suddetta autovettura non evidenziava danni, di non aver compilato il modello CID, di non aver scambiato i propri dati con il predetto militare;

- la deposizione dell’ing. A B, già consulente tecnico del P.M., il quale evidenziava come al momento dell’acquisto l’auto fosse già incidentata, come evinto dallo schizzo rilasciato dalla ditta belga contenente la descrizione dei danni riscontrati al momento della vendita.

L’Amministrazione intimata ha proceduto ad un’attenta disamina del suddetto materiale probatorio sottoponendolo ad un rigoroso vaglio critico svolto alla luce delle osservazioni rassegnate dal ricorrente nel corso del procedimento e analiticamente riportate, ancorchè in via sintetica, nello stesso corpo del suddetto provvedimento.

Nell’economia dei suddetti atti la portata recessiva delle suddette argomentazioni difensive, lungi dal costituire una petizione di principio, risulta ampiamente motivata mediante l’espresso richiamo delle singole emergenze probatorie compendiate negli atti mutuati dal processo penale, di volta in volta, analiticamente indicati.

A fronte di tali considerazioni, che risultano obiettivamente scevre da cedimenti logici o manifeste contraddizioni, il ricorrente sottopone a questa Sezione le sue personali valutazioni sui contenuti delle dichiarazioni testimoniali raccolte in sede penale evidenziandone l'inattendibilità sulla base di affermazioni ritenute incongrue che analizza diffusamente.

Segnatamente, attraverso un primo gruppo di censure il ricorrente deduce che gli elementi di prova valorizzati nel rapporto finale dell’Ufficiale inquirente del 5.9.2013 e recepiti, per relationem , nel provvedimento finale, sarebbero inattendibili e contraddittori, e partitamente:

1) sarebbe fuorviante ed inconferente il dato relativo alla indicazione nel CID di un contratto di assicurazione (intestato a S C) non valido in quanto annullato in data precedente al sinistro, dal momento che, ai fini della liquidazione del danno, e tenuto conto della normativa all’epoca vigente, avrebbe rilievo solo la validità dell’assicurazione del danneggiante;

2) non sarebbe attendibile la testimonianza resa dal sig. M R, titolare della concessionaria Parma Auto s.a.s., presso la quale il ricorrente aveva acquistato l’autovettura Mercedes nel febbraio del 2000, secondo cui l’autovettura in argomento, al momento dell’acquisto, non era marciante in quanto importata già danneggiata nel lato sinistro, anteriore e posteriore. Ed, invero:

- dalla fattura di acquisto non emergerebbe alcuna indicazione circa la pretesa condizione di autovettura sinistrata;

- sarebbe stato negato al ricorrente la possibilità di acquisire le foto e lo schizzo dei presunti danni;

- le suddette condizioni non emergerebbero, inoltre, dalla documentazione relativa all’immatricolazione del veicolo in argomento, nonostante l’astratta indispensabilità – in tali circostanze – di un procedimento di revisione;

- il R avrebbe esibito un contratto di acquisto alterato nella parte relativa alle condizioni dell’autovettura in cui risulterebbe barrata (unitamente alla casella riferita alle auto non danneggiate) anche la voce relativa alla sussistenza dei danni al momento dell’importazione;
e ciò in contrasto con l’originale in possesso del ricorrente che, viceversa, vedrebbe segnata la sola casella riferita alle auto non danneggiate;

3) del pari, non sarebbero attendibili le deposizioni testimoniali dei sigg. S C e F M, indicati nel modello CID quali, rispettivamente, intestatario della polizza assicurativa e conducente dell’autocarro oggetto del sinistro stradale, sia quanto al loro coinvolgimento nell’incidente sia quanto alla sottoscrizione del suindicato modello, siccome potenziali interessati alla vicenda de qua. Tanto anche in considerazione del fatto che:

- il ricorrente non avrebbe sottoscritto il CID e risulterebbe indicato in esso solo come conducente della Mercedes coinvolta nel sinistro;

- la moglie del ricorrente aveva già attivato la procedura risarcitoria con atto di messa in mora del 26.9.2010, corredato non dal CID ma solo da foto scattate al momento del sinistro;

- il modello CID risulterebbe inviato da tale S C in data 18.12.2010 a mezzo raccomandata;

- il M F, conducente dell’autocarro, avrebbe dichiarato di non essere stato mai contattato dalla compagnia assicurativa, che, però, avrebbe notiziato il padre C, proprietario dell’autocarro. Quest’ultimo sarebbe stato destinatario anche dell’atto di messa in mora suindicato;

4) non sarebbe rilevante il contributo offerto dal consulente tecnico del P.M. ing. A B in quanto questi, intervenuto a circa 5 anni dal sinistro, avrebbe visionato solo la documentazione postagli in visione;

5) anche la valenza accusatoria delle dichiarazioni rese dal sig. A C, carrozziere, andrebbe ridimensionata avendo questi dichiarato di aver visionato la vettura una domenica di giugno, di talchè la data del 15.6.2000 riportata sul preventivo dallo stesso confezionato costituirebbe un evidente errore materiale, in quanto il giorno 15 (ed a differenza del 25) non cadeva di domenica;

6) anche sul piano logico il possibile beneficiario della falsificazione del CID andrebbe individuato nel sig. S C, indicato quale soggetto assicurato e proprietario nel suddetto modello;

7) anche rispetto all’ulteriore addebito circa l’acquisizione di una dichiarazione di comodo sullo stato della vettura gli elementi utilizzati non sarebbero dirimenti, non essendo stato acquisito il documento in argomento.

Va premesso che, per consolidata e risalente giurisprudenza, nel procedimento disciplinare nei confronti dei pubblici dipendenti la valutazione finale della Amministrazione sulla rilevanza ovvero sulla gravità degli illeciti commessi e sulla conseguente sanzione da irrogare costituisce espressione di un'ampia discrezionalità ed è sindacabile dal giudice amministrativo unicamente per i vari profili di eccesso di potere, quando vi sia stato un travisamento dei fatti ovvero la relativa motivazione risulti sprovvista di logicità e di coerenza (cfr. Cons. Stato, sez. quarta, 24 febbraio 2011, n. 1203 e 4 giugno 2010, n. 5877;
sez. sesta, 10 maggio 1996, n. 670;
sez. quinta, 1^ dicembre 1993, n. 1226).

Ne deriva che non vi è spazio per condividere il costrutto giuridico attoreo, non essendo dato nemmeno a questo giudice di impingere più direttamente nel merito della vicenda, approfondita sia in sede penale che, poi, in sede disciplinare, i cui esiti sono sindacabili solo all’interno del perimetro fissato dalla giurisprudenza.

Nella suddetta prospettiva, è possibile qui rilevare solo se il senso probatorio, attribuito dal ricorrente in contrasto con quello eletto nel provvedimento impugnato, presenti una verosimiglianza non immediatamente smentibile e non imponga, per il suo apprezzamento, ulteriori valutazioni in relazione al contenuto complessivo dei singoli contributi probatori.

Il Collegio all’esito di una serena disamina degli atti versati in giudizio ritiene che i provvedimenti impugnati si rivelino, anche per i profili qui in discussione, idonei a resistere alle censure attoree siccome fondati su una coerente e ragionevole lettura delle risultanze istruttorie di cui risultano adeguatamente apprezzate, all’interno di una necessaria visione di insieme, la complessiva concludenza dimostrativa e la sostanziale convergenza verso la tesi della elevata verosimiglianza dei fatti in addebito.

Peraltro, alle medesime conclusioni si perviene anche a voler effettuare un più penetrante sindacato sul materiale di causa spingendo cioè tale verifica all’interno delle stesse modalità che consentono agli elementi di prova di evolvere – attraverso il filtro dei meccanismi giuridici e logici che governano il processo di formazione della prova – allo stadio del cd. risultato probatorio.

A tal riguardo, va, anzitutto, evidenziato come non possa essere, di certo, qui condiviso l’approccio atomistico privilegiato da parte ricorrente che – perdendo radicalmente di vista una pur necessaria prospettiva di sintesi - muove da una visione analitica di ciascun elemento di prova, peraltro, sovente indugiando in una lettura solo parziale di esso.

Appare, viceversa, di tutta evidenza come la valutazione di siffatti cointributi non possa che essere effettuata – così come correttamente operato dall’Amministrazione intimata - considerandoli nella loro globalità e non può certo ridursi in un’analisi finalizzata ad evidenziare incongruenze o imprecisioni che, se collocate all'interno di un ambito più ampio, non inficiano minimamente la loro consistenza ed il loro valore probatorio.

Un primo significativo dato è rappresentato dal fatto che non sono emersi dal materiale probatorio vagliato specifici elementi sintomatici di intenti calunniatori, ritorsivi o comunque distorsivi, suscettivi di un’obiettiva rilevazione, che possano aver minato la genuinità delle plurime dichiarazioni acquisite.

La tesi attorea, proprio a cagione di ciò, non può offrire una ricostruzione alternativa contraddistinta dall’indefettibile predicato della plausibilità, non potendo di certo spiegare le ragioni per cui tanti testimoni, tra loro non legati da significativi rapporti, possano aver tutti testimoniato il falso.

Peraltro, ad un esame obiettivo, le dichiarazioni in argomento, e sopra passate in rassegna, lungi dall'apparire contraddittorie ed inattendibili, si inseriscono, viceversa, coerentemente nel compendio probatorio raccolto, fornendosi vicendevolmente riscontro.

A fronte della pluralità dei significativi elementi di prova a carico raccolti – che non risultano inficiati in apice da elementi sintomatici di un’inattendibilità soggettiva dei dichiaranti – e della loro concludente convergenza verso un univoco risultato probatorio restano destinati a subire un’inevitabile dequotazione tutti quei marginali profili su cui, viceversa, parte ricorrente indugia nella sua analitica ricostruzione .

Le incongruenze rilevate e sulle quali ci si soffermerà in prosieguo non valgono, di certo, ad intaccare la veridicità e l’unicità del nucleo essenziale del compendio probatorio di cui l’Autorità procedente ha offerto una ragionevole lettura.

Ed, invero, procedendo nello stesso ordine espositivo seguito dal ricorrente:

- a) il dato relativo alla indicazione nel CID oggetto di falsificazione di un contratto di assicurazione (intestato a S C) non valido in quanto annullato in data precedente al sinistro, lungi dall’essere inconferente e fuorviante vale a confermare la non genuinità del predetto documento che risulterebbe viepiù avvalorata – oltre che dal disconoscimento delle firme apposte in calce – anche dall’erroneità dei dati su esso riportati;

b) la pretesa inattendibilità della dichiarazione testimoniale resa dal sig. M R non può di certo essere desunta, con la pretesa automaticità, dalla mancanza di riscontri documentali.

Ed, invero, la mancata annotazione sulla fattura di vendita dei danni già esistenti al momento dell’importazione dell’auto non appare, di per se stessa dirimente, sia perché il documento de quo assolve ad altra funzione e non risulta confezionato per esplicare una specifica valenza probatoria di tale circostanza sia perché tale condizione veniva evidenziata nella documentazione di accompagnamento, vale a dire nello schizzo recante la descrizione grafica della parte incidentata, documento sul quale ha riferito il R e che trova diretto riscontro nelle dichiarazioni rese dal consulente tecnico del P.M., Ing. A B. Il fatto poi che tale documento, nella sua materialità, non risulti giammai pervenuto nella diretta disponibilità del ricorrente di certo non vale ad escludere la sua esistenza, acclarata da convergenti dichiarazioni testimoniali.

Del pari, non sembrano decisive ai fini qui in rilievo le argomentazioni che muovono dalla mancata rilevazione della suddetta condizione di auto danneggiata dalla documentazione di immatricolazione del veicolo in argomento, nonostante l’astratta indispensabilità – in tali circostanze – di uno specifico procedimento di revisione. La mancata cura di siffatto adempimento – ove peraltro effettivamente predicabile all’epoca dei fatti – pur costituendo un’omissione, non può di certo costituire prova negativa dell’inesistenza dei danni qui in rilievo.

Di maggior peso si rivela, ad un primo esame, l’ulteriore circostanza dedotta dal ricorrente di una duplice versione del contratto di acquisto di cui solo la copia in possesso del R evidenzierebbe barrata anche la voce relativa alla sussistenza dei danni al momento dell’importazione. Pur tuttavia, tale circostanza può trovare spiegazione nella particolare “disponibilità” manifestata dal R nei suoi rapporti con il D C. Non va, infatti, trascurato che il R, anche successivamente, su richiesta del primo, non ha esitato a rilasciargli una dichiarazione di comodo sulla inesistenza dei danni che l’autovettura, viceversa, evidenziava fin dall’importazione.

D’altro canto, così come evidenziato in premessa, non può essere sottaciuto che le dichiarazioni del R si rivelano spontanee e disinteressate e, nel nucleo essenziale del narrato, trovano plurimi elementi di riscontro negli ulteriori, convergenti elementi di prova sopra già passati in rassegna.

c) del pari, non può essere condivisa la tesi attorea secondo cui la testimonianza dei sigg. S C e F M indicati nel modello CID quali, rispettivamente, intestatario della polizza assicurativa e conducente dell’autocarro oggetto del sinistro stradale, sia inattendibile. Il primo, contrariamente a quanto ritenuto, non avrebbe potuto giammai beneficiare dell’indennizzo, come di seguito meglio evidenziato.

Né è possibile ritenere che il contributo testimoniale offerto dai sigg. C e F M sia condizionato dall’interesse a non veder aggravata la propria posizione assicurativa. Ed, invero, un tale atteggiamento – che il ricorrente accredita comunque in base ad illazioni prive di conferenti elementi di riscontro –mantenuto fermo nel corso sia della fase delle indagini penali che in quella dibattimentale si rivelerebbe sicuramente sproporzionato – considerata la sua gravità - rispetto al rischio paventato di un possibile rialzo del premio assicurativo;

d) E’ pur vero che il contributo offerto dal consulente tecnico del P.M. ing. A B andrebbe ridimensionato rispetto alla ricostruzione della possibile dinamica dei danni in quanto questi, intervenuto a circa 5 anni dal sinistro, avrebbe visionato solo la documentazione postagli in visione. Ciò nondimeno, va qui ribadito come tale contributo acquisisce la sua importanza come conferma dell’esistenza dello schizzo sopra richiamato e della tipologia di danni in esso descritti;

e) contrariamente a quanto dedotto, non può essere condivisa la lettura correttiva che parte ricorrente propone della deposizione testimoniale resa dal carrozziere sig. A C sul presupposto che questi avrebbe dichiarato di aver visionato la vettura una domenica di giugno. Muovendo da tale assunto parte ricorrente ritiene che la data del 15.6.2000 riportata sul preventivo confezionato dal C costituirebbe frutto di un evidente errore materiale, in quanto il 15 (ed a differenza del 25) non cadeva di domenica. Sul punto, è agevole osservare che il sig. C ha effettivamente dichiarato di aver visionato l’autovettura di domenica ma ha anche aggiunto che il preventivo è stato sviluppato nei giorni successivi, di talchè è solo la valutazione dei danni che risulta svolta di domenica mentre non vi è alcuna contraddizione con la data successiva (e dunque il 15.6.2010) in cui il preventivo risulta confezionato;

f) Non si rivelano poi condivisibili gli ulteriori asserti difensivi volti a svilire la prova logica legata all’utilità di una falsificazione del modello CID, che secondo il ricorrente avrebbe potuto avvantaggiare solo il sig. S C, indicato quale soggetto assicurato e proprietario del veicolo. Ed, invero, già in riferimento al contenuto descrittivo del suindicato modello deve rilevarsi che il C viene indicato, non già come proprietario dell’auto danneggiata, ma solo come soggetto assicurato, di talchè giammai – in ragione di tale qualità – avrebbe potuto beneficiare di un eventuale indennizzo. D’altro canto, appare del tutto inverosimile ipotizzare che l’attività di liquidazione dei danni – che inevitabilmente avrebbe richiesto una perizia sul bene danneggiato – potesse aver luogo senza la consapevole partecipazione del proprietario.

g) parimenti non decisive si rivelano le residue argomentazioni difensive articolate in riferimento all’ulteriore condotta di acquisizione di una dichiarazione di comodo dalla concessionaria recante una descrizione dello stato della vettura come non danneggiata. Nel costrutto giuridico attoreo l’ipotesi accusatoria risulterebbe vanificata dalla mancata acquisizione del documento in argomento. Di contro, ciò che qui viene in rilievo non è il documento in sé ma il fatto storico della richiesta effettuata dal ricorrente, e poi assecondata dal R, che trova conferma nelle convergenti deposizioni testimoniali rese dal sig. R e dal dr. Monti. Peraltro, occorre soggiungere che, in relazione a siffatto episodio, il ricorrente è stato assolto in sede penale con la formula “il fatto non costituisce reato” con un accertamento implicito, dunque, in ordine alla effettiva verificazione del fatto. In siffatte evenienze, nell'ipotesi cioè di assoluzione con sentenza irrevocabile perchè "il fatto non costituisce reato", il giudicato penale, ai sensi dell'art. 653 c.p.p. (come modificato dalla L. n. 97 del 2001, art. 1), non preclude in sede disciplinare una autonoma valutazione del fatto stesso, in quanto l'illecito penale e quello disciplinare operano su piani differenti e ben può un determinato comportamento del dipendente rilevare sotto il profilo disciplinare, anche se lo stesso non è punito dalla legge penale, fermo restando il solo limite dell'immutabilità dell'accertamento dei fatti nella loro materialità, così come compiuto dal giudice penale (cfr. Cassazione civile sez. lav. n 13575 del 21/06/2011).

In definitiva, le argomentazioni censoree non intaccano la complessiva solidità dell’impianto motivazionale su cui riposano gli atti impugnati se analizzati, come necessario, nel loro complesso, poichè le rilevate incongruenze si rivelano insussistenti ovvero, nella misura in cui riscontrate, trovano una giustificazione logica all’esito di una lettura integrale degli atti.

Infine, deve ritenersi del tutto inconferente ai fini del presente giudizio la denunciata falsità della dichiarazione (apparentemente proveniente dalla moglie del ricorrente) recante il conferimento di un incarico allo studio di consulenza automobilistica “La Generale” di Striano per l’immatricolazione dell’autovettura Mercedes, falsità desumibile dal fatto che il predetto documento reca una data, quella del 21.5.2004, in cui l’autovettura era stata già immatricolata e perfino venduta. Tale ulteriore episodio, per il quale lo stesso ricorrente ha trasmesso la relativa notitia criminis all’autorità competente, non ha acquisito, contrariamente a quanto dedotto, concreta rilevanza ai fini dell’applicazione della sanzione in argomento e, quindi, va ritenuto, in questa sede, del tutto inconferente.

Le medesime ragioni fin qui esposte giustificano la reiezione anche delle ulteriori censure con cui parte ricorrente lamenta la sostanziale elusione delle articolate richieste istruttorie avanzate in sede disciplinare e volte all’acquisizione di documenti ovvero all’esperimento di perizie calligrafiche, segnatamente sul modello CID ovvero sul contratto di acquisto.

Tale è, infatti, il senso del motivato rifiuto opposto dall’Amministrazione intimata alla richiesta di ulteriori approfondimenti in cui si evidenzia che l’ulteriore sviluppo dell’istruttoria nel senso auspicato dal ricorrente non varrebbe comunque a spostare in maniera decisiva l’asse del risultato probatorio ad oggi acquisito in quanto verterebbe su profili complementari.

E nella traiettoria argomentativa all’uopo seguita il riferimento alle analoghe considerazioni svolte dal giudice penale viene effettuato solo a conforto di una valutazione effettuata anche e soprattutto in via autonoma.

Anche sul punto il Collegio non può che prendere atto della plausibilità logica di tale opzione rilevando come effettivamente le acquisizioni documentali richieste si rivelano superflue in quanto i fatti in questione risultano già accertati attraverso plurimi e convergenti strumenti gnoseologici aventi piena dignità probatoria.

Le stesse indagini peritali più volte sollecitate non varrebbero, invero, a scalfire l’impianto probatorio: un’eventuale accertamento sulla natura apocrifa della sottoscrizione apposta dal ricorrente in calce al CID esaurirebbe la sua efficacia solo nell’escludere che sia stato il ricorrente a provvedere materialmente, e di suo pugno, al confezionamento del documento falso. Tuttavia resterebbe il fatto incontrovertibile della falsificazione del documento e della sua evidente strumentalità al conseguimento di un ingiustificato indennizzo di cui avrebbe potuto beneficiare solo il ricorrente (recte la moglie, formale intestatario dell’autovettura) con conseguente prova logica della sostanziale imputabilità al predetto delle condotte in addebito (ancorchè realizzate attraverso l’ausilio di terze persone). E ciò ovviamente nell’ambito di una valutazione di insieme che tenga conto anche delle ulteriori e convergenti risultanze istruttorie in cui anche l’episodio in argomento armonicamente si inserisce.

Lo stesso è a dirsi rispetto all’ulteriore accertamento peritale sui modelli difformi del contratto di vendita, essendo già evidente il dato della inconciliabilità dei due documenti che, però, come già sopra anticipato, potrebbe trovare una spiegazione compatibile con le altre risultanze di causa.

Né trova conferma l’ulteriore deduzione attorea circa la mancata considerazione del vissuto professionale ovvero della complessiva personalità del ricorrente.

Di contro dagli atti del procedimento disciplinare si evince che, in conformità alla disciplina di settore, sono state considerate tutte le circostanze valutabili a favore soggetto incolpato nell’ambito di una necessaria valutazione di insieme.

Sul punto, deve ribadirsi che l'Amministrazione dispone di un ampio potere discrezionale nell'apprezzare autonomamente la rilevanza disciplinare dei fatti, di talchè, una volta verificata la valutazione degli elementi suddetti, l'accertamento della proporzionalità della sanzione all'illecito disciplinare contestato e la graduazione della sanzione stessa, risolvendosi in giudizi di merito da parte dell'amministrazione, sfuggono al sindacato di questo giudice, salvo che non si rilevi una loro manifesta illogicità o la contraddittorietà, qui non ravvisabili.

In definitiva, gli atti depositati dall’Amministrazione dimostrano che l’istruttoria svolta in seno al procedimento disciplinare è stata sufficientemente accurata, superando ogni contestazione mossa dall’incolpato nella sede disciplinare.

Le risultanze del giudizio penale, da cui trae alimento la sanzione disciplinare, sono state parimenti attentamente valutate dall’Amministrazione nel corso del procedimento disciplinare.

Di poi, il provvedimento finale costituisce coerente espressione delle suddette risultanze e non riflette alcuna illogicità né travisamento dei fatti né ingiustizia manifesta, rivelandosi proporzionato alla gravità dei fatti, peraltro di immediata percezione, oltre che coerente alla disciplina di settore (id est articolo 1352 c.o.m.), non potendo dubitarsi della chiara idoneità degli addebiti a concretare palesi violazioni dei doveri di istituto.

Quanto al governo delle spese di giudizio il Collegio ritiene che la complessità degli accertamenti svolti ne giustifichi la compensazione.

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