TAR Roma, sez. 2B, sentenza 2014-06-10, n. 201406189

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Roma, sez. 2B, sentenza 2014-06-10, n. 201406189
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Roma
Numero : 201406189
Data del deposito : 10 giugno 2014
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 10302/2012 REG.RIC.

N. 06189/2014 REG.PROV.COLL.

N. 10302/2012 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Seconda Bis)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 10302 del 2012, proposto da:
Soc. Polyelecrtolyte Producers Group e Soc. Snf Italia S.p.a., in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t., rappresentati e difesi dagli avv.ti M V e J P, con domicilio eletto presso quest’ultimo, in Roma, via Premuda, 3;

contro

Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, in persona dei rispettivi Ministri p.t., rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato e presso la stessa domiciliati in Roma, via dei Portoghesi, 12;

nei confronti di

Eredi Dott Settimio Cinicola Bentonite Sas di Cinicola Tibolla Filippo Attilio &
C, n.c.;

per l'annullamento

del decreto del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare n. 161, del 10 agosto 2012;

nonché la condanna

dell’amministrazione al risarcimento dei danni patiti e patiendi dalla ricorrente da quantificarsi in corso di causa;


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20 febbraio 2014 il Consigliere Solveig Cogliani e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con il ricorso indicato in epigrafe, gli istanti – nella qualità di produttore e distributore rispettivamente del poliacrilammide - censuravano il decreto del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, assunto di concerto con il Ministero delle Infrastrutture n. 161 del 2012, entrato in vigore il successivo 6 ottobre 2012, con cui sono stati stabiliti i criteri qualitativi e quantitativi da soddisfare affinché i materiali da scavo possano essere riutilizzati come sottoprodotti, sulla base delle condizioni previste dall’art. 184 bis, d.lgs. n. 152 del 2006, che ha recepito l’art. 5, direttiva 2008/98/CE e con il quale è stata dettata la disciplina tecnica relativa ai materiali di origine antropica presenti nei materiali di riporto, lamentando che il Regolamento predetto avrebbe illegittimamente proceduto a classificare il prodotto di interesse come sostanza pericolosa, spettando unicamente al legislatore comunitario la disciplina in materia.

Premesso, dunque, il quadro normativo di riferimento, la parte ricorrente deduceva, i seguenti motivi di gravame:

1 – violazione del diritto comunitario e di legge, in particolare con riferimento al regolamento CLP, alla direttiva rifiuti e al Trattato UE, in quanto il regolamento predetto avrebbe diretta applicabilità negli Stati membri in ragione dell’art. 288 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, sicchè uno Stato non potrebbe unilateralmente adottare provvedimenti interni volti a limitare la portata delle norme di rango sovranazionale, con l’ulteriore conseguenza che sarebbe precluso allo Stato limitare la commercializzazione delle sostante o miscele conformi al Regolamento;

2 – difetto di motivazione in quanto nel decreto gravato non vi sarebbe alcun richiamo al Regolamento CLP, né sarebbero indicate le ragioni che hanno determinato la deroga a quanto li’ disposto;

3 – eccesso di potere per disparità di trattamento ed illogicità manifesta, poiché varie sostanze hanno caratteristiche simili alla acrilamide sotto il profilo della pericolosità e tuttavia il Ministero resistente non l’avrebbe menzionate nel decreto, citando unicamente l’acrilamide e assimilandovi, in modo erroneo solo la poliacrilammide;

4 – violazione delle norme di rango costituzionale con riferimento agli obblighi assunti a livello comunitario (artt. 11 e 117 Cost.).

Pertanto, gli istanti chiedevano, altresì, il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea ai sensi dell’art. 267 del TFUE, in ordine all’interpretazione da offrire all’impugnato decreto e, nel merito, l’annullamento dell’atto ministeriale impugnato, nonché la condanna dell’amministrazione al risarcimento dei danno patiti e patiendi.

Si costituiva l’Amministrazione depositando gli studi in ordine alla pericolosità ambientale della sostanza per cui è causa.

La causa era, dunque, trattenuta per la decisione all’udienza di discussione.

DIRITTO

I – Osserva il Collegio che ai fini del corretto inquadramento della controversia in esame è necessaria una preliminare disamina della normativa succedutasi in materia.

Le terre e rocce da scavo – ovvero come è evincibile dalla stessa dizione letterale, provenienti da escavazione - in un primo tempo risultavano escluse dall’applicazione del d.lgs. n. 22 del 1997 (c.d. decreto Ronchi) ai sensi dell’art. 10 della l. 93 del 2001, successivamente confermato dall’art. 1 commi 17, 18 e19, l. n. 443 del 2001 (c.d. legge Lunardi).

Con la legge comunitaria n. 306 del 2003 all’art. 23 (disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee) in modifica all’art. 1 della 443/01, erano definite le condizioni per tale esclusione delle terre e rocce da scavo dalla materia dei rifiuti;
in particolare, prevedendosi a tal fine che il loro riutilizzo sia “certo ed autorizzato secondo le modalità previste dal progetto di VIA o, in mancanza, secondo le indicazioni date dalle competenti autorità amministrative”.

L’esclusione delle terre e rocce di scavo dalla materia dei rifiuti veniva in seguito regolamentata dall’art. 186 del d.lgs. 152 del 2006.

Lo stesso d.lgs 4 del 2008 (correttivo del d.lgs 152/06) entrato in vigore il 13 febbraio 2008, consentiva di escludere dalla disciplina sui rifiuti le terre e rocce da scavo non provenienti da siti contaminati, purché destinate a determinate e previste utilizzazioni, da inserire preventivamente nei progetti approvati. La novella introdotta dal d.lgs. n. 205 del 2010, in attuazione della direttiva 2008/98/CE, modificava il precedente testo normativo, in particolare introducendo gli artt. 184 bis e 184 ter al d.lgs. n. 152.

L’art. 184 bis, richiamato anche dall’art. 183 comma 1, lett. “qq”, infatti, definisce il concetto di sottoprodotto, ponendo le condizioni essenziali affinché un materiale possa essere classificato in tal senso.

L’art. 184 ter, d’altro canto, nel definire la cessazione della qualifica di rifiuto, stabilisce i termini da soddisfare affinché ciò accada, fissando il presupposto che il materiale sia stato sottoposto ad una operazione di recupero e abbia di conseguenza acquisito caratteristiche effettive di utilizzabilità e collocabilità sul mercato.

Il d.l. n 1 del 2012, convertito dalla l. 24 marzo 2012 n. 27, all’art. 49 ha previsto l’emanazione entro 60 gg. del d.m. di armonizzazione della disciplina di riferimento, di cui si verte, con l’art. 184 bis sui sottoprodotti, con la contemporanea abrogazione dell’art. 186 del d.lgs. 152 del 2006.

Il Regolamento è entrato in vigore il 6 ottobre 2012.

Risulta, ancora necessario definire l’ambito di applicazione del decreto impugnato, ad esito delle modifiche legislative intervenute per effetto dell’art. 8 bis, l. n. 71 del 2013 ed, in particolare, del c.d. “Decreto del fare”, al fine di delimitare l’oggetto della presente controversia.

In vero, l’art. 49, del d.l. 24 gennaio 2012 n. 1 disponeva che “…. L’utilizzo delle terre e rocce da scavo è regolamentato con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti da adottarsi entro sessanta giorni dall’entrata in vigore del presente decreto”.

In sede di conversione, la legge n. 27 del 2012, modificava detto articolo nei seguenti termini:

- “L'utilizzo delle terre e rocce da scavo è regolamentato con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti [da adottarsi entro sessanta giorni dall'entrata in vigore del presente decreto].” (comma 1);

- “Il decreto di cui al comma precedente, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, stabilisce le condizioni alle quali le terre e rocce da scavo sono considerate sottoprodotti ai sensi dell'articolo 184-bis del decreto legislativo n. 152 del 2006”. (comma 1 bis);

- “All'articolo 39, comma 4, del decreto legislativo 3 dicembre 2010, n. 205, il primo periodo è sostituito dal seguente: "Dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale di cui all'articolo 49 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, è abrogato l'articolo 186”. (comma 1 ter);

L’art. 49, dunque, come sopra modificato, disponeva l’abrogazione dell’art. 186 del T.U. A., di cui all’art. 39, del d.lgs. 205/2010 (“Disposizioni di attuazione della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive”) alla “data di entrata in vigore del decreto ministeriale” di regolamentazione dell’utilizzo delle terre e rocce da scavo (previsto dall’art. 184 bis, comma 2, T.U. cit.).

Per un verso, è chiaro, dunque, che la l. n. 27 del 2012 di conversione del d.l. n. 1 del 2012, secondo il meccanismo della ‘delegificazione’, pertanto, ha demandato la disciplina dell’uso delle terre e rocce, come sottoprodotti, alla fonte regolamentare, autorizzando specificamente il Governo ad adottare la norma secondaria e abrogando l’art. 186 cit..

Tuttavia, per completezza va precisato che, in fase di conversione del d.l. 21 giugno 2013 n. 69 (c.d. ‘Decreto del Fare’), è stata operata una rilevante modifica sul regime delle terre e rocce da scavo.

Infatti, la l. 9 agosto 2013 n. 98 (pubblicata in G.U. n. 194 del 20 agosto 2013 – Suppl. Ordinario n. 63) ha introdotto un nuovo art. 41 bis nel contesto del d.l. n. 69/2013.

Ne è derivato che quanto all’ambito di applicazione del d.m. n. 161 del 2012, risulta confermata l’interpretazione iniziale che vedeva la complessa disciplina dettata dal decreto limitata alla gestione dei materiali da scavo che derivano dalle “grandi opere”.

Infatti, in forza dell’art. 184 bis, comma 2 bis, d.lgs. n. 152 del 2006 – di cui all’art. 41, comma 2, d.l. n. 69/2013 - l’ambito di applicazione del Regolamento in esame è circoscritto esplicitamente solo alle terre e rocce da scavo che provengono da attività o opere soggette a valutazione d’impatto ambientale o ad autorizzazione integrata ambientale. Tale modifica, peraltro, non appare incidente sull’interesse alla definizione del presente giudizio.

II - Ancora deve trovare esame l’ambito di applicazione del Regolamento oggetto di censura, per quanto concerne i materiali da scavo a cui esso deve intendersi riferito.

Ai sensi dell’art. 2, il decreto ministeriale si applica alla gestione dei materiali da scavo. Ne risultano esclusi i rifiuti provenienti direttamente dall'esecuzione di interventi di demolizione di edifici o altri manufatti preesistenti che sono soggetti alle specifiche disposizioni in materia digestione dei rifiuti.

Secondo la definizione di cui all’art. 1 del decreto, sono «materiali da scavo»:

il suolo o sottosuolo, con eventuali presenze di riporto, derivanti dalla realizzazione di un'opera quali, a titolo esemplificativo: scavi in genere (sbancamento, fondazioni, trincee, ecc.);
perforazione, trivellazione, palificazione, consolidamento, ecc.;
opere infrastrutturali in generale (galleria, diga, strada, ecc.);
rimozione e livellamento di opere in terra;
materiali litoidi in genere e comunque tutte le altre plausibili frazioni granulometriche provenienti da escavazioni effettuate negli alvei, sia dei corpi idrici superficiali che del reticolo idrico scolante, in zone golenali dei corsi d'acqua, spiagge, fondalilacustri e marini;
i residui di lavorazione di materiali lapidei (marmi, graniti, pietre, ecc.) anche non connessi alla realizzazione di un'opera e non contenenti sostanze pericolose (quali ad esempio flocculanti con acrilamide o poliacrilamide).

Per quanto qui interessa, deve precisarsi, peraltro, che il d.m. in esame non può che essere inteso coerentemente con i limiti di delega di cui all’art. 49, d.l. n. 1 del 2012, nella versione modificata in sede di conversione, che - come detto – prevede che esso “stabilisce le condizioni alle quali le terre e rocce da scavo sono considerate sottoprodotti ai sensi dell'articolo 184-bis del decreto legislativo n. 152 del 2006” .

Peraltro, l’interpretazione sistematica della disciplina - dalla quale secondo i criteri ermeneutici non si può prescindere - richiede che la norma sia letta unitamente all’art. 185, d.lgs. n. 152 del 2006, che dispone da un lato l’esclusione della disciplina sui rifiuti sia con riferimento al “suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività di costruzione, ove sia certo che esso verrà riutilizzato a fini di costruzione allo stato naturale e nello stesso sito in cui è stato escavato” (comma 1 lett. c) con conseguente inapplicabilità dell’art. 184 bis, che precede, sia al “suolo escavato non contaminato e altro materiale allo stato naturale, utilizzati in siti diversi da quelli in cui sono stati escavati” (comma 4) che, però debbono “essere valutati ai sensi, nell’ordine, degli articoli 183, comma 1, lettera a), 184-bis e 184-ter”.

Ne deriva che il d.m. in esame trova applicazione unicamente al materiale da scavo utilizzato in siti diversi da quelli in cui sono stati escavati (secondo la definizione di “sito di destinazione” come “diverso dal sito di produzione” di cui all’art. 2, comma 1, lett. n) del medesimo decreto) pur dopo l’eliminazione nella versione definitiva dell’espresso richiamo all’art. 185, comma 4 menzionato, fatta eccezione per quanto previsto dall’art. 5, comma 4, che però riguarda una fattispecie ben diversa, che non rientra nelle previsione di cui all’art. 185 comma 1 lett. c) del Codice, perche’ riferita a siti “in cui, per fenomeni naturali, nel materiale da scavo le concentrazioni degli elementi e composti di cui alla Tabella 4.1 dell'allegato 4, superino le Concentrazioni Soglia di Contaminazione di cui alle colonne A e B della Tabella 1 dell'allegato 5 alla parte quarta del decreto legislativo n. 152 del 2006 e successive modificazioni”.

III – Così identificata l’ambito applicativo del Regolamento gravato, deve rilevarsi che il ricorso in esame attiene, tuttavia, ad un aspetto del tutto particolare, ovvero alla qualificazione della poliacrilammide come sostanza pericolosa.

In sostanza, la parte ricorrente sostiene che l’Amministrazione avrebbe considerato la poliacrilammide come sostanza pericolosa in violazione della normativa comunitaria.

I motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente, non sono fondati.

In vero, il decreto impugnato recepisce i principi europei sull’uso delle sostanze contenenti acrilamide.

A riguardo va ricordato, come evidenziato dalla difesa erariale che, in sede comunitaria – vista la Raccomandazione 2004/394/CE della Commissione, del 29 aprile 2004, relativa ai risultati della valutazione dei rischi e alle strategie di riduzione dei rischi per le seguenti sostanze: acetonitrile, acrilammide, acrilonitrile, acido acrilico, butadiene, fluoruro d’idrogeno, perossido d’idrogeno, acido metacrilico, metacrilato di metile, toluene, triclorobenzene, adottata nel quadro del regolamento (CEE) n. 793/93, con cui si indicava di valutare a livello dell’Unione l’opportunità di limitare l’immissione in commercio e l’uso della sostanza nell’ambito della direttiva 76/769/CEE del Consiglio, del 27 luglio 1976, concernente il ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri relative alle restrizioni in materia di immissione sul mercato e di uso di talune sostanze e preparati pericolosi, per quanto riguarda l’impiego dell’acrilammide nelle malte da iniezione destinate ad applicazioni su piccola e larga scala - che con il Regolamento UE n. 366 del 2011 della Commissione (adottato in data 14 aprile 2011) “recante modifica al regolamento (CE) n. 1907/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio concernente la registrazione, la valutazione, l’autorizzazione e la restrizione delle sostanze chimiche (REACH) per quanto riguarda l’allegato XVII (acrilammide)”, ha precisato che:

- “L’acrilammide è classificata come sostanza cancerogena di categoria 1B e mutagena di categoria 1B. I rischi collegati a tale sostanza sono stati valutati in applicazione del regolamento (CEE) n. 793/93 del Consiglio, del 23 marzo 1993, relativo alla valutazione e al controllo dei rischi presentati dalle sostanze esistenti”;

- “Secondo i risultati della valutazione dei rischi a livello europeo è necessario limitare il rischio per il comparto acquatico derivante dall’impiego di malte da iniezione a base di acrilammide nel settore delle costruzioni ed il rischio per altri organismi derivante dall’esposizione indiretta attraverso acque contaminate dalla stessa applicazione. Sono inoltre stati espressi timori per l’esposizione dei lavoratori e delle persone attraverso l’ambiente, vista la natura cancerogena e mutagena dell’acrilammide, la sua neurotossicità e la sua tossicità per la riproduzione, conseguenti all’esposizione derivante dall’impiego su piccola e larga di malte da iniezione a base di acrilammide.”

Conseguentemente con tale Regolamento comunitario si è disposto “Al fine di proteggere la salute umana e l’ambiente” di “limitare l’immissione sul mercato e l’uso dell’acrilammide nelle malte da iniezione e in tutte le applicazioni di consolidamento del suolo” al valore dell’0 “0,1 %”.

Dalla documentazione tecnica versata in atti dall’Amministrazione si evince che l’acrilamide è usata come intermedio nella produzione di poliacrilamide, sicchè è necessario considerare il potenziale rilascio del monomero (acrilamide) dal polimero durante l’uso della poliacrilammide.

Ne deriva, ancora, che la previsione censurata in ordine alla pericolosità della poliacrilamide non si pone in contrasto con la disciplina comunitaria e, al contrario, essa ne costituisce diretta emanazione;
infatti, pur non essendo classificata, tale sostanza, direttamente come pericolosa, risulta logica conseguenza di quanto prescritto a livello comunitari, la considerazione della presenza del monomero libero nel polimero, in ragione del nuovo limite fissato per l’immissione sul mercato (0,1%).

Né tanto meno, la norma regolamentare gravata appare – difformemente a quanto rilevato dagli istanti – priva di idonea motivazione, essendo al contrario supportata da puntuali studi scientifico-tecnici.

IV – Per quanto concerne la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, deve rilevarsi che, secondo i principi di ragionevole durata del processo, divieto di abuso del diritto di difesa, lealtà processuale, ricordati dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato 5 marzo 2012 n.4584), l’art. 267, par. 3 TFUE va interpretato nel senso che l’obbligo di rinvio pregiudiziale non impedisce un vaglio critico da parte del giudice a quo della questione d’interpretazione del diritto comunitario, e consente al giudice a quo di non rinviare la questione non solo nel caso di “assoluta chiarezza” della norma comunitaria, ma anche nel caso in cui il giudice nazionale ritenga, in base ad un parametro di ragionevolezza e diligenza professionale, che la norma comunitaria sia “ragionevolmente chiara” e non necessita di ulteriore chiarificazione.

Nella specie, peraltro, non si pone alcun problema interpretativo della norma sovrannazionale che ha inteso limitare ulteriormente la diffusione della sostanza pericolosa, né, conseguentemente della normativa interna dettata dal Regolamento che ne costituisce applicazione.

V - Ulteriormente appare priva di fondamento la censura di disparità di trattamento, in quanto la norma è coerente con i principi generali in materia ambientale, di derivazione comunitaria, di "prevenzione" e di "precauzione" (art. 3 ter T.U. Ambiente), in base ai quali occorre evitare di creare rischi per l'ambiente, e solo in subordine cercare di arginare quelli esistenti o quelli che si dovessero verificare. Tali principi sono assunti a fondamento delle condizioni prescritte dal Regolamento, che prevede che, al fine del conseguimento della possibilità di utilizzare il materiale da scavo come ‘sottoprodotto’, sia assicurato che gli elementi ed i composti contenuti nei materiali predetti proveniente da siti sottoposti a bonifica o a ripristino ambientale rispettino i valori-limite stabiliti dalle C.S.C., sì da non divenire pregiudizievoli per la salute umana e l’ambiente.

Sicchè non può trovare condivisione l’argomento utilizzato al fine di evidenziare l’eventuale mancata prescrizione con riferimento ad altri prodotti, ove sia comunque comprovata la qualificazione della sostanza di cui si discute.

VI – Per quanto sin qui considerato il ricorso deve essere respinto.

Sussistono, tuttavia, giusti motivi per compensare le spese di lite tra le parti, in ragione della particolarità e complessità della fattispecie esaminata.

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