TAR Firenze, sez. I, sentenza 2015-07-13, n. 201501059
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Testo completo
N. 01059/2015 REG.PROV.COLL.
N. 01455/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1455 del 2014, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
G P N, rappresentato e difeso dagli avvocati F M P e P B, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Firenze, lungarno A. Vespucci n. 20;
contro
Comune di Magliano in Toscana, rappresentato e difeso dall'avv. N M T, con domicilio eletto presso l’avvocato L A A in Firenze, via delle Cinque Giornate, n. 31;
per l'annullamento
del decreto n. 24 del 26.5.2014 del Responsabile del Settore Tecnico - Patrimonio del Comune di Magliano in Toscana, avente ad oggetto l'acquisizione, al patrimonio indisponibile del Comune, del diritto di servitù sugli immobili interessati dalla esecuzione del "lavoro di costruzione dell'impianto di illuminazione del centro storico di Magliano Capoluogo", ai sensi dell'art. 42-bis del D.P.R. 08.06.2001 n. 327, e di ogni atto presupposto e conseguente;
e, in subordine, per la condanna del Comune di Magliano in Toscana al pagamento dell'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale subito dal ricorrente oltre al risarcimento per il periodo di occupazione senza titolo;
nonché per la condanna (chiesta con i motivi aggiunti depositati in giudizio il 1.12.2014)
alla riduzione in pristino dello stato dei luoghi ed alla rimozione dell’elettrodotto apposto sull’immobile del ricorrente,
e, in via subordinata, a corrispondere gli indennizzi ed il risarcimento del danno.
Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Magliano in Toscana;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20 maggio 2015 il dott. Gianluca Bellucci e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Il s N Giulio Paolo è proprietario di un immobile situato in Magliano in Toscana, in via Garibaldi, dichiarato di interesse storico e architettonico dalla Soprintendenza di Grosseto.
Il Comune, per effetto di contratto di appalto stipulato nell’ottobre 1993, ha posizionato, nell’ambito delle opere di ammodernamento e potenziamento dell’impianto di pubblica illuminazione del centro storico, cavi, lampioni e fari sulla facciata di detto immobile, in difetto di titolo costitutivo di servitù.
L’interessato ha quindi citato in giudizio il Comune di Magliano in Toscana, innanzi al Tribunale civile di Grosseto, onde ottenere la condanna alla riduzione in pristino dello stato dei luoghi, e cioè alla rimozione dell’impianto elettrico infisso sulla facciata del fabbricato, ed il risarcimento dei danni.
Il Tribunale adito, con sentenza n. 76 del 28.6.2013, riscontrata l’assenza di prove circa l’esistenza dei cavi prima del 1993 e ravvisata quindi la mancanza dei presupposti dell’usucapione, ha ordinato la rimozione dell’impianto elettrico abusivamente inserito ed il pagamento, a favore del ricorrente, della somma di euro 5.495 a titolo di risarcimento, avendo il ricorrente tentato di ristrutturare la facciata dell’edificio senza riuscirvi, a causa degli ostacoli frapposti dall’amministrazione alla rimozione dell’impianto elettrico ed al posizionamento dei ponteggi (l’importo liquidato dal giudice corrispondeva infatti alle spese di una seconda installazione e rimozione dei ponteggi).
Il Comune, con atto di citazione notificato il 20.9.2013, ha impugnato la predetta sentenza, opponendo l’usucapione (per decorso di oltre 30 anni dall’epoca di installazione) e la sopravvenuta adozione, in data 10.9.2013, del provvedimento previsto dall’art. 42 bis del d.p.r. n. 327/2001, il quale avrebbe sanato a suo dire la situazione dedotta dal ricorrente.
In via incidentale quest’ultimo ha chiesto la condanna al pagamento di una maggiore somma a titolo risarcitorio, tenuto conto della doppia installazione e rimozione dei ponteggi occorrenti per ristrutturare la facciata.
La Corte di Appello di Firenze, con sentenza n. 1731 del 21.10.2014, ha dichiarato la cessata materia del contendere in ordine al diritto del Comune di mantenere l’impianto elettrico ancorato al palazzo di proprietà del s N, stante l’adozione medio tempore del provvedimento di cui all’art. 42 bis del d.p.r. n. 327/2001, ed ha determinato in euro 10.804 (in luogo di euro 5.495) il risarcimento dovuto, riconoscendo che il danno connesso all’inutile allestimento dei ponteggi si era manifestato per due volte;ha invece respinto la domanda del privato per la condanna al risarcimento del danno da perdita di opportunità locativa.
In pendenza del giudizio civile il deducente ha notificato al Comune atto di precetto, fondato sulla pronuncia del Tribunale di Grosseto munita di formula esecutiva, per intimare la riduzione in pristino.
Il citato decreto di acquisizione ex art. 42 bis è stato impugnato innanzi a questo TAR con ricorso n. 1400/2013, che veniva accolto con sentenza n. 262 del 5.2.2014, in relazione alla censura incentrata sul vizio di mancata comunicazione di avvio del procedimento.
In data 21.2.2014 l’amministrazione ha comunicato al s N l’avvio del procedimento di istituzione della servitù di passaggio dei cavi elettrici;l’interessato ha eccepito, in sede di presentazione delle osservazioni, l’erroneità della valutazione del Comune circa l’esistenza di servitù risalente agli anni ’60 e ha presentato una perizia tecnica indicante le possibili soluzioni alternative all’installazione del manufatto.
Con decreto n. 24 del 26.5.2014 il Comune, a conclusione del procedimento avviato, ha disposto l’acquisizione, ai sensi dell’art. 42 bis del d.p.r. n. 327/2001, del diritto di servitù di elettrodotto sull’immobile senza indennità (il disconoscimento di qualsiasi spettanza economica veniva motivato con l’assenza di sostanziali incomodi per l’edificio gravato da servitù, in applicazione dell’art. 44, comma 5, del d.p.r. n. 327/2001) ed ha precisato che:
a) con deliberazione consiliare n. 150 del 6.12.1984 fu approvato il progetto esecutivo dei lavori di costruzione dell’impianto di illuminazione del centro storico;
b) le opere, oggetto del contratto di appalto sottoscritto in data 26.10.1993, hanno coinvolto, per l’appoggio di cavi e corpi illuminanti, anche il fabbricato di proprietà del s N;
c) i termini di compimento della procedura espropriativa sono spirati in assenza di idoneo atto ablativo, ma l’immobile è stato ugualmente utilizzato per scopi di pubblico interesse mediante occupazione e successivo utilizzo dell’opera;
d) la servitù interessa una superficie complessiva di mq. 18,50 (corrispondenti alla lunghezza totale della facciata, pari a metri lineari 18,50 per m. 1 di altezza) posta immediatamente sotto la gronda della copertura;
e) le ragioni di carattere estetico del privato non sono particolarmente significative, in considerazione del tempo trascorso dalla prima installazione dei cavi (primi anni ’60) e della sussistenza di situazioni analoghe in tutto il territorio comunale;
f) prevale l’interesse pubblico in quanto la proposta soluzione alternativa dell’interramento dei cavi incontrerebbe notevoli difficoltà tecniche e comporterebbe un enorme aggravio della spesa pubblica, mentre l’altra soluzione (consistente nello staccare i cavi dalla facciata del palazzo in questione e nell’appenderli alle facciate di altri due vicini edifici) causerebbe il passaggio dei cavi sopra una parte della piazza e cagionerebbe così un danno estetico;
g) il passaggio dei cavi è indispensabile al funzionamento del servizio di pubblica illuminazione;
h) l’utilizzo della facciata è privo di titolo, dovendo essere regolarizzata la procedura di esproprio (sotto forma di istituzione coattiva della servitù);
i) non sussistono i presupposti di riconoscimento di un’indennità, in quanto la servitù non comporta un grave incomodo per l’edificio e non è causa di danno estetico, stante la fatiscenza della facciata e la vetustà dell’immobile.
Avverso il suddetto decreto il ricorrente è insorto deducendo:
1) Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 42 bis del d.p.r. n. 327/2001;eccesso di potere per carenza di motivazione e per contraddittorietà dell’azione amministrativa.
In particolare la doglianza è così articolata:
I) Inapplicabilità dell’art. 42 bis.
Nell’art. 42 bis del d.p.r. n. 327/2001, a differenza del previgente art. 43 del medesimo d.p.r., non è contemplata la facoltà dell’amministrazione di adottare l’atto di acquisizione sanante in pendenza del processo avente ad oggetto la domanda del privato per la restituzione del bene e il risarcimento del danno. Inoltre, al momento dell’adozione del gravato provvedimento l’accertamento della titolarità del diritto reale in capo al Comune era ancora sub iudice .
II) Violazione delle regole procedimentali di adozione del decreto di esproprio.
Poiché l’acquisizione sanante deriva da un’occupazione e trasformazione illegittima di un bene privato, devono essere rispettati gli elementi posti dal legislatore a tutela del bene stesso, con particolare riguardo al procedimento di determinazione dell’indennità.
III) Mancanza di adeguata istruttoria e di valida motivazione.
La tesi secondo cui la servitù di passaggio dei cavi risale agli anni 60 non ha fondamento. A fronte della relazione tecnica prodotta dall’interessato (che propone il collegamento diretto tra il fabbricato di piazza Repubblica e il fabbricato di via Garibaldi senza coinvolgere il palazzo del deducente o, in alternativa, l’interramento dei cavi), l’amministrazione procedente si limita ad eccepire, senza prova di avere svolto una valutazione tecnica istruttoria, il grave pregiudizio estetico per la piazza (quanto alla proposta di collegamento diretto) e l’entità eccessiva della spesa (quanto all’interramento).
La preminenza dell’interesse pubblico è stata addotta nell’atto impugnato sulla base sia dello stato fatiscente dell’immobile, sia dell’esistenza sulla facciata di linee elettriche private e telefoniche più visibili rispetto alla linea elettrica in questione, e tuttavia i lavori di ristrutturazione sono stati rimandati sino alla riduzione in pristino della facciata che continua a tardare a causa del comportamento del Comune, mentre la valutazione di inesistenza di danni è smentita dalla condanna risarcitoria emessa dal Tribunale di Grosseto.
IV) Mancata determinazione dell’indennizzo ai sensi dell’art. 42 bis.
La determinazione dell’indennizzo ex art. 42 bis avrebbe dovuto seguire le previsioni di cui al d.p.r. n. 327/2001, non essendo previste regole speciali;il contestato decreto non è stato preceduto dal procedimento di determinazione provvisoria dell’indennità dovuta ed è perciò illegittimo.
2) Violazione e falsa applicazione degli artt. 20 ss. in tema di determinazione dell’indennità di esproprio e degli artt. 42 bis e 44 del d.p.r. n. 327/2001.
Solo in seguito al pagamento dell’indennità accettata dal privato o, in caso di mancata accettazione, al deposito della stessa, l’amministrazione avrebbe potuto emanare il decreto di acquisizione. L’art. 44, comma 5, del d.p.r. n. 327/2001, che esonera dal pagamento dell’indennità ove la servitù possa essere conservata senza grave incomodo del fondo dominante o di quello servente, è riferito ad un indennizzo diverso da quello previsto dall’art. 42 bis: quest’ultima norma riguarda un’ipotesi di attività illecita, causa di pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, mentre il citato art. 44 attiene ad un’attività lecita. L’atto impugnato è illegittimo, oltre che per mancata determinazione dell’indennizzo ai sensi degli artt. 20 ss. del d.p.r. n. 327/2001, perché prevede che non è dovuta alcuna indennità.
3) In via subordinata: condanna del Comune al pagamento dell’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, oltre al risarcimento per il periodo di occupazione senza titolo.
In relazione alla ratio dell’art. 42 bis, il ricorrente ha comunque diritto ad un indennizzo pari al valore venale del bene acquisito dal Comune e ad un indennizzo per danno non patrimoniale pari al 10% del valore venale stesso, nonché al risarcimento per il periodo di occupazione senza titolo dal 1993 al 2014.
A seguito della sopra citata sentenza della Corte di Appello di Firenze (che revocava la condanna alla rimozione pronunciata in primo grado), emessa in pendenza del ricorso in epigrafe, la parte istante ha proposto motivi aggiunti, incentrati sulla domanda di condanna a rimuovere l’elettrodotto in argomento e, in via subordinata, sulla richiesta di condanna al pagamento degli indennizzi e del risarcimento del danno.
Si è costituito in giudizio il Comune di Magliano in Toscana.
All’udienza del 20 maggio 2015 la causa è stata posta in decisione.
DIRITTO
1. In via preliminare occorre soffermarsi sulle questioni in rito.
Il Comune resistente ha eccepito l’inammissibilità del ricorso principale e dei motivi aggiunti per la loro mancata notificazione ad almeno uno dei controinteressati, costituiti dalla Soprintendenza e dai beneficiari dell’impianto di elettrodotto (e cioè da Enel s.p.a. e dai residenti nel centro urbano di Magliano in Toscana).
L’eccezione non ha alcun pregio.
Il contestato provvedimento amministrativo non individua soggetti che acquisiscano, per effetto del provvedimento medesimo, una posizione di vantaggio giuridicamente rilevante. Il generico interesse al funzionamento dell’illuminazione pubblica nel centro storico, al quale è finalizzato il decreto in oggetto, costituisce un interesse di fatto, riferito alla migliore fruizione possibile del servizio de quo e di cui sono portatori i cittadini di Magliano in Toscana ed Enel s.p.a., ai quali è estranea al riguardo una posizione di interesse qualificato e differenziato.
Analogamente, non può ritenersi portatrice di un interesse legittimo alla conservazione dell’atto la Soprintendenza, la quale non riceverebbe alcun nocumento dall’accoglimento del ricorso, non promanando da essa alcun potere decisionale in ordine alla scelta del progetto di ammodernamento dell’impianto elettrico in questione.
2. Il Comune ha inoltre eccepito il difetto di giurisdizione e la violazione del principio generale ne bis in idem , in quanto il ricorrente ha proposto, innanzi al giudice amministrativo, le stesse domande già presentate al giudice ordinario, e cioè la richiesta di condanna a rimuovere l’impianto apposto sulla facciata del palazzo in questione ed a pagare gli indennizzi, e in quanto le controversie sulla congruità dell’indennizzo previsto dall’art. 42 bis del d.p.r. n. 327/2001 rientrano nella giurisdizione ordinaria ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. g, del d.lgs. n. 104/2010.
L’eccezione non può essere accolta.
Il decreto impugnato costituisce provvedimento autoritativo rientrante nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1 lett. f, del d.lgs. n. 104/2010 (ex multis: Cons. Stato, IV, 29.8.2013, n. 4318).
L’eventuale sentenza di annullamento di detto decreto avrebbe, come risultato dell’effetto conformativo, l’eliminazione dei cavi e dei fari posti sulla facciata dell’edificio di proprietà del ricorrente: l’accoglimento della domanda di annullamento, nel fare venir meno il titolo di acquisto della servitù sull’immobile, avrebbe infatti come conseguenza l’obbligo per il Comune di ripristinare lo stato dei luoghi, coerentemente con il riespandersi della piena proprietà privata che sarebbe riconosciuto dal TAR adito. Inoltre, gli artt. 30 e 34 del d.lgs. n. 104/2010 prevedono un potere di condanna atipico del giudice amministrativo, consentendo di esplicitare la portata conformativa e ripristinatoria della pronuncia di annullamento anche mediante l’ordine di ripristinare l’originaria condizione del bene.
La stessa Corte di Appello adita ha riconosciuto la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine all’atto di asservimento postumo, dal momento che nella propria sentenza ha espresso il convincimento che l’usucapione pretesa dal Comune era stata sostituita dal provvedimento sanante, “non controverso né controvertibile” nel processo civile.
Da un lato il giudice ordinario si è pronunciato sulla domanda di tutela di un diritto soggettivo asseritamente leso nell’ambito di un’occupazione usurpativa, dall’altro il TAR è stato chiamato a pronunciarsi sulla domanda di tutela presentata avverso un provvedimento autoritativo.
L’eccezione di difetto di giurisdizione non può essere condivisa nemmeno in riferimento alla parte del ricorso incentrata sull’illegittimità dell’azzeramento dell’indennizzo.
Invero l’interessato, in sede di gravame, ritiene che la previsione amministrativa dell’indennizzo incida sul corretto esercizio della potestà ablatoria sanante: la causa petendi identifica nella mancata indicazione dell’indennizzo stesso da parte dell’amministrazione procedente un vizio di legittimità tale da determinare la caducazione giudiziale dell’imposta servitù e la rimessa in pristino della facciata dell’immobile de quo.
La questione economica rileva pertanto in via incidentale, in quanto l’oggetto principale dell’impugnativa è costituito dalla dedotta illegittimità del provvedimento acquisitivo sotto vari profili, tra i quali quello del disconoscimento in esso presente di un pregiudizio indennizzabile, disconoscimento che, stando alla dedotta causa petendi, determinerebbe l’annullamento dell’atto impugnato e, in via consequenziale per l’effetto conformativo della sentenza di annullamento, il ripristino della piena proprietà privata.
L’oggetto assorbente del contendere, identificato in base alla causa petendi e all’intrinseca natura della controversia, è dato in definitiva dall’esercizio della potestà pubblica di acquisizione sanante, rispetto al quale sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma 1 lett. f, del d.lgs. n. 104/2010. Più in particolare, la determinazione asseritamente erronea del Comune in punto di valutazione del pregiudizio derivante dalla servitù (rilevante sia ai fini della evidenziata comparazione dell’interesse pubblico con l’interesse privato, sia ai fini della giustificazione dell’omesso indennizzo) va ricondotta alla figura del cattivo esercizio del potere, non sindacabile dal giudice ordinario.
3. L’amministrazione ha infine eccepito che l’impugnazione principale deve ritenersi rinunciata in quanto la ricorrente non avrebbe dichiarato alla Corte di Appello la pendenza del giudizio instaurato presso il TAR, tanto che la menzionata Corte ha dichiarato cessata la materia del contendere sul diritto di mantenere l’impianto elettrico.
L’eccezione è palesemente infondata.
La difesa del Comune ha preventivamente informato la Corte di Appello della pendenza dell’impugnativa presentata al TAR avverso il decreto di acquisizione sanante, chiedendo la sospensione del processo ex art. 295 c.p.c.. Evidentemente il giudice civile ha ritenuto di non accogliere tale richiesta e di pronunciare la declaratoria di cessata materia del contendere in ordine al diritto di servitù vantato dal Comune in quanto da un lato il provvedimento ex art. 42 bis del d.p.r. n. 327/2001 costituisce titolo autonomo di asservimento estraneo alla giurisdizione ordinaria (talché la reiezione dell’impugnativa da parte del TAR avrebbe consolidato l’acquisizione della servitù), dall’altro l’eventuale annullamento del suddetto titolo da parte del giudice amministrativo avrebbe determinato, quale effetto conformativo della sentenza, quella stessa remissione in pristino dell’immobile alla quale era finalizzato l’atto di citazione proposto innanzi all’autorità giurisdizionale civile (TAR Toscana, I, 23.4.2015, n. 662).
Ciò precisato, appare evidente che il s N non ha mai rinunciato al ricorso in epigrafe, né esplicitamente né per fatti concludenti, e che persiste l’interesse alla trattazione del ricorso medesimo.
4. Entrando nel merito del gravame si osserva quanto segue.
Con la prima parte del primo motivo il ricorrente deduce l’inapplicabilità dell’art. 42 bis del d.p.r. n. 327/2001, essendo a suo avviso ostativa la pendenza del processo civile avente ad oggetto la domanda di restituzione e l’accertamento del diritto di servitù.
La censura è infondata.
Il citato art. 42 bis, stando al suo tenore letterale, non esclude che il provvedimento di acquisizione sanante possa essere assunto in pendenza del giudizio civile instaurato con la domanda di restituzione avanzata dal privato. Inoltre la sua ratio è quella di consentire una legale via di uscita per i casi in cui una pubblica amministrazione avesse occupato senza titolo un immobile di proprietà privata, in assenza di un valido ed efficace decreto di esproprio.
La predetta esigenza di regolarizzare la situazione di irrituale detenzione del bene persiste, evidentemente, anche in caso di giudizio civile pendente, il quale lascia immutata la situazione fattuale che la procedura eccezionale di acquisto è preordinata a risolvere. Infatti il richiamato art. 42 bis non indica un limite temporale ai fini dell’esercizio del potere di acquisizione sanante, né rinviene nella condanna a restituire il bene una causa preclusiva di tale potere, giacchè la restituzione è la conseguenza dell’accertamento della piena proprietà privata dell’immobile e, quindi, ove la proprietà divenga pubblica per effetto di acquisizione postuma sanante, viene meno la stessa ragione giustificatrice della restituzione (Cons. Stato, V, 11.5.2009, n. 2877;Cons. Stato, 1.12.2011, n. 6351).
Fa eccezione il vincolo del giudicato formatosi prima della determinazione di cui all’art. 42 bis, il quale eliderebbe il potere sanante dell’amministrazione. Invero il giudicato che intervenisse sulla questione dell’occupazione senza titolo, attenendo a posizioni di diritto soggettivo del privato, coprirebbe il dedotto e il deducibile, e frustrerebbe quindi gli obiettivi avuti di mira dal legislatore, precludendo all’amministrazione di modificare con un tardivo provvedimento di acquisizione la disciplina dettata dalla sentenza definitiva: il carattere non retroattivo dell’acquisto impedisce l’utilizzo dell’istituto in presenza di un giudicato che abbia disposto la restituzione del bene al privato (Corte Cost., 30.4.2015, n. 71).
Al contrario, l’impugnato decreto del Comune di Magliano in Toscana, essendo intervenuto allorquando la pretesa azionata non era coperta da alcun giudicato, ha potuto spiegare pienamente gli effetti di regolarizzazione contemplati dall’art. 42 bis.
5. Con la seconda parte del primo motivo l’istante, nel lamentare la violazione delle regole procedimentali per l’adozione del decreto di esproprio, osserva che il provvedimento di acquisizione sanante, costituente pur sempre un atto di esproprio, deve essere preceduto dalla procedura di corresponsione di un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale arrecato al proprietario.
Il rilievo non può essere accolto.
Con l'adozione del provvedimento previsto dall’art. 42 bis, l’amministrazione riprende a muoversi nell'alveo della legalità amministrativa, esercitando una funzione amministrativa ritenuta meritevole di tutela privilegiata, in funzione degli scopi di pubblica utilità perseguiti, sebbene emersi successivamente alla consumazione di un illecito ai danni del privato cittadino. Tale atto sostituisce il regolare procedimento ablativo prefigurato dal T.U. sulle espropriazioni, e si pone, a sua volta, come una sorta di procedimento espropriativo semplificato, che assorbe in sé sia la dichiarazione di pubblica utilità, sia il decreto di esproprio, e quindi sintetizza uno actu lo svolgimento dell'intero procedimento, in presenza dei presupposti indicati dalla norma (Corte Cost., n. 71/2015).
Trattasi di procedimento autonomo, le cui regole procedimentali non sono quelle ordinarie dettate per l’adozione del decreto di esproprio ma sono appositamente statuite dall’art. 42 bis del d.p.r. n. 327/2001, ferma restando la necessità della contestuale valutazione del pregiudizio economico, che nel caso di specie risente del precetto di cui all’art. 44, comma 5, del d.p.r. n. 327/2001 o, comunque, della valutazione degli aspetti rimarcati nell’atto impugnato, che hanno portato a ritenere nullo il nocumento da indennizzare in considerazione della peculiarità del caso concreto.
Ciò precisato, appare corretto il procedimento attivato dal Comune, che in fase di comunicazione di avvio del procedimento ha avvertito l’interessato dei contenuti del provvedimento che sarebbe stato adottato, compresa la motivazione della scelta di non riconoscere indennizzo alcuno, e ad esito del contraddittorio ha provveduto all’acquisizione ai sensi dell’art. 42 bis del d.p.r. n. 327/2001.
6. Con la terza parte del primo motivo l’esponente deduce il difetto di un’adeguata istruttoria e di una valida motivazione.
La doglianza è infondata.
Il potere di disporre l'acquisizione ex art. 42 bis del d.p.r. 8 giugno 2001 n. 327 (avente ad oggetto, nel caso di specie, il diritto di servitù) è espressione del più generale potere di amministrazione attiva che compete agli enti pubblici, cui è riservata ampia discrezionalità in ordine alla valutazione comparativa degli interessi in gioco e alla conseguente decisione in ordine all'acquisizione o alla restituzione del bene (Cons. Stato, IV, 15.9.2014, n. 4696).
Con l’atto impugnato il Comune fa riferimento al presupposto progetto esecutivo, approvato nel 1984, delle opere di ammodernamento e potenziamento dell’impianto di illuminazione, comprendente i manufatti posti sull’edificio del deducente, indica lo spazio interessato dalla servitù (coincidente con la lunghezza della facciata, pari a 18,50 metri, immediatamente sotto la gronda di copertura), dà contezza della valutazione di soluzioni alternative a quella osteggiata dall’interessato, fa riferimento sia all’indispensabilità del passaggio dei cavi sulla facciata del palazzo in argomento ai fini del funzionamento del servizio di pubblica illuminazione, sia alla sostanziale inesistenza di danni materiali ed estetici, desunta dallo stato fatiscente dell’immobile e dall’esistenza di altre linee elettriche private e telefoniche visibili sulla parete esterna del fabbricato de quo.
Invero la documentazione fotografica depositata in giudizio dall’Ente (si veda la scheda n. 33 di cui agli allegati n. 5 e 6) raffigura l’occupazione della facciata, da parte dei cavi in questione, per uno spazio circoscritto contiguo alla grondaia. D’altro canto la scelta di non adottare una delle due soluzioni alternative suggerite dall’interessato, costituite dall’interramento o dal passaggio dei cavi sopra una parte della piazza, non appare illogica: l’interramento comporterebbe ovvi costi superiori e comunque, per ragioni di uniformità di trattamento, creerebbe un precedente da estendere alle altre proprietà del centro di Magliano in Toscana parimenti interessate dall’attraversamento delle pubbliche condutture elettriche, mentre l’inserimento di cavi pensili sulla piazza li renderebbe ancora più visibili e pregiudicherebbe in parte la veduta della piazza (pagina 3 dell’atto impugnato).
Il riferimento, espresso nel decreto in questione, allo stato di fatiscenza dell’immobile è contestato dal ricorrente, sulla base dell’assunto che egli installò i ponteggi per ristrutturare la facciata, ma fu poi costretto a rimuoverli a causa del rifiuto, opposto dal Comune, di eliminare l’abusivo elettrodotto, tanto che sia il Tribunale civile di Grosseto sia la Corte di Appello di Firenze hanno condannato l’Ente a rimborsare il costo di installazione e rimozione del ponteggio.
Occorre tuttavia considerare che la mancata rimozione dei cavi, stante lo spazio circoscritto da essi occupato e la loro posizione vicino alla gronda di copertura, non appare precludere di per sé il reintonaco e la tinteggiatura della facciata, come conferma il fatto che le facciate di altri edifici del centro, pur essendo parimenti attraversate da cavi, risultano in perfetto stato di manutenzione (si veda l’ampia documentazione di cui all’allegato n. 7 depositato in giudizio dal Comune). Ma anche a prescindere da ciò (e recependo la precisazione, contenuta nella sentenza del giudice di appello, secondo cui “il Neri ha…provato di avere ripetutamente tentato di operare la ristrutturazione edilizia della facciata del palazzo senza riuscirvi per gli ostacoli frapposti dall’amministrazione comunale alla rimozione dell’impianto elettrico e al posizionamento dei ponteggi”), sussiste comunque, come decisiva, la condizione di inagibilità degli appartamenti interni all’edificio (si veda la certificazione rilasciata dal Comune, in data 24.5.2002, ai fini della riduzione dell’ICI, depositata in giudizio dal deducente), sui quali la presenza dell’elettrodotto esterno non può interferire. Né il ricorrente ha dato prova del nesso di causalità tra degrado degli appartamenti interni e presenza dell’impianto di illuminazione (come precisato dal Tribunale di Grosseto nella sopra citata sentenza del n. 76 del 27.6.2013: “l’attore avrebbe…dovuto provare la situazione di degrado in cui versavano gli appartamenti interni all’edificio in oggetto, a causa della mancata ristrutturazione della facciata, dovuta alla presenza dell’impianto di illuminazione”).
Infatti il Comune, nella motivazione dell’atto impugnato, non si è limitato ad indicare lo stato della facciata, ma ha evidenziato che l’immobile “è fatiscente e peraltro assolutamente inadeguato all’uso residenziale a causa delle sue condizioni”.
In ogni caso, in punto di diritto la condotta del Comune che impedisca lo spostamento (provvisorio) dei cavi elettrici, necessario ai fini della ristrutturazione dell’immobile, non potrebbe trovare alcuna giustificazione negli effetti giuridici propri dell’istituita servitù di elettrodotto. Infatti l’art. 122, comma 4, del R.D. n. 1775 del 1933 (secondo cui il proprietario ha facoltà di eseguire qualunque innovazione, costruzione o impianto, ancorchè essi obblighino l’esercente dell’elettrodotto a rimuovere o collocare diversamente le condutture e gli appoggi, senza che per ciò sia tenuto ad alcun indennizzo o rimborso a favore dell’esercente medesimo) preclude qualsiasi legittima opposizione del Comune allo spostamento dei cavi che sia giustificato dall’esigenza del privato di eseguire lavori di rifacimento della facciata e, al tempo stesso, esonera il proprietario dell’immobile asservito da ogni e qualsiasi spesa relativa alla rimozione o allo spostamento dei cavi posti lungo la facciata dell’immobile stesso (Cass., II, 16.4.1981, n. 2306;idem, 23.5.1984, n. 3148;Giudice di Pace di Piacenza, 10.9.2002, n. 708). Ne discende che l’eventuale decisione dell’Ente di inibire lo spostamento dei cavi e rendere di conseguenza impossibile o difficoltoso il restauro della facciata potrebbe rilevare come autonoma fonte di responsabilità risarcitoria ex art. 2043 cod. civ., ma non come effetto pregiudizievole dell’impugnato provvedimento.
Trova infine riscontro il riferimento, espresso nella premessa del gravato decreto, alla visibile presenza di altre linee: dalla documentazione fotografica depositata in giudizio (scheda n. 33 dell’allegato n. 7 prodotto dall’Ente) risultano altri cavi, situati in posizione più centrale di quella dei manufatti occorrenti all’illuminazione pubblica e quindi più visibili.
Appare pertanto assolto il rigoroso onere motivazionale introdotto dall’art. 42 bis, comma 4, del d.p.r. n. 327/2001.
7. La quarta parte del primo motivo di ricorso si incentra sull’omessa determinazione dell’indennizzo previsto dall’art. 42 bis del d.p.r. n. 327/2001;l’interessato lamenta inoltre la mancata attivazione del procedimento di determinazione provvisoria dell’indennità dovuta.
Il rilievo è infondato.
Premesso che l’art. 42 bis del d.p.r. n. 327/2001 indica la previsione dell’indennizzo quale elemento qualificante l’acquisizione postuma, tale da incidere sulla sua legittimità (a differenza del pagamento, assurto a condizione di efficacia ai sensi del comma 4 dell’art. 42 bis) sempre che vi sia (come normalmente accade) un effettivo pregiudizio, il Collegio osserva quanto segue.
Il Comune, con il contestato decreto, ha giustificato il mancato riconoscimento del predetto indennizzo facendo leva sull’art. 44, comma 5, del d.p.r. n. 327/2001, secondo cui non è dovuta alcuna elargizione qualora la servitù non cagioni un grave incomodo, ed ha ritenuto tale norma appropriata rispetto alla vicenda in esame alla luce della ravvisata inesistenza di un danno arrecato all’edificio dalla apposizione dei cavi in argomento.
Tuttavia, al di là del riferimento all’assenza di gravi incomodi contenuto nella norma richiamata, l’amministrazione ha variamente argomentato la propria stima di un pregiudizio nullo.
In effetti, le evidenziate condizioni di inabitabilità dell’immobile e la posizione del manufatto oggetto di controversia (posto sotto la gronda di copertura ed avente un’area di ingombro ridotta) giustificano il giudizio di assenza di un nocumento da indennizzare.
Non induce a diverso giudizio l’affermazione del ricorrente secondo cui la fatiscenza dell’edificio sarebbe riconducibile alla condotta osteggiante del Comune, che, per non voler rimuovere i cavi in questione, impedirebbe i necessari lavori di restauro.
Invero, ammesso che la provvisoria rimozione o il provvisorio spostamento dei cavi sia reso necessario dalla corretta esecuzione di detti lavori, la natura giuridica della contestata servitù non è tale da giustificare la denunciata condotta ostativa, stante il disposto di cui all’art. 122, comma 4, del R.D. n. 1775/1933, rispetto al cui contenuto valgono le considerazioni sopra espresse dal Collegio. Pertanto, l’atto impugnato non è suscettibile di recare pregiudizio nemmeno sotto il profilo della compromissione della facoltà del privato di eseguire opere di manutenzione sulla facciata oggetto di servitù.
Non depone in senso contrario il fatto che l’art. 42 bis del d.p.r. n. 327/2001 preveda anche il risarcimento del danno non patrimoniale, ancorandolo ad una percentuale del valore venale del bene. Infatti nel particolare caso delle servitù il valore venale va inteso come pregiudizio economico o deprezzamento derivante dall’asservimento.
Né il legislatore ha previsto per l’acquisizione de qua uno speciale procedimento di determinazione provvisoria dell’indennizzo, rilevando al riguardo non una determinazione riferita all’indennità di esproprio o di occupazione, ma una autonoma valutazione economica contestuale all’adozione del provvedimento sanante e oggetto di comunicazione di avvio del procedimento, ancorata all’effettivo pregiudizio derivante dall’acquisizione postuma. Valgono sul punto le considerazioni espresse dal Collegio nella trattazione della seconda parte del primo motivo di gravame.
8. Con il secondo motivo l’istante sostiene che solo in seguito al pagamento dell’indennità accettata dal privato o al deposito della stessa la P.A. avrebbe potuto emanare il decreto di acquisizione de quo ;aggiunge che l’art. 44, comma 5, del d.p.r. n. 327/2001 non si attaglia alla vicenda in esame, in quanto non tiene conto del pregiudizio non patrimoniale scaturente dal protratto comportamento illegittimo del Comune e riguarda il diverso caso del pregiudizio arrecato da un’attività lecita;secondo l’interessato l’impugnato provvedimento è illegittimo sia sotto il profilo dell’omessa determinazione dell’indennizzo a seguito del procedimento disciplinato dagli artt. 20 e seguenti del d.p.r. n. 327/2001, sia sotto il profilo del disconoscimento di qualsiasi indennità.
I rilievi non sono condivisibili.
Valgono le considerazioni espresse nella trattazione della precedente doglianza.
Non rilevano gli artt. 20 e seguenti richiamati dall’esponente, essendo quest’ultime norme riferite al procedimento di esproprio, estranee alla disciplina speciale di cui all’art. 42 bis del d.p.r. n. 327/2001, il quale delinea un’autonoma regolamentazione degli aspetti giuridici ed economici dell’acquisizione sanante del bene privato.
La disciplina introdotta in materia di acquisizione sanante prevede inoltre, come condizione necessaria ai fini dell’«indennizzo», l’esistenza di un pregiudizio, la cui valutazione in ordine all’ an ed al quantum costituisce fase propedeutica alla decisione sulla corresponsione economica.
Nel caso di imposizione di servitù, anche se disposta in via postuma e a sanatoria, rileva, ai fini del dato sostanziale della sussistenza del nocumento assunto a presupposto dell’elargizione prevista dall’art. 42 bis, la specifica disciplina sancita dall’art. 44, comma 5, del d.p.r. n. 327/2001, che esclude la possibilità di riconoscere un equivalente economico della servitù qualora la stessa non si traduca in un grave incomodo dell’immobile servente, alludendo a particolari ipotesi, entro il circoscritto ambito di tale tipologia di diritto reale, di oggettiva esiguità delle conseguenze dell’atto ablatorio sulla proprietà privata (oggettiva esiguità che, per il tipo di servitù in questione, trova come visto un riscontro nell’art. 122, comma 4, del R.D. n. 1775/1933).
Tuttavia, anche prescindendo dal suddetto precetto normativo, la particolarità del caso argomentata nel contestato decreto (in particolare la scarsa visibilità dei cavi, la ridotta area di ingombro degli stessi e l’inagibilità degli appartamenti interni) giustifica l’azzeramento della stima economica della posizione incisa e porta a giustificare la contestata decisione dell’Ente in relazione alla componente indennitaria. Ciò vale anche per il lamentato disconoscimento del pregiudizio non patrimoniale, da proporzionare al valore venale del diritto colpito dalla servitù (valore corrispondente al deprezzamento derivante dall’asservimento).
Nello stesso senso si pone il combinato disposto dell’art. 44, comma 5, del d.p.r. n. 327/2001, dal quale è desumibile una specifica causa di azzeramento del suddetto valore, e dell’art. 42 bis, comma 1, del d.p.r. n. 327/2001, alla cui stregua il menzionato valore venale deve essere considerato come parametro di riferimento ai fini del calcolo del nocumento non patrimoniale.
9. Il terzo motivo, dedotto in ipotesi subordinata, si incentra sulla richiesta di condanna al pagamento dell’indennizzo ex art. 42 bis ed al risarcimento del danno da occupazione senza titolo, nonché sulla domanda di annullamento dell’atto impugnato limitatamente alla parte in cui prevede che non debba essere riconosciuta alcuna indennità.
La censura non può essere accolta.
Le sopra esposte considerazioni portano a ritenere legittimo il provvedimento de quo, anche nella parte riferita al disconoscimento dei presupposti dell’elargizione economica (il quale come visto non può inficiare la validità dell’acquisizione sanante), e ad escludere la sussistenza di un qualsivoglia pregiudizio risarcibile. L’infondatezza delle sopra esaminate censure, tra le quali quelle riferite alle valutazioni di danno incidenti sulla legittimità dell’atto ablatorio sanante, rende con evidenza impraticabile la rivendicazione di un corrispettivo economico subordinata alla decisione del giudice di non annullare l’atto impugnato, in quanto è proprio la decisione di non annullare l’atto a precludere in nuce la pretesa risarcitoria finale.
10. Il ricorrente, con motivi aggiunti proposti ad esito della pronuncia della Corte di Appello di Firenze, ha chiesto, accanto all’annullamento del provvedimento impugnato, la condanna alla rimozione di ogni manufatto apposto sulla facciata, e in via subordinata la condanna al pagamento degli indennizzi ed al risarcimento del danno.
I suddetti motivi non sono condivisibili.
Premesso che la domanda di rimessa in pristino rappresenta l’esplicitazione della portata conformativa e ripristinatoria della pronuncia di annullamento richiesta ex artt. 30 e 34 c.p.a., vale il giudizio di infondatezza espresso in relazione alle censure dedotte con il ricorso principale.
In conclusione, il ricorso principale ed i motivi aggiunti devono essere respinti.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come indicato nel dispositivo.