TAR Roma, sez. 2Q, sentenza 2020-06-18, n. 202006668
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Pubblicato il 18/06/2020
N. 06668/2020 REG.PROV.COLL.
N. 16168/2019 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Seconda Quater)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 16168 del 2019, proposto dal sig. -OMISSIS- -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avv.ti D G, F T, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, largo Messico, n. 7;
contro
- Segretariato Generale della Giustizia Amministrativa, in persona del Segretario p.t.;Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente p.t.;Ministero dell'Economia e delle Finanze, in persona del Ministro p.t. Consiglio di Stato, in persona del Presidente p.t., tutti rappresentati e difesi dall'Avvocatura dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
per l’accertamento e la declaratoria del diritto:
a percepire il trattamento economico spettante senza le decurtazioni previste dall’art. 13 del D.L. 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla Legge 23 giugno 2014, n. 89, e dall’art. 23-ter del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla Legge 22 dicembre 2011, n. 214;
e, conseguentemente, per l’annullamento
previa sospensione dell’efficacia:
del provvedimento Prot. n. 21643/T.E. del 18/12/2019, comunicato via PEC in pari data del Segretariato Generale della Giustizia Amministrativa Ufficio Gestione del Bilancio e del Trattamento economico e previdenziale, avente oggetto “Anno 2014 – Anno 2015 – Anno 2016 - Anno 2017 – Anno 2018 - Applicazione art. 23 ter, comma 1, del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201 convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 - Art. 13, comma 1, del d.l. 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni dalla legge 23 giugno 2014, n. 89. Istanza di riesame – Recuperi, secondo cui a partire dalla prossima mensilità di gennaio e sino alla mensilità di dicembre 2020 - si procederà, nel rispetto del limite massimo retributivo vigente, al recupero dei maggior compensi pari ad € 31.481,26 (per una rata mensile di € 2.623,44, inferiore al quinto cedibile), percepiti in qualità di giudice tributario negli anni 2015-2018”,
nonché, per l’annullamento e/o la disapplicazione
previa sospensione dell’efficacia:
- degli atti e provvedimenti del segretario generale della giustizia amministrativa, non conosciuti, emessi in applicazione dell’art. 23-ter, comma 1, del D.L. 6 dicembre 2011, convertito, con modificazioni, dalla Legge 22 dicembre 2011, n. 214 e dell’art. 13, comma 1, del D.L. 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla Legge 23 giugno 2014, n. 89, con cui si è proceduto alla rideterminazione del trattamento economico spettante al ricorrente per gli anni, rispettivamente, 2014 - 2020, nonché ai conseguenti recuperi, decurtazioni e rideterminazioni;
- di tutti gli atti agli stessi presupposti, consequenziali e comunque connessi, anche allo stato non conosciuti;
e per la condanna:
dell’amministrazione al versamento e alla restituzione delle somme illegittimamente recuperate e trattenute, con interessi legali e rivalutazione monetaria.;
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Segretariato Generale della Giustizia Amministrativa, della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero dell'Economia e delle Finanze e del Consiglio di Stato;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l’art. 84 D.L. n. 18/2020, convertito con modificazioni dalla Legge 24 aprile 2020, n. 27;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 giugno 2020 la dott.ssa R M come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con ricorso notificato e depositato in data 24.12.2019, il ricorrente, nella qualità di Presidente aggiunto del Consiglio di Stato nonché Presidente di Sezione della Commissione tributaria provinciale di Roma, con riconoscimento di un compenso lordo di € 249,00 al mese, oltre quota variabile sulla produttività, a fronte delle note in epigrafe indicate con cui il Segretariato Generale della Giustizia Amministrativa gli comunicava, in applicazione del cd. tetto massimo retributivo (di cui all’art. 23 ter, comma 1, del d.l. 6 dicembre 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 ed art. 13, comma 1, del d.l. 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89), la rideterminazione del trattamento economico allo stesso spettante a decorrere dall’anno 2014, con conseguente recupero di quanto in eccedenza percepito, ha sostanzialmente esperito una domanda di accertamento - veicolata dalla formale impugnazione delle comunicazioni in questione, invero prive di valore provvedimentale – del proprio diritto a non subire alcuna detrazione e, quindi, ad ottenere la restituzione delle somme indebitamente recuperate e trattenute, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria.
Il ricorso risulta affidato ai motivi di diritto appresso sintetizzati e raggruppati per censure omogenee.
- “ 1) Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 13 del D.L. n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 89/2014, e dell’art. 23-ter, comma 1, del D.L. n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 214/2011, anche in riferimento all’art. 1, comma 489, della 1. n. 147/2013, nonché dell’art. 3-bis del D.L. 30 settembre 2005, n. 203. Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche, in particolare per irragionevolezza, irrazionalità, illogicità, erronea valutazione dei presupposti di fatto e di diritto, travisamento, manifesta ingiustizia, disparità di trattamento e contraddittorietà. Difetto di motivazione. Violazione degli artt. 1, 3, 4, 35, 36, 38, 53, 97, 100, 101, comma secondo, 104, comma primo, e 108, comma secondo, Cost. ”.
Ad avviso di parte ricorrente, giusta il disposto di cui all’art. 23 er D.L. n. 201/2011, i redditi la cui eccedenza, rispetto al limite di euro 240.000 annui, determina il prelievo del quod superest di cui si discute, sarebbero esclusivamente quelli conseguiti nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni.
Nel novero di tali redditi non rientrerebbero, per l’effetto, i compensi percepiti dal ricorrente quale giudice tributario in quanto munus pubblico che non comporta l’instaurazione di un rapporto di pubblico impiego né di lavoro autonomo nei confronti della p.a., trattandosi piuttosto di un rapporto di servizio onorario.
Tanto basterebbe a rendere illegittimo il gravato provvedimento, che pretenderebbe di elidere un diritto soggettivo, costituzionalmente garantito all’art. 36 Cost., dell’odierno ricorrente.
- “2 ) Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 13 del D.L. n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 89/2014, e dell’art. 23-ter, comma 1, del D.L. n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 214/2011, anche in riferimento all’art. 1, comma 489, della 1. n. 147/2013, nell’ipotesi il motivo sub 1) non sia accolto e si ritenga dunque applicabile il divieto ”.
L’ art. 13 del d.l. n. 66/2014 sarebbe stato violato nella parte in cui stabilisce il limite del tetto retributivo nell’importo ivi “fissato in euro 240.000 annui al lordo dei contributi previdenziali ed assistenziali e degli oneri fiscali a carico del dipendente”.
Nel novero di siffatti contributi previdenziali rientrerebbero esclusivamente quelli a carico del dipendente e non anche quelli a carico del datore di lavoro, che sarebbero in misura di gran lunga superiore rispetto ai primi (88%).
La disposizione in questione, avente carattere eccezionale, non potrebbe essere interpretata in via estensiva di talché l’importo da confrontare con il limite di euro 240.000 avrebbe dovuto essere decurtato dell’importo dei contributi previdenziali ed assistenziali relativi alla posizione del ricorrente ed a carico del datore di lavoro.
Inoltre, il regime del tetto massimo retributivo non avrebbe potuto essere applicato nei confronti del ricorrente in considerazione dell’antecedenza cronologica degli incarichi dallo stesso ricoperti rispetto alla data del 1° maggio 2014, a decorrere dalla quale il Legislatore, giusta il disposto di cui all’art. 13 comma 1, del d.l. 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, ha fissato in euro 240.000 annui il limite massimo retributivo riferito al primo presidente della Corte di cassazione.
Ad avviso del ricorrente, avrebbe, infatti, dovuto applicarsi, in via estensiva/analogica, la disposizione derogatoria di cui all’art. 1, comma 489 l. n. 147/2013 la quale, avuto riguardo ai soggetti già titolari di trattamenti pensionistici erogati da gestioni previdenziali pubbliche, esonera dall’applicazione del divieto di cumulo oltre il cd. tetto massimo “i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza prevista negli stessi".
Diversamente opinando, si legittimerebbero, a fronte dell’esercizio della medesima attività, ingiustificate disparità di trattamento avuto riguardo alla posizione di altri giudici tributari, in relazione ai quali le medesime trattenute non sono state operate, con conseguente frustrazione del principio generale della certezza delle situazioni giuridiche, che non potrebbe essere leso da disposizioni retroattive, nonché dei principi costituzionali di cui agli artt. 1, 3, 4, 35, 36, 38, 97, 100, 101, comma secondo, 104, comma primo, e 108, comma secondo, Cost..
- “ 3) Illegittimità derivata per illegittimità costituzionale dell’art. 13 del D.L. n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 89/2014 e dell’art. 23-ter, comma 1, del D.L. n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 214/2011, in relazione agli artt. 1, 3, 4, 35, 36, 38, 97,100,101,104,108 e 117, comma primo, Cost .”;
- “ 4) Illegittimità costituzionale per violazione del principio della tutela dell'affidamento, di cui agli artt. 3 e 117, comma 1, della Cost. e 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo:
- dell’art. 23-ter, comma 1, del D.L. n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 214/2011;
- dell’art. 1, comma 471, della Legge n. 147/2013, come modificato dall’art. 13, comma 2, lett. a), del D.L. n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 89/2014;
- dell’art. 1, comma 472, della Legge n. 147/2013, come modificato dall’art. 13, comma 2, lett. b), del citato D.L. n. 66/2014;
- dell’art. 1, comma 473, della Legge n. 147/2013, come modificato dall’art. 13, comma 2, lett. c), del citato D.L. n. 66/2014;
- dell’art. 1, commi 474 e 475, della Legge n. 147/2013;
- dell’art. 13 del citato D.L. n. 66/2014”;
- “5) Illegittimità costituzionale dell’art. 23-ter, comma 1, del D.L. n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 214/2011, e dell’art. 1, commi 471, 472, 473, 474 e 475 della Legge n. 147/2013, nonché dell’art. 13 del D.L. n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla 1. n. 89/2014, per violazione degli artt. 3,100,101,104 e 108 Cost.”;
- “6) Violazione e falsa applicazione degli artt. 11 e 12 della Legge 2 aprile 1979, n. 97 e dell’art. 3, comma primo, della Legge 6 agosto 1984, n. 425, dato che la normativa sul tetto stipendiale di euro 240.000 annui incide, rendendolo non operativo, sul meccanismo di adeguamento delle retribuzioni dei magistrati e sulla relativa progressione economica.
Illegittimità costituzionale dell’art. 23-ter, comma 1, del d.l. n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dalla 1. n. 214/2011, dell’art. 1, commi 471, 472, 473, 474 e 475 della 1. n. 147/2013, nonché dell’art. 13 del d.l. n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla 1. n. 89/2014, per violazione degli artt. 3,36, 53, 97,100,101,104 e 108 Cost.”;
- “7) Illegittimità costituzionale dell’art. 23-ter, comma 1, del D.L. n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 214/2011, dell’art. 1, commi 471, 472, 473, 474 e 475 della Legge n. 147/2013, nonché dell’art. 13 del D.L. n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 89/2014, per violazione degli artt. 3 e 53 Cost.”;
- “8) Illegittimità costituzionale dell’art. 23-ter, comma 1, del D.L. n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 214/2011, e dell’art. 13 del D.L. n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 89/2014, per violazione e falsa applicazione dell’art. 77 Cost.
Illegittimità derivata per contrasto con la normativa costituzionale ”;
In via subordinata, il ricorrente ha dedotto, mediante la formulazione di articolate deduzioni difensive, l’illegittimità costituzionale delle disposizioni di cui agli artt. dell'art. 13 del d.l. n. 66/2014, convertito, con modificazioni, dalla 1. n. 89/2014 e dell'art. 23-ter, comma 1, del d.l. n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dalla 1. n. 214/2011, per violazione degli artt. 1, 3, 4, 35, 36, 38, 97, 100, 101, 104, 108 e 117, comma primo, della Costituzione.
In primo luogo, i citati artt. 13 del d.l. n. 66/2014 e 23-ter, comma 1, del d.l. n. 201/2011 sarebbero costituzionalmente illegittimi per evidente disparità di trattamento e contrasterebbero con il principio di ragionevolezza, poiché regolerebbero in maniera opposta situazioni sostanzialmente identiche, senza alcuna giustificazione ragionevole o rilevante. Ciò con riferimento anche ai magistrati in servizio ma titolari di trattamenti pensionistici, per i quali la legge fa "salvi i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza prevista negli stessi" (art. 1, comma 489, della l. n. 147/2013).
Sotto altro profilo, considerato che la decurtazione opera sul trattamento connesso all'attività di magistrato, sarebbe evidente la violazione dei principi costituzionali di cui agli artt. 101, comma secondo, e 104, comma primo, che sanciscono l'indipendenza e l'autonomia della magistratura da ogni altro potere;precetto che andrebbe salvaguardato anche sotto il profilo economico.
Inoltre, la suddetta decurtazione, proprio in quanto incidente sul trattamento economico percepito per l'attività di magistrato, violerebbe sia l'art. 36 Cost., che riconosce al lavoratore il " diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro " (secondo Corte Cost. n. 1/1978 a parità di prestazioni corrisponde parità di retribuzione), sia l'art. 38 Cost. in considerazione delle incidenze sul trattamento pensionistico.
In linea di principio, nulla vieterebbe al legislatore di modificare (anche in peius ) la disciplina generale cui è sottoposto un rapporto di lavoro – nella specie di pubblico impiego - ma le eventuali norme innovative non potrebbero ledere in alcun modo, per come pretenderebbero le amministrazioni evocate in giudizio, le posizioni di diritto quesito già entrate a far parte della sfera giuridica dei singoli soggetti così operando un'ingiustificata sperequazione tra posizioni giuridiche simili, con conseguente violazione dei principi costituzionali summenzionati.
Il cumulo della retribuzione percepita dal ricorrente quale magistrato in servizio presso la giustizia amministrativa ed i compensi allo stesso dovuti in relazione alla funzione giurisdizionale di giudice tributario appare, dunque, al ricorrente irragionevole, irrazionale e illogico in quanto determina lo svolgimento della seconda a “titolo gratuito”, oltre che manifestamente ingiusto, espressione di disparità di trattamento e violativo dei principi di eguaglianza (di cui all'art. 3 Cost.), di buon andamento e di imparzialità dell'amministrazione (art. 97 Cost.), nonché di adeguatezza e proporzionalità.
Si legittimerebbero, infatti, situazioni differenti nel trattamento retributivo dei giudici tributari i quali, solo a causa del diverso trattamento economico già in godimento nella qualifica magistratuale, verrebbero a percepire un compenso di ammontare diverso o addirittura dovrebbero svolgere l'attività gratuitamente, nonostante l’esercizio delle medesime attività e funzioni, con analoghe responsabilità. Ne conseguirebbe non soltanto la violazione dell’art. 36 della Costituzione ma anche i principi di autonomia ed indipendenza di cui agli artt. 101, comma secondo, e 108, comma secondo, Cost., applicabili anche al giudice tributario, esercente una vera e propria funzione giurisdizionale preesistente alla Costituzione.
Risulterebbero, quindi, frustrati i principi costituzionali di cui agli artt. 1, 3, 36, 97, 101, comma secondo, 102, in connessione con la VI disposizione transitoria e finale, 108, comma secondo, 111, commi primo e secondo, 117, comma primo, Cost. e 6 della CEDU, nonché ai principi di adeguatezza, ragionevolezza e proporzionalità.
La retroattività della norma in questione, comportante un prelievo di natura sostanzialmente tributaria, produrrebbe effetti contrari ai principi di ragionevolezza, proporzionalità e gradualità, in quanto lederebbe il principio di rango costituzionale dell'affidamento, con violazione dell'art. 3 Cost. e dell'art. 117 Cost. per violazione dell'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la 1. 4 agosto 1955, n. 848. Risulterebbero, inoltre, frustrati i principi di eguaglianza ex art. 3 in combinato disposto con il principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.
La censurata normativa sul tetto retributivo produrrebbe, inoltre, l’illegittimo effetto di escludere, in via definitiva, che il trattamento economico in godimento al ricorrente venga adeguato o ulteriormente migliorato per effetto di progressione nella carriera. Ciò risulterebbe contrastante oltre che con i principi affermati negli artt. 3 e 97 Cost., anche con quelli di cui di cui all'art. 108, comma primo, Cost. secondo cui "Le norme sull'ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge". Si produrrebbe, infatti, una modifica del trattamento economico dei magistrati in assenza di un intervento legislativo ad hoc che non può conseguire indirettamente a singole disposizioni tese a stabilire un tetto a tutto quanto corrisposto a titolo di prestazioni lavorative e a carico delle finanze pubbliche.
Infine, le disposizioni censurate determinerebbero una “riforma ordinamentale” del tutto inconciliabile con i presupposti della decretazione d’urgenza di cui all’art. 77 Cost.
Le amministrazioni pubbliche evocate in giudizio, per il tramite della difesa erariale, dopo aver preliminarmente eccepito il difetto di legittimazione passiva del Ministero dell’Economia e delle Finanze, hanno contestato la fondatezza delle domande spiegate dal ricorrente, insistendo per il rigetto del ricorso.
In occasione della pubblica udienza del 9 giugno 2020, in vista della quale le parti hanno presentato articolate deduzioni conclusive e di replica, la causa è stata trattenuta in decisione ex art. 84 D.L. n. 18/2020, convertito con modificazioni dalla Legge 24 aprile 2020, n. 27.
DIRITTO
1. Preliminarmente, il Collegio deve farsi carico di scrutinare l’eccezione, formulata dalla difesa erariale, secondo cui il Ministero dell’Economia e delle Finanze sarebbe privo di legittimazione passiva, essendo stati “impugnati” soltanto atti/provvedimenti adottati dal Segretariato Generale della Giustizia Amministrativa.
1.2 L’eccezione in questione è priva di pregio.
Ed invero, parte ricorrente, legata alla pubblica amministrazione da un rapporto di pubblico impiego non contrattualizzato ex art. 3 D.l.gs. 165/2001, in quanto Presidente Aggiunto del Consiglio di Stato, ha sostanzialmente esperito - veicolandola per il tramite dell’impugnazione di mere “comunicazioni” in realtà prive di valore provvedimentale - una domanda di accertamento del proprio diritto a percepire il trattamento economico allo stesso spettante senza le decurtazioni effettuate dal Segretariato Generale della Giustizia Amministrativa in considerazione dell’intervenuto superamento del cd. tetto massimo retributivo di cui all’art. 23 ter D.L. n. 201/2011, a cagione degli emolumenti corrisposti dal Ministero delle Finanze a fronte della funzione di giudice tributario nel contempo svolta dal ricorrente.
1.3 Posto, dunque, che le decurtazioni de quibus sono state effettuate dal predetto Segretariato in considerazione dell’intervenuta riscossione di emolumenti connessi alla funzione giurisdizionale di magistrato tributario, ritiene il Collegio che il Ministero dell’Economia e delle Finanze, quale ente pubblico erogatore delle somme in questione, sia legittimato a contraddire nel presente giudizio.
2. Il ricorso è infondato.
Ragioni di pregiudizialità logico-giuridica, inducono il Collegio a principiare dall’esame di quell’articolato gruppo di censure, secondo cui, ove non si rinvenissero i presupposti per un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni normative sopra indicate che ne escluda l’applicazione nei confronti del ricorrente, siffatte norme, nella misura in cui determinano una reformatio in peius del trattamento economico di quest’ultimo in relazione a rapporti lato sensu lavorativi in essere rispetto all’entrata in vigore delle stesse, sarebbero illegittime per contrasto con i principi di cui agli artt. 1, 3, 4, 35, 36, 38, 97, 100, 101, 104, 108 e 117, comma primo, della Costituzione oltre che quelli di cui all’art. 6 della C.E.D.U.
3. Orbene, le ragioni di pretesa illegittimità costituzionale, oltre che di incompatibilità con il diritto dell’Unione europea, sollevate dal ricorrente avuto specifico riguardo proprio al regime del divieto di cumulo retributivo oltre il limite del cd. tetto massimo, di cui all’art. 23 ter comma 1, del d.l. n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 214/2011 sono state già affrontate e smentite dalla Corte Costituzionale fin dalla pronuncia del 26 maggio 2017, n. 124.
4. Con la sentenza in questione, infatti, la Consulta ha scrutinato la legittimità non soltanto della disposizione di cui all’art. 1 comma 489 della l. n. 147 del 2013, che vieta alle amministrazioni pubbliche di corrispondere ai titolari di trattamenti pensionistici erogati da gestioni previdenziali pubbliche “trattamenti economici onnicomprensivi” che, sommati a quello pensionistico, eccedano il limite fissato ai sensi dell'articolo 23-ter, comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, ma anche della disposizione di cui al citato art. 23 ter, della cui legittimità questo Tribunale, con l’ordinanza di rimessione iscritta al n. 211 del registro ordinanze 2016, aveva dubitato (si veda capo 2 del “Considerato in diritto” della sentenza Corte Costituzionale n. 124/2017).
4.1 Più precisamente la Corte Costituzionale ha ritenuto di dover affrontare in modo unitario le questioni di legittimità costituzionale proposte avverso le disposizioni normative in parola (art. 1 comma 489 della l. n. 147 del 2013 ed art. 23 comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214) poiché, per come è dato testualmente leggere nella sentenza, “unitaria è la matrice delle norme censurate, pur nella particolarità che le contraddistingue” (così capo 7 del “Considerato in diritto” sentenza Corte Costituzionale n. 124/2017).
5. Giova, in proposito, trascrivere il testo dell’art. 23 ter D.L. n. 201/2011, oggetto del sindacato di legittimità costituzionale di cui alla sentenza summenzionata:
“ 1. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, è definito il trattamento economico annuo onnicomprensivo di chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni nell'ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali, di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, ivi incluso il personale in regime di diritto pubblico di cui all'articolo 3 del medesimo decreto legislativo, e successive modificazioni, stabilendo come parametro massimo di riferimento il trattamento economico del primo presidente della Corte di cassazione ”.
5.1 Prosegue poi la disposizione, statuendo che: “ Ai fini dell'applicazione della disciplina di cui al presente comma devono essere computate in modo cumulativo le somme comunque erogate all'interessato a carico del medesimo o di più organismi, anche nel caso di pluralità di incarichi conferiti da uno stesso organismo nel corso dell'anno ”.
5.2 Completano il quadro applicativo della disposizione in parola:
a) l’art. 13 Decreto-Legge 24 aprile 2014, n. 66 convertito, con modificazioni dalla Legge 23 giugno 2014, n. 89, secondo cui “ A decorrere dal 1° maggio 2014 il limite massimo retributivo riferito al primo presidente della Corte di cassazione previsto dagli articoli 23-bis e 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e successive modificazioni e integrazioni, è fissato in euro 240.000 annui al lordo dei contributi previdenziali ed assistenziali e degli oneri fiscali a carico del dipendente. A decorrere dalla predetta data i riferimenti al limite retributivo di cui ai predetti articoli 23-bis e 23-ter contenuti in disposizioni legislative e regolamentari vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto, si intendono sostituiti dal predetto importo. […] ”.
b) l’art. 1 commi 471, 472 e 473 della l. n. 147 del 2013, secondo cui:
“ 471. A decorrere dal 1º gennaio 2014 le disposizioni di cui all'articolo 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, in materia di trattamenti economici, si applicano a chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche retribuzioni o emolumenti comunque denominati in ragione di rapporti di lavoro subordinato o autonomo intercorrenti con le autorità amministrative indipendenti, con gli enti pubblici economici e con le pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, ivi incluso il personale di diritto pubblico di cui all'articolo 3 del medesimo decreto legislativo”.
472. Sono soggetti al limite di cui all'articolo 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, anche gli emolumenti dei componenti degli organi di amministrazione, direzione e controllo delle autorità amministrative indipendenti e delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, ove previsti dai rispettivi ordinamenti .
473. Ai fini dell'applicazione della disciplina di cui ai commi 471 e 472 sono computate in modo cumulativo le somme comunque erogate all'interessato a carico di uno o più organismi o amministrazioni, ovvero di società partecipate in via diretta o indiretta dalle predette amministrazioni ”.
6. Premesso quanto sopra, con la sentenza del 26.05.2017, n. 124, la Corte Costituzionale, partendo proprio dal presupposto della pacifica applicabilità dell’art. 23 ter D.L. n. 201/2011 avuto riguardo ai rapporti lato sensu lavorativi, comportanti esborsi per la finanza pubblica, in essere alla data dell’1 gennaio 2014 e, quindi, dell’indubbia incidenza della stessa su quelli che vengono definiti i cd. “diritti quesiti”, ne ha drasticamente escluso il contrasto con i valori costituzionali che, a detta del ricorrente, verrebbero a vario titolo frustrati ove se ne dichiarasse l’applicazione nei suoi confronti.
7. Più precisamente, la Consulta ha escluso la violazione dei principi costituzionali in questione, sulla scorta delle considerazioni preliminari di cui ai capi da 8.1 a 8.6 del “Considerato in diritto” della sentenza in questione (n. 124/2011), per come appresso trascritte, che il Collegio non può che far proprie:
« 8.1. - La disciplina del limite massimo, sia alle retribuzioni nel settore pubblico sia al cumulo tra retribuzioni e pensioni, si iscrive in un contesto di risorse limitate, che devono essere ripartite in maniera congrua e trasparente.
8.2.- Il limite delle risorse disponibili, immanente al settore pubblico, vincola il legislatore a scelte coerenti, preordinate a bilanciare molteplici valori di rango costituzionale, come la parità di trattamento (art. 3 Cost.), il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e comunque idonea a garantire un'esistenza libera e dignitosa (art. 36, primo comma, Cost.), il diritto a un'adeguata tutela previdenziale (art. 38, secondo comma, Cost.), il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.).
Anche la disciplina del cumulo tra pensioni e retribuzioni «interferisce con molteplici valori di rango costituzionale, come il diritto al lavoro (art. 4 Cost.), il diritto a una prestazione previdenziale proporzionata all'effettivo stato di bisogno (art. 38, secondo comma, Cost.), la solidarietà tra le diverse generazioni che interagiscono nel mercato del lavoro (art. 2 Cost.), in una prospettiva volta a garantirne un equo ed effettivo accesso alle opportunità di occupazione che si presentano» (sentenza n. 241 del 2016, punto 5. del Considerato in diritto).
8.3. - Nel settore pubblico non è precluso al legislatore dettare un limite massimo alle retribuzioni e al cumulo tra retribuzioni e pensioni, a condizione che la scelta, volta a bilanciare i diversi valori coinvolti, non sia manifestamente irragionevole.
In tale ottica, si richiede il rispetto di requisiti rigorosi, che salvaguardino l'idoneità del limite fissato a garantire un adeguato e proporzionato contemperamento degli interessi contrapposti. Il fine prioritario della razionalizzazione della spesa deve tener conto delle risorse concretamente disponibili, senza svilire il lavoro prestato da chi esprime professionalità elevate.
8.4. - L'indicazione precisa di un limite massimo alle retribuzioni pubbliche non confligge con i princìpi appena richiamati.
La disciplina in esame, pur dettata dalla difficile congiuntura economica e finanziaria, trascende la finalità di conseguire risparmi immediati e si inquadra in una prospettiva di lungo periodo. Pertanto, la circostanza che la relazione tecnica non computi i risparmi attesi non è di per sé sintomatica dell'irragionevolezza della norma.
Le molteplici variabili in gioco precludono una valutazione preventiva ponderata e credibile. Non a caso, nel dibattito parlamentare, che prelude all'approvazione dell'art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, si è attribuito alla norma censurata un impatto quantificabile solo «a consuntivo».
L'impossibilità di quantificare preventivamente la riduzione della spesa non implica, tuttavia, l'insussistenza di tali effetti, da stimare nella lunga durata, e non contraddice la ratio dell'intervento normativo, volto a perseguire obiettivi di interesse generale.
In questa prospettiva si deve considerare il vincolo di destinazione che il legislatore imprime alle risorse derivanti dall'applicazione delle norme censurate, stabilendo che siano destinate annualmente al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato (art. 23-ter, comma 4, del d.l. n. 201 del 2011 e art. 1, comma 474, della legge n. 147 del 2013), appartenente a una contabilità speciale di tesoreria.
La disciplina del limite alle retribuzioni pubbliche, peraltro, si configura come misura di contenimento della spesa, assimilabile agli altri capillari interventi che il legislatore ha scelto di apprestare negli àmbiti più disparati (decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, recante «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122;decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, recante «Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria», convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 11;decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, recante «Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini», convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135;decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, recante «Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale», convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89;decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, recante «Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari», convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114).
Tale contenimento della spesa è avallato dalla Corte dei conti nella Relazione sul lavoro pubblico dell'anno 2012. L'imposizione di un limite massimo alle retribuzioni pone rimedio alle differenziazioni, talvolta prive di una chiara ragion d'essere, fra i trattamenti retributivi delle figure di vertice dell'amministrazione.
Inoltre, sin dalle prime applicazioni, riferibili all'art. 3, commi 43 e seguenti, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008)», le disposizioni sui limiti retributivi si affiancano ad obblighi penetranti di pubblicità degli incarichi. Il contenimento della spesa non è mai perseguito quale fine in sé, ma in concomitanza con obiettivi a più ampio spettro, che mirano a rendere trasparente la gestione delle risorse pubbliche.
La disciplina oggi scrutinata persegue finalità di contenimento e complessiva razionalizzazione della spesa, in una prospettiva di garanzia degli altri interessi generali coinvolti, in presenza di risorse limitate.
8.5. - La non irragionevolezza delle scelte del legislatore si combina con la valenza generale del limite retributivo, che si delinea come misura di razionalizzazione, suscettibile di imporsi a tutti gli apparati amministrativi (sentenza n. 153 del 2015, con riguardo all'imposizione di tale limite alle autonomie territoriali).
Il limite retributivo, dapprima riferito alle amministrazioni statali, in base all'art. 3, comma 43, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge finanziaria 2008)», ha via via attratto nella sua orbita anche le pubbliche amministrazioni diverse da quelle statali, le autorità amministrative indipendenti (art. 1, commi 471 e 475, della legge n. 147 del 2013), le società partecipate in via diretta o indiretta dalle amministrazioni pubbliche (art. 13, comma 2, lettera c, del d.l. n. 66 del 2014).
Infine, a conferma di tale linea evolutiva della legislazione, il limite massimo retributivo di 240.000 euro annui è stato esteso anche agli amministratori, al personale dipendente, ai collaboratori e ai consulenti del soggetto affidatario della concessione del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale, la cui prestazione professionale non sia stabilita da tariffe regolamentate (art. 9, commi 1-ter e 1-quater della legge 26 ottobre 2016, n. 198, recante «Istituzione del Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione e deleghe al Governo per la ridefinizione della disciplina del sostegno pubblico per il settore dell'editoria e dell'emittenza radiofonica e televisiva locale, della disciplina di profili pensionistici dei giornalisti e della composizione e delle competenze del Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti. Procedura per l'affidamento in concessione del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale»).
L'elemento della valenza generale è stato già considerato da questa Corte di importanza dirimente nel vaglio di altre misure (sentenze n. 178 del 2015 e n. 310 del 2013).
La portata generale della disciplina, che non si indirizza specificamente alla magistratura, quale «ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» (art. 104 Cost.), e non mira a delinearne il rapporto con lo Stato nei termini di una mera dialettica contrattuale o a compromettere le garanzie di una retribuzione adeguata all'importanza della funzione svolta (sentenza n. 223 del 2012), fa perdere consistenza alle censure di violazione dell'autonomia e dell'indipendenza della funzione giurisdizionale [riferita, ovviamente, sia a quella ordinaria, che a quella amministrativa ovvero tributaria ovvero ancora contabile].
A fronte di una disciplina che persegue obiettivi generali di razionalizzazione dell'intero comparto pubblico e individua il limite ai compensi nella retribuzione del Primo Presidente della Cassazione, non si ravvisa alcuna indebita interferenza con l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, presidiate dalla Carta fondamentale anche per quel che attiene agli aspetti retributivi (sentenza n. 1 del 1978).
8.6. - Tale limite, costante sin dagli esordi delle discipline restrittive - art. 1, comma 593, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge finanziaria 2007)» - è oggi ancorato a un parametro fisso (240.000 euro annui), svincolato dal mutevole cursus honorum della persona chiamata di volta in volta a ricoprire la carica di Primo Presidente. La conformazione della disciplina, che supera l'aleatorietà di un parametro imprevedibile, rivela l'intenzione del legislatore di porre un limite generale, conoscibile ex ante, tale da assicurare una sollecita - e tendenzialmente stabile - pianificazione delle risorse.
Il limite, così previsto dal legislatore, non è inadeguato, in quanto si raccorda alle funzioni di una carica di rilievo e prestigio indiscussi. Proprio in virtù di tali caratteristiche, esso non vìola il diritto al lavoro e non svilisce l'apporto professionale delle figure più qualificate, ma garantisce che il nesso tra retribuzione e quantità e qualità del lavoro svolto sia salvaguardato anche con riguardo alle prestazioni più elevate.
Nell'esercizio della sua discrezionalità, il legislatore ben potrebbe, secondo un ragionevole contemperamento dei contrapposti interessi, modificare nel tempo il parametro prescelto, in modo da garantirne la perdurante adeguatezza alla luce del complessivo andamento della spesa pubblica e dell'economia ”.
8. Trattasi, in buona sostanza, di scelte discrezionali tutt’altro che illogiche ed irragionevoli, ovvero discriminatorie, giacché coloro i quali non risultano assoggettati al cd. divieto di cumulo oltre il tetto massimo si trovano in posizioni differenti rispetto a coloro che, come il ricorrente, ne rimangono “colpiti”, avendo raggiunto un livello retributivo superiore del “primo presidente della Corte di cassazione”.
8.1 Se è vero, quindi, che può corrispondere ad un rilevante interesse pubblico il ricorso a professionalità particolarmente qualificate, che già fruiscono di trattamenti economici elevati prossimi, eguali ovvero superiori a quello del primo presidente della Corte di cassazione, tuttavia, il carattere limitato delle risorse pubbliche giustifica la necessità di una predeterminazione complessiva - e modellata su un parametro prevedibile e certo - delle risorse che l'amministrazione può corrispondere in capo ad un soggetto a titolo di “trattamento economico annuo omnicomprensivo”.
8.2 Inquadrata in queste più ampie coordinate e ancorata a una cifra predeterminata, che corrisponde alla retribuzione del Primo Presidente della Corte di cassazione, la norma censurata attua un contemperamento non irragionevole dei princìpi costituzionali e non sacrifica in maniera indebita il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto;un lavoro che, dunque, deve ritenersi ampiamente remunerato dall’elevato trattamento economico annuo omnia-comprensivo raggiunto, quale quello equivalente al cd. tetto massimo.
9. La disciplina censurata non compromette l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, in virtù della portata generale che la contraddistingue, e non ingenera di per sé arbitrarie discriminazioni tra magistrati appartenenti allo stesso ovvero ad altro ordine giurisdizionale.
10. L’applicazione delle disposizioni normative sopra indicate alla posizione del ricorrente il quale, alla data del 1° gennaio 2014, oltre a rivestire la carica di Presidente Aggiunto del Consiglio di Stato, risultava, nel contempo, Presidente di Sezione della Commissione Tributaria provinciale di Roma, risulta, dunque, ad avviso del Collegio, del tutto coerente con i parametri costituzionali invocati, quali la ragionevolezza (ex art. 3 Cost.) e la tutela dell’affidamento, ex artt. 3 e 117 Cost., in riferimento agli artt. 6 oltre 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo.
11. Il divieto di percepire, nell’ambito di rapporti giuridici in essere al momento dell’entrata in vigore dell’art. 23 ter citato, un “trattamento economico annuo omnicomprensivo” non superiore a quello del primo presidente della Corte di cassazione, applicabile anche al ricorrente, in quanto incluso nel personale in regime di diritto pubblico di cui all'articolo 3 D.lgs. n. 165/2001, risponde, infatti, agli obiettivi d’interesse pubblico lasciati alla discrezionalità dei singoli Stati dell’Unione Europea quanto al contenimento, alla trasparenza ed alla congruità della spesa pubblica, nel quadro dei doveri di solidarietà sociale di cui all’art. 2 della Costituzione e dei principi di buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost.
12. La stessa Corte costituzionale ha più volte chiarito che, salvi i limiti in materia penale derivanti dall'art. 25, comma 2, Cost., non è in linea di principio precluso al legislatore intervenire per mutare la disciplina dei rapporti di durata in corso, anche con disposizioni che modificano in senso sfavorevole situazioni soggettive perfette, purché nel limite del rispetto del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. e del principio della tutela dell’affidamento, di cui agli articoli 3 e 117, comma 1, della Costituzione e all’art. 6 e 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che, nel caso in esame, non appaiono violati (in senso conforme, Corte cost., sentt. n. 92 del 2013, n. 166 del 2012, n. 525 del 2000, n. 211 del 1997, n. 409 del 1995).
13. Ed invero, a fronte di una sempre più pressante esigenza di razionalizzazione dei più disparati trattamenti economici che storicamente hanno caratterizzato un’Amministrazione non sempre in grado di assicurare i massimi livelli di efficienza, in un bilanciamento costituzionalmente orientato di tutti gli interessi in gioco, non può ritenersi prioritaria la mera aspettativa di mantenimento di un trattamento economico gravante sull’erario che, peraltro, sarebbe stato questo sì differenziato, a parità di condizioni – con inevitabili disparità di trattamento - rispetto a quelli venuti ad esistenza all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 147/2013.
14. In altri termini, le descritte finalità di contenimento, trasparenza e razionalizzazione della spesa pubblica determinano, non irragionevolmente, una progressiva decurtazione, disciplinata ex lege, dei possibili ulteriori redditi al raggiungimento del tetto prefissato, indifferenziatamente applicata a tutti i compensi comunque posti a carico della finanza pubblica, senza che ciò possa generare, proprio per la sua trasversalità, illogicità, irragionevolezze ovvero disparità di trattamento né determinare la frustrazione di posizioni di affidamento “legittimo” che, in un equo contemperamento di tutti gli interessi in gioco, possano ritenersi prevalenti rispetto alle summenzionate esigenze di contenimento della spesa pubblica.
15. Trattasi, quindi, di una disciplina che persegue obiettivi generali di razionalizzazione dell'intero comparto, scevra da implicazioni di natura tributaria, con conseguente inconferenza dei richiami operati in ricorso al principio costituzionale della capacità contributiva di cui agli artt. 3 e 53 Cost.
15.1 Ed invero le descritte finalità di contenimento, trasparenza e razionalizzazione della spesa pubblica determinano, non irragionevolmente, una progressiva decurtazione, disciplinata ex lege , dei possibili ulteriori redditi al raggiungimento del tetto prefissato, indifferenziatamente applicata a tutti i compensi comunque posti a carico della finanza pubblica, senza che ciò possa generare, proprio per la sua trasversalità, indebite disparità di trattamento, divenendo quindi non rilevante, la sua invocata qualificazione quale imposizione fiscale, che sembra comunque doversi escludere, in quanto la legge, in estrema sintesi, pone un “tetto” a regime all’erogazione di somme poste a carico della finanza pubblica, anziché imporre un prelievo forzoso sulle somme percepite dal singolo interessato oltre il tetto prefissato (cfr. ordinanza TAR Lazio, 17/04/2015 n. 5715).
16. Premesso ciò, il ricorrente non avrebbe potuto legittimamente confidare nel mantenimento alla percezione di un trattamento economico superiore al cd. tetto massimo, trasversalmente fissato al legislatore al fine di soddisfare esigenze, di rango costituzionale, di complessiva razionalizzazione della spesa pubblica.
16.1 Siffatte esigenze involgono, infatti, interessi pubblici generali, necessariamente prevalenti, in un bilanciamento costituzionalmente ed euro-unitariamente orientato di tutti gli interessi in campo, sull’affidamento del ricorrente, in realtà qualificabile in termini di mera aspettativa priva di rilevanza giuridica.
17. Ci troviamo al cospetto, per come affermato dalla stessa Corte Costituzionale, di misure che, sia pur occasionate dalla difficile congiuntura economica e finanziaria, trascendono le finalità di conseguire risparmi di spesa immediati, inquadrandosi, piuttosto, in un trend di lungo periodo, funzionale a dare concreta attuazione ai doveri di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost. ed ai principi di buon andamento della pubblica amministrazione, perseguendo finalità di interesse generale, nell'ottica della trasparenza, contenimento, razionalizzazione e congruità della spesa pubblica.
17.1 A fronte di siffatte esigenze, la mera aspettativa del singolo non può che considerarsi recessiva, in una prospettiva di necessaria garanzia degli altri interessi generali messi in gioco, con conseguente infondatezza della censura di violazione del principio dell’affidamento sancito dagli artt. 6 e 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
18. La retroattività che connota le disposizioni censurate, destinate ad incidere sui diritti patrimoniali legati a rapporti di durata e, quindi, a comprimere pretesi “affidamenti” circa il mantenimento degli stessi, resiste alla verifica di legittimità costituzionale sollecitata dal ricorrente, in quanto trova adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale.
19. La stessa Corte di Strasburgo, nel valutare la compatibilità delle disposizioni retroattive con i principi imposti dall'art. 6 della CEDU, ha più volte avuto modo di affermare che le norme destinate ad incidere retroattivamente su posizioni giuridiche soggettive consolidate devono trovare la loro ragion d'essere in un motivo imperativo di interesse generale e devono altresì garantire un ragionevole rapporto di proporzionalità tra il contenuto delle disposizioni ablative e lo scopo perseguito.
19.1 Giustificazione che, nel caso in esame, sono certamente rinvenibili nelle esigenze straordinarie di contenimento della spesa pubblica - in una prospettiva sistemica e non anche di breve periodo - che hanno motivato l'intervento contestato. Siffatte peculiari esigenze escludono, quindi, qualsivoglia irragionevolezza ovvero disparità di trattamento rispetto alla mancata previsione di qualsivoglia divieto di cumulo al “settore privato” ovvero “libero professionale”.
20. Quanto fin qui esposto trova conferma nella recente sentenza della Corte Costituzionale n. 236/2017, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell'art. 9 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 che ha assoggettato al regime del limite retributivo di cui all'articolo 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 anche i compensi professionali corrisposti dalle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, agli avvocati dipendenti delle amministrazioni stesse, ivi incluso il personale dell'Avvocatura dello Stato.
21. In tale occasione il Giudice delle Leggi, dopo aver premesso, in termini non diversi da quanto elaborato sul tema dalla Corte EDU, che l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica costituisce un elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto, ha, tuttavia, precisato che “ La tutela dell'affidamento non comporta, tuttavia, che nel nostro sistema costituzionale sia assolutamente interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali modifichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata salvo, qualora si tratti di disposizioni retroattive, il limite costituzionale della materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.). Tali disposizioni, al pari di qualsiasi precetto legislativo, non possono tuttavia trasmodare in un regolamento irrazionale e arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando così anche l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica ”.
22. Ebbene, nel caso in esame, così come in quello affrontato dalla Suprema Corte con la sentenza n. 236/2017, deve escludersi, alla luce delle suesposte considerazioni, che il legislatore, con l’art. 23 ter D.L. n. 201/2011 nonché con l’art. 1 commi 471, 472 e 473 della l. n. 147 del 2013 abbia realizzato una scelta irragionevole e arbitraria.
23. Ciò in quanto le limitazioni e decurtazioni imposte dalla normativa censurata, al pari di quella oggetto del sindacato della Corte definito con la sentenza summenzionata (n. 236/2017), trovano una incontroversa ratio nelle ampiamente evidenziate esigenze di bilancio e di contenimento della spesa pubblica, con conseguente insussistenza di posizioni di legittimo affidamento in capo ai singoli, giuridicamente rilevanti e, quindi, meritevoli di tutela.
24. Del resto, in più occasioni la Corte Costituzionale ha ritenuto non arbitrarie e irragionevoli misure normative dirette a incidere sulla spesa del personale della pubblica amministrazione anche quando l'intervento contestato incideva su diritti maturati nel settore del lavoro pubblico (ex plurimis, sentenze n. 304 e n. 310 del 2013).
25. Va, in proposito, ribadito che secondo la Corte EDU, le ragioni di contenimento della spesa pubblica integrano il requisito del legittimo interesse generale, il quale, ai sensi dell'art. 1 del Protocollo, può giustificare l'ingerenza da parte di un'autorità pubblica nel pacifico godimento dei «beni» tutelati dalla citata disposizione convenzionale, tra questi comprese, soprattutto in materia retributiva e previdenziale, anche le aspettative legittime legate a prestazioni dal contenuto patrimoniale (da ultimo, sentenza 15 aprile 2014, Stefanetti ed altri