TAR Latina, sez. I, sentenza 2018-06-06, n. 201800290

Sintesi tramite sistema IA Doctrine

L'intelligenza artificiale può commettere errori. Verifica sempre i contenuti generati.

Segnala un errore nella sintesi

Sul provvedimento

Citazione :
TAR Latina, sez. I, sentenza 2018-06-06, n. 201800290
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Latina
Numero : 201800290
Data del deposito : 6 giugno 2018
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 06/06/2018

N. 00290/2018 REG.PROV.COLL.

N. 00740/2017 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

sezione staccata di Latina (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso n. 740 del 2017 R.G., proposto da L T, rappresentato e difeso dagli avvocati F M S e S S, elettivamente domiciliato in Latina, in via Monti n. 13, presso lo studio dell’avvocato P;

contro

il comune di Frosinone, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato P T, elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avvocato S in Latina, viale dello Statuto n. 24;

e con l'intervento di

ad opponendum:
M G T, rappresentata e difesa da sé stessa, elettivamente domiciliata in Latina, via C. Battisti, presso lo studio dell’avvocato Taranto;

per l’annullamento, previa sospensione dell’esecuzione

del provvedimento R.G.U. n. 0026398 del 25 maggio 2017, recante annullamento della s.c.i.a. prot. n. 6164 del 6 febbraio 2017 nonché dell’ordinanza di sospensione dei lavori n. 245 del 26 maggio 2017.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Frosinone;

Visto l’atto di intervento;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 aprile 2018 il dott. Davide Soricelli e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Espone il ricorrente di essere proprietario in Frosinone, via S. Giuliano, di un immobile distinto in catasto al foglio n. 47, particella n. 801.

Si tratta di un edificio che risulta composto di due porzioni;
una prima porzione, con struttura portante in muratura, fu realizzata in forza di licenza edilizia rilasciata nel 1955;
la seconda porzione, con struttura in cemento armato, fu realizzata “antecedentemente agli anni sessanta”;
essa fu poi sopraelevata abusivamente e per la sopraelevazione fu chiesto e ottenuto il condono edilizio con concessione a sanatoria n. 6038/S del 27 settembre 1997.

Il 28 maggio 2010 il ricorrente presentò al comune di Frosinone una d.i.a. avente ad oggetto il rifacimento dell’intera copertura del fabbricato;
in data 3 febbraio 2017 era infine presentata una s.c.i.a. in variante (i termini di fine lavori della originaria d.i.a. erano stati nel frattempo prorogati sicchè essa era ancora efficace) avente ad oggetto il recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti ai sensi della legge regionale 16 aprile 2009, n. 13.

Senonché il Comune di Frosinone – attivatosi a seguito di un esposto presentato dall’avvocato M G T, interveniente nel presente giudizio – con nota prot. n. 16023 del 28 marzo 2017 avviava un procedimento per l’annullamento della s.c.i.a. contestando una serie di “problematiche”;
il signor T dava riscontro all’avvio del procedimento contestando ciascuna delle “problematiche” in questione;
senonché il comune riteneva che le deduzioni così presentate non fossero sufficienti a superare tutti i rilievi e pertanto con provvedimento del 25 maggio 2016 annullava la s.c.i.a.;
all’annullamento seguiva in data 26 maggio 2017 un ordine di sospensione dei lavori.

Il signor T – al quale il provvedimento di annullamento era comunicato il 29 giugno 2017 (il provvedimento di sospensione era invece comunicato solo il 4 settembre successivo) – proponeva quindi il ricorso all’esame con cui denuncia: a) l’illegittimità del provvedimento di annullamento per violazione degli articoli 3 e 21-nonies della legge 7 agosto 1990, n. 241 e per difetto di istruttoria e presupposti;
b) l’illegittimità dell’ordine di sospensione dei lavori e comunque la sua sopravvenuta inefficacia.

Il Comune di Frosinone resiste al ricorso. È intervenuta in giudizio ad opponendum l’avvocato M G T – cioè l’autrice dell’esposto che ha indotto il comune a intervenire – che ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile a causa della mancata instaurazione del contraddittorio nei suoi confronti – vantando ella la qualità di unico controinteressato in senso formale – o, in via subordinata, respinto.

Con ordinanza n. 296 del 23 novembre 2017 la sezione ha accolto l’istanza di tutela cautelare e fissato la trattazione all’udienza pubblica del 19 aprile 2018.

DIRITTO

La valutazione della pregiudiziale eccezione d’inammissibilità del ricorso per omessa notifica del medesimo all’avvocato M G T, peraltro intervenuta in giudizio ad opponendum , esige l’accertamento della qualità di controinteressato in senso formale – che l’opponente assume possedere – e l’accertamento, comunque, della attuale validità, o meno, del gravame alla stregua dell’unica notifica dell’atto introduttivo compiuta nei confronti dell’Amministrazione comunale di Frosinone.

La qualità di controinteressato in senso formale ha come suo presupposto l’attribuzione da parte dell’atto impugnato di una specifica utilità, speculare alla lesione lamentata dal ricorrente. Nella fattispecie non ricorrono questi presupposti, dato che l’annullamento della s.c.i.a. non attribuisce alla interveniente alcuna specifica utilità giuridica (speculare alla compressione dello jus aedificandi del ricorrente) e la circostanza che ella aveva presentato l’esposto sulla cui base il comune si è attivato non vale a attribuire la qualità di controinteressato dato che la prevalente giurisprudenza nega al “vicino” presentatore di esposti o denunce la qualità di controinteressato nel giudizio avverso il provvedimento con il quale a seguito dell’esposto o denuncia l’amministrazione abbia esercitato il potere di autotutela (Consiglio di Stato, sez. IV, e febbraio /2016, n. 399).

A prescindere, comunque, dalla riconoscibilità in capo all’opponente della qualifica di controinteressato, il ricorso notificato alla sola Amministrazione può ritenersi valido alla stregua del disposto di cui all’art. 41, comma 2, del codice del processo amministrativo, secondo cui “ qualora sia proposta azione di annullamento il ricorso deve essere notificato, a pena di decadenza, alla pubblica amministrazione e ad almeno uno dei controinteressati che sia individuato nell’atto stesso ”.

In fattispecie il provvedimento di autotutela impugnato non individua soggetti controinteressati alla sua rimozione, laddove solo la comunicazione di avvio del procedimento per l’annullamento d’ufficio fa riferimento ad un esposto ma senza indicarne la provenienza e l’autore. Consegue che il sig. L T a termini di legge non aveva onere di notificare il ricorso a soggetti diversi dall’Autorità che ha adottato il provvedimento, a nulla rilevando che egli sia potuto venire aliunde (per accesso agli atti procedimentali) a conoscenza della – astrattamente ipotizzabile – qualità di controinteressato dell’avv. M G T. Lo spontaneo intervento in giudizio di quest’ultima, con memoria difensiva, esclude la necessità dell’integrazione del contraddittorio iussu iudicis nei suoi confronti.

L’eccezione pregiudiziale è dunque infondata.

Nel merito il ricorso è fondato e va quindi accolto.

Premesso che nella fattispecie la s.c.i.a. presentata dal ricorrente si era “consolidata”, non avendo il Comune di Frosinone inibito nel termine prescritto i lavori, e che il consolidamento della s.c.i.a. si verifica anche in difetto delle condizioni previste dalla legge (come dimostra la circostanza che è la legge stessa a prevedere che la s.c.i.a. possa essere “annullata” dopo il suo consolidamento e il riferimento a un annullamento postula l’esistenza di un vizio di legittimità), va anzitutto osservato che è fondato il primo motivo dato che il provvedimento di annullamento – in violazione di quanto stabilisce l’articolo 21-nonies della legge 7 agosto 1990, n. 241 – non reca alcuna motivazione in punto di interesse pubblico alla rimozione del titolo annullato né tantomeno in punto di necessaria comparazione tra interesse pubblico e interesse privato e di prevalenza del primo sul secondo. Si potrebbe obiettare che una simile motivazione non sarebbe necessaria per il poco tempo intercorso tra il “consolidamento” della s.c.i.a. e l’intervento dell’amministrazione;
va però rilevato in contrario che, se si sostenesse tale tesi, si finirebbe per negare ogni rilevanza alla prescrizione di legge secondo cui l’amministrazione può e deve inibire i lavori entro trenta giorni e si introdurrebbe nel sistema un elemento di profonda incertezza dato che la soluzione che si critica renderebbe, nel silenzio della legge, necessario individuare quale possa essere il “termine ragionevole” entro il quale l’amministrazione può annullare senza motivare sull’interesse pubblico. Pare al Collegio più corretto ritenere che – ferma restando la necessità della motivazione in punto di comparazione tra interesse pubblico e privato (se non altro perché prescritta dalla legge) - il tempo trascorso possa rilevare nel complesso della valutazione da compiersi, nel senso che un intervento molto tempestivo (cioè a immediato ridosso della scadenza del termine per l’ordine di non eseguire i lavori) può giustificare una valutazione di recessività dell’interesse del privato di fronte all’interesse pubblico in particolare nei casi in cui venga in rilievo un’illegittimità non particolarmente grave (nel senso che più è grave il profilo di contrasto dell’intervento con la normativa urbanistico-edilizia più sarà giustificato un intervento a distanza di tempo dal consolidamento della s.c.i.a.).

Si può quindi passare all’esame delle censure di carattere sostanziale che sono parimenti in larga misura fondate.

Il Collegio in particolare condivide l’assunto per così dire generale del ricorrente secondo cui le “problematiche” su cui è basato l’annullamento sono essenzialmente di carattere formale e sarebbero state superabili attraverso integrazioni documentali e/o eventuali modeste modifiche progettuali, dato che l’amministrazione – a differenza di quanto essa sostiene nella memoria difensiva – non ha contestato al ricorrente alcuna falsa rappresentazione della realtà. Insomma le “problematiche” in questione non appaiono tali da giustificare l’impedimento alla realizzazione di un intervento (recupero a fini abitativi di sottotetti) per il quale l’amministrazione a ben vedere non contesta l’esistenza dei presupposti normativi, come fissati dall’articolo 3 della legge regionale 16 aprile 2009, n. 13.

Venendo al merito delle questioni, va premesso che nell’avviso di procedimento il comune aveva contestato al ricorrente – peraltro in modo poco chiaro – sei “problematiche”;
a seguito della memoria partecipativa il comune ha poi accettato le argomentazioni del ricorrente relative alla terza problematica (che era l’unica con cui si contestavano false rappresentazioni dello stato di fatto) e confermato le altre.

Le prime due si riferiscono alla assenza di “dichiarazione di conformità dello stato dei luoghi” e della documentazione fotografica. Ritiene il Collegio che, anche indipendentemente dalle articolate spiegazioni fornite sul punto dal ricorrente, le mancanze in questione non possono in alcun modo giustificare un annullamento a posteriori della s.c.i.a.;
il comune avrebbe potuto (e dovuto) riscontrare immediatamente queste asserite carenze documentali (essendo esse facilmente rilevabili semplicemente attraverso il doveroso controllo formale dei documenti presentati che è stato evidentemente omesso) e chiedere un’integrazione documentale;
non può quindi ritenersi legittimo a posteriori l’annullamento dovendo ritenersi che il comune avrebbe dovuto promuovere una regolarizzazione.

La quarta problematica (la terza infatti, come già accennato, è stata lasciata “cadere” dal comune che ha accettato sul punto le deduzioni del ricorrente) si riferisce all’esistenza sul prospetto principale del fabbricato del ricorrente di due porticati (al primo e al secondo piano) che – secondo il comune – sarebbero privi di legittimità dal punto di vista urbanistico-edilizio. Pare quindi che il comune contesti la sussistenza della condizione della lettera a) dell’articolo 3 della legge regionale sopra citata.

Il Collegio ritiene che le argomentazioni prospettate al riguardo dal ricorrente siano fondate;
questi evidenzia che i due porticati in questione sono di antica origine;
in particolare egli sostiene che queste strutture, che insistono sulla parte più antica del suo immobile (quella realizzata in forza di licenza edilizia del 1955), risalgono a epoca ampiamente anteriore al 1967;
a riprova della risalenza delle due strutture il ricorrente ha allegato al ricorso una vecchia fotografia e gli elaborati di progetto relativi a una veranda da realizzare al piano primo oggetto di concessione edilizia nel 1987 in cui il porticato al primo piano è rappresentato. Il ricorrente rappresenta altresì che in occasione del sopralluogo eseguito nel 1983 dai vigili urbani (sopralluogo a seguito del quale fu rilevata una illegittima sopraelevazione per la quale fu chiesto e ottenuto nel 1997 il condono edilizio) l’unico abuso contestato fu proprio la sopraelevazione a dimostrazione della risalenza dei porticati in questione.

Il Collegio condivide questi argomenti difensivi e, in particolare, l’ultimo, dato che appare ragionevole supporre che, ove i porticati in questione fossero stati abusivamente realizzati dopo il 1967, il ricorrente ne avrebbe chiesto il condono, esattamente come ha chiesto il condono della abusiva sopraelevazione. La mancanza delle strutture nella aerofotogrammetria del 1972 d’altro lato non appare decisiva dato che i porticati in questione sono strutture modeste (come dimostrano le foto allegate alla d.i.a. del 2010) per cui non è irragionevole ritenere – come sostenuto dal ricorrente – che le aerofotogrammetrie eseguite nel 1972 fossero inidonee a dar conto di tal tipo di strutture. Va anche osservato che la stessa amministrazione, pur sostenendo l’inidoneità delle argomentazioni del ricorrente nell’atto impugnato e quindi riconfermando l’assunto della abusività dei porticati, mostra perplessità su questa conclusione dato che non risulta che si sia attivata per la repressione di tale abuso nè ha ritenuto di intervenire sulla d.i.a. del 2010 (in cui i porticati sono rappresentati).

La quinta problematica si riferisce ai locali lavatoio-stenditoio collocati sull’immobile del ricorrente. Al riguardo è opportuno premettere che l’originaria copertura dell’immobile (che consta, come già accennato, di due parti, una realizzata in forza di licenza edilizia del 1955 con struttura portante in muratura e un’altra con struttura in cemento armato realizzata prima del 1960, e poi oggetto di sopraelevazione abusiva condonata nel 1997) consisteva in parte di un tetto e in parte di un terrazzo;
con la d.i.a. del 2010 (che è ormai consolidata) il ricorrente prevedeva la sostituzione della copertura originaria con una nuova copertura che conglobava anche la parte precedentemente occupata dal terrazzo;
la s.c.i.a. in variante presentata nel 2017 prevede infine il recupero a fini abitativi della parte di sottotetto per così dire originaria, con creazione di due unità immobiliari;
la parte di sottotetto corrispondente al “vecchio” terrazzo rimane adibita a lavatoio-stenditoio, come previsto dalla d.i.a. del 2010, con l’unica particolarità che in corrispondenza di esso sono previste portefinestre e due balconi.

Nell’avvio di procedimento il comune avanzava dubbi – peraltro in modo poco chiaro – sulla esistenza dei sottotetti alla data del 31 dicembre 2013 (la legge regionale sul recupero dei sottotetti infatti consente tale operazione per sottotetti esistenti a tale data) e contestava la parte di sottotetto destinata a lavatoio stenditoio sostenendo che l’altezza netta di essa superava i limiti previsti dal regolamento edilizio sicchè si sarebbe creata nuova volumetria non legittimata;
era altresì contestata la previsione di portefinestre e balconi, “pertinenze tipicamente residenziali”.

Il ricorrente nella propria memoria evidenziava che i sottotetti oggetto di recupero sono ampiamente anteriori al 2013 dato che sono stati sanati con la concessione del 1997 (solo la porzione di sottotetto corrispondente al vecchio terrazzo è stata realizzata in epoca successiva essendo stata prevista dalla d.i.a. del 2010);
circa le altezze del sottotetto da recuperare si ammetteva un errore nella loro indicazione nell’ante operam della d.i.a. del 2010 (in pratica nell’ante operam della s.c.i.a. l’altezza del sottotetto era indicata, facendo riferimento al post operam della d.i.a. del 2010 in m. 3,80, dato che è in realtà errato, perché il post operam della d.i.a. del 2010 indicava un’altezza di m. 3,55);
in ordine all’altezza del lavatoio-stenditoio il ricorrente si impegnava a riportarla nei limiti previsti dal regolamento edilizio in fase realizzativa;
in ordine ai balconi era evidenziato che essi altro non erano che il residuo del vecchio terrazzo.

Il provvedimento su questo punto non è chiaro dato che, relativamente alle porzioni oggetto di recupero, si limita a riaffermare che le uniche porzioni utilizzabili sono quelle esistenti alla data del 31 dicembre 2013;
pare quindi che su questo aspetto le osservazioni del ricorrente siano state accolte;
in ordine alla porzione destinata a lavatoio-stenditoio afferma in modo anodino che l’impegno del ricorrente a ricondurre l’altezza ai limiti regolamentari non può essere considerato “sufficiente a superare la s.c.i.a. proposta sulla base della progettazione di un tecnico abilitato”;
il provvedimento contesta altresì sempre in modo scarsamente comprensibile le affermazioni del ricorrente circa i balconi sostenendo che la d.i.a. del 2010 non ne prevedeva la realizzazione e che la stato ante operam della s.c.i.a. – coerentemente con la d.i.a. – rappresenta in luogo dei balconi – la parte finale della falda di copertura.

Ciò premesso il Collegio ritiene sostanzialmente condivisibili i rilievi del ricorrente. Questi evidenzia che le porzioni oggetto del recupero (che sono quelle corrispondenti alla copertura oggetto della concessione del 1997) sono preesistenti al 2013 (come pare implicitamente ammettere lo stesso comune) e soddisfano le condizioni richieste dalla legge regionale;
il comune sostiene che l’errore nella indicazione dell’altezza interna non sarebbe “superabile” ma in realtà non si vede perché non sia possibile rimediare a un errore attraverso una regolarizzazione-integrazione, tanto più che il comune avrebbe potuto (e dovuto) rilevare la divergenza in sede di controllo formale chiedendone conto al ricorrente (che avrebbe quindi potuto ripresentare gli elaborati progettuali corretti);
in altri termini, non si comprende perché ciò che il comune non ha fatto prima che la s.c.i.a. si consolidasse (cioè permettere una integrazione-rettifica dell’elaborato), non possa essere fatto dopo che la s.c.i.a. si è consolidata a causa della colpevole inerzia dell’amministrazione.

Quanto al lavatoio stenditoio, valgono considerazioni in parte analoghe;
va poi aggiunto – tenuto conto che questa parte della copertura non è oggetto del recupero – che il comune, quand’anche i rilievi fatti al ricorrente fossero interamente fondati, anziché annullare interamente la s.c.i.a., avrebbe potuto limitare l’annullamento alla sola parte relativa al lavatoio-stenditoio (con la conseguenza che esso avrebbe dovuto essere realizzato in conformità del progetto allegato alla d.i.a. del 2010, ormai consolidato).

L’ultima problematica si riferisce alla omessa indicazione negli elaborati progettuali degli spazi per parcheggi e dei pannelli fotovoltaici di cui era prevista l’installazione.

In sede procedimentale il ricorrente aveva spiegato che: a) circa i parcheggi, che la loro mancata indicazione derivava dalla circostanza che egli era in attesa di una rettifica catastale relativa a un fabbricato sito su particella confinante erroneamente rappresentato sulla linea di confine;
si impegnava quindi a un’integrazione progettuale una volta che la rettifica catastale fosse stata eseguita;
egli faceva comunque presente di disporre delle superfici da adibire a parcheggio;
b) in ordine ai pannelli fotovoltaici, parimenti egli si impegnava a un’integrazione progettuale essendo in attesa delle specifiche tecniche da parte delle ditte specializzate.

Anche in questo caso il comune non riteneva di accogliere queste giustificazioni in quanto gli articoli 3 e 6 della legge regionale richiedono l’indicazione dei parcheggi pertinenziali e il ricorso a fonti energetiche rinnovabili.

Con riferimento a queste manchevolezze valgono ad avviso del Collegio considerazioni analoghe a quelle svolte in precedenza. Anche a prescindere dal rilievo del ricorrente che gli interventi di recupero sono possibili pur in assenza di spazi per parcheggi (cfr. articolo 3, comma 4, della legge regionale n. 13 del 2009), va rilevato che non vi sono ragioni per escludere che al ricorrente potesse essere consentito di porre rimedio alle insufficienze del progetto attraverso una integrazione documentale e/o la fissazione di specifiche prescrizioni dato che si tratta in definitiva di insufficienze che incidono su profili secondari della progettazione dell’intervento;
anche in questo caso, del resto, vale la considerazione fatta più volte;
le manchevolezze in questione il comune avrebbe potuto e dovuto rilevarle in sede di controllo formale della completezza della documentazione, sollecitando il ricorrente alle necessarie integrazioni-regolarizzazioni in sede di procedimento fissando allo scopo un termine;
non può quindi il comune annullare a posteriori la s.c.i.a. senza dare la possibilità all’interessato di porre rimedio alla manchevolezze rilevate ex post in un termine congruo.

Conclusivamente il ricorso va accolto con conseguente annullamento del provvedimento impugnato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

Iscriviti per avere accesso a tutti i nostri contenuti, è gratuito!
Hai già un account ? Accedi