TAR Bologna, sez. I, sentenza 2014-10-09, n. 201400946

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Bologna, sez. I, sentenza 2014-10-09, n. 201400946
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Bologna
Numero : 201400946
Data del deposito : 9 ottobre 2014
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 00300/2004 REG.RIC.

N. 00946/2014 REG.PROV.COLL.

N. 00300/2004 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Emilia Romagna

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso n. 300 del 2004 proposto da N G, rappresentata e difesa dall’avv. A M, con domicilio presso la Segreteria del Tribunale;

contro

il Comune di Rimini, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’avv. M A F e dall’avv. E F, ed elettivamente domiciliato in Bologna, Strada Maggiore n. 31, presso lo studio dell’avv. C R;

nei confronti di

Pesaresi Giuseppe S.p.A.;

per l'annullamento

della deliberazione della Giunta comunale di Rimini n. 495 del 2 dicembre 2003, avente ad oggetto “ Approvazione progetto definitivo - esecutivo relativo alla realizzazione della piazzetta a Rivabella ”;

di ogni altro atto antecedente, conseguente, preordinato e comunque connesso, compresa la deliberazione comunale n. 6 in data 14 gennaio 2003 di approvazione del progetto preliminare dei lavori.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Rimini;

Visti gli atti tutti della causa;

Nominato relatore il dott. I C;

Uditi, per le parti, alla pubblica udienza del 25 settembre 2014 i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

FATTO e DIRITTO

Approvato con deliberazione n. 6 in data 14 gennaio 2003 il progetto preliminare dei lavori di “ realizzazione della piazzetta a Rivabella ”, la Giunta comunale di Rimini provvedeva successivamente all’approvazione del progetto definitivo - esecutivo dell’opera (v. delib. n. 495 del 2 dicembre 2003). Per quel che rileva nella presente controversia, veniva in particolare evidenziato come sull’area interessata – di proprietà comunale – insistesse una struttura privata adibita alla vendita di abbigliamento e come la riqualificazione dello spazio pubblico non ne consentisse la permanenza, sicché si decideva per la ricollocazione dell’attività commerciale in altra parte del territorio comunale previa effettuazione di tutte le formalità a ciò necessarie (“… tale obiettivo potrà essere conseguito solo dietro la disponibilità del Soggetto interessato, la presentazione di uno specifico progetto con le relative autorizzazioni e un preciso accordo tra le parti che disciplini tutti gli aspetti della vicenda … pertanto la definizione di tale problematica è demandata a successivi e separati atti a cura dei competenti uffici comunali coinvolti nella procedura …”).

La ricorrente, proprietaria della struttura in questione, ha impugnato la deliberazione comunale di approvazione del progetto definitivo - esecutivo dell’opera. Imputa all’Amministrazione comunale di non averle comunicato l’avvio del procedimento, ai sensi dell’art. 16, comma 4, del d.P.R. n. 327 del 2001 e dell’art. 16, comma 3, della legge reg. n. 37 del 2002;
lamenta, ancora, come non si sia tenuto conto di un simile obbligo partecipativo quale scaturente in ogni caso dalla generale previsione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990, in quanto destinataria degli effetti del provvedimento comunale;
censura, inoltre, il mancato deposito del progetto dell’opera presso l’Ufficio per le espropriazioni e la carenza delle altre formalità correlate a tale adempimento, in violazione dell’art. 16, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 327 del 2001 e dell’art. 16, commi 1 e 2, della legge reg. n. 37 del 2002;
denuncia, poi, la mancata specificazione della spesa per le espropriazioni, soprattutto dell’indennità dovuta per il chiosco di cui ella ha la proprietà superficiaria, ed evidenzia come neppure sia stato redatto l’elenco dei proprietari da espropriare, così come prescritto dall’art. 20 del d.P.R. n. 327 del 2001;
prospetta, altresì, la possibilità che la delibera impugnata sia temporaneamente inefficace nella parte che riguarda la sorte del chiosco, in quanto subordinata al perfezionamento degli atti idonei ad una nuova collocazione della struttura di vendita in altra parte del territorio comunale, e ciò con l’eventuale effetto di rendere insussistente l’interesse alla proposizione della precedente censura;
si duole, infine, della carenza di conformità urbanistica dell’opera pubblica, perché relativa ad area soggetta al piano particolareggiato dell’arenile (scheda 4.4 PRG) e perché inerente comparto privo di progetto unitario (scheda 4.6 PRG). Di qui la richiesta di annullamento degli atti impugnati.

Si è costituito in giudizio il Comune di Rimini, resistendo al gravame.

Dichiarata la perenzione del ricorso con decreto n. 832 del 18 settembre 2012, il Presidente del Tribunale ha successivamente revocato il decreto, ai sensi dell’art. 1, comma 2, dell’all. 3 al d.lgs. n. 104 del 2010, e ha disposto la reiscrizione della causa sul ruolo di merito (v. decreto n. 244 in data 6 marzo 2013).

All’udienza del 25 settembre 2014, ascoltati i rappresentanti delle parti, la causa è passata in decisione.

Il ricorso è infondato.

Quanto, innanzi tutto, alla lamentata omessa comunicazione di avvio del procedimento ex art. 16, comma 4, del d.P.R. n. 327 del 2001 e ex art. 16, comma 3, della legge reg. n. 37 del 2002, appare sufficiente rilevare come la normativa invocata riguardi la realizzazione delle opere pubbliche che comportano l’espropriazione delle aree dei privati cui va fatto l’avviso. Nella circostanza, tuttavia, si tratta di area comunale e il chiosco della ricorrente occupa un suolo pubblico.

Quanto, poi, alla denunciata inosservanza della disposizione generale di cui all’art. 7 della legge n. 241 del 1990, il Collegio riconosce come la ricorrente, espressamente presa in considerazione dal provvedimento impugnato, rientri quanto meno nella fattispecie di cui alla seconda parte del comma 1 (“… qualora da un provvedimento possa derivare un pregiudizio a soggetti individuati o facilmente individuabili, diversi dai suoi diretti destinatari, l’amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse modalità, notizia dell’inizio del procedimento ”). Va però anche considerato che, a norma dell’art. 21- octies , comma 2, della legge n. 241 del 1990 – disposizione introdotta nel 2005 ma applicabile anche ai giudizi instaurati precedentemente (v., ex multis , Cons. Stato, Sez. IV, 17 settembre 2012 n. 4925) – il “ provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato ”;
e secondo un orientamento giurisprudenziale che il Collegio condivide, se è vero che tale norma pone in capo all’Amministrazione (e non al privato) l’onere di dimostrare, in caso di mancata comunicazione dell’avvio, che l’esito del procedimento non poteva essere diverso, è altresì vero che, onde evitare di gravare l’Amministrazione di una probatio diabolica (quale sarebbe quella consistente nel dimostrare che ogni eventuale contributo partecipativo del privato non avrebbe mutato l’esito del procedimento), la norma in esame va interpretata nel senso che il privato non può limitarsi a lamentare la mancata comunicazione di avvio, ma deve anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione, con la conseguenza che solo dopo che il ricorrente ha adempiuto questo onere di allegazione (che la norma implicitamente pone a suo carico) l’Amministrazione sarà gravata dal ben più consistente onere di dimostrare che, anche ove quegli elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato, sicché ove il privato si limiti a contestare la mancanza di avviso, senza nemmeno allegare le circostanze che intendeva sottoporre all’Amministrazione, il motivo con cui si lamenta l’omessa comunicazione di avvio del procedimento deve ritenersi inammissibile (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. V, 20 agosto 2013 n. 4192 e 29 aprile 2009 n. 2737). Nella fattispecie, allora, risulta decisiva la circostanza che la ricorrente ha tralasciato di indicare gli elementi di giudizio che avrebbe segnalato all’Amministrazione in caso di partecipazione al procedimento, e ciò di per sé osta all’accoglimento della censura, dovendosi precisare che, ancorché il ricorso sia stato formulato prima della novella del 2005, al suddetto onere di allegazione la ricorrente ben avrebbe potuto provvedere nel corso del giudizio – anche a mezzo di semplice memoria difensiva –, ma che ciò non ha fatto, così implicitamente ammettendo di non avere elementi concreti da addurre.

Non si presenta meritevole di accoglimento, poi, la censura incentrata sulla violazione dell’art. 16, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 327 del 2001 e dell’art. 16, commi 1 e 2, della legge reg. n. 37 del 2002, in relazione all’asserita inosservanza delle formalità procedurali ivi previste, ed in particolare al mancato deposito del progetto dell’opera presso l’Ufficio per le espropriazioni e alla carenza degli altri adempimenti collegati. Come si è detto, infatti, nessuna espropriazione di aree private conseguiva alla realizzazione dell’opera, con conseguente esclusione dell’intervento dall’àmbito normativo invocato dalla ricorrente.

Né può lamentare l’interessata la mancata indicazione della spesa complessiva per le espropriazioni, ai sensi dell’art. 16, comma 1, della legge reg. n. 37 del 2002, o la carente redazione dell’elenco dei proprietari coinvolti nella proceduta ablatoria, ai sensi dell’art. 20, comma 1, del d.P.R. n. 327 del 2001. La ricorrente, invero, può al più rivestire la posizione di concessionario di bene pubblico, con la conseguenza che l’obbligo di rimozione del manufatto di cui ella ha la proprietà superficiaria sottintenderebbe in questo caso una revoca della concessione e l’attribuzione eventuale di un indennizzo, che non avrebbe comunque natura di indennità di espropriazione, e neppure, per giurisprudenza costante, richiederebbe quale condizione di legittimità dell’azione amministrativa la sua contestuale e immediata determinazione, spettando semplicemente al privato azionare la pretesa patrimoniale innanzi al giudice amministrativo ove l’Amministrazione dovesse ingiustificatamente rimanere inerte. Non convince, invece, la tesi per cui, in via subordinata, l’atto comunale di approvazione del progetto si potrebbe ritenere inefficace in parte qua , perché – si dice – condizionato al completarsi della procedura di trasferimento del chiosco in altra parte del territorio comunale;
ad avviso del Collegio, il previsto rinvio della definizione della questione ad ulteriori determinazioni comunali riguarda solo la fase dell’individuazione della nuova localizzazione e della conseguente materiale installazione altrove del chiosco, non anche l’immediato effetto di incompatibilità della sua presenza con l’intervento da effettuarsi sull’area pubblica.

Un’ultima questione è legata alla circostanza che, a dire della ricorrente, l’opera pubblica in esame difetterebbe del requisito della conformità urbanistica – in quanto relativa ad area priva del piano particolareggiato dell’arenile (scheda 4.4 PRG) e carente altresì di un progetto unitario di intervento per l’intero comparto (scheda 4.6 PRG) –, sicché vizierebbe le determinazioni impugnate il mancato espletamento della speciale procedura di cui agli artt. 18 e 19 del d.P.R. n. 327 del 2001. In realtà – osserva il Collegio – gli atti censurati qualificano i lavori come opere di manutenzione straordinaria e anche la difesa comunale vi fa riferimento come “… lavori di manutenzione straordinaria e risanamento conservativo di un’area di proprietà comunale a destinazione pubblica, che non modificano in alcun modo la destinazione d’uso dell’area …” (v. memoria depositata il 2 luglio 2014) – qualificazione che la ricorrente non contesta –, sicché la circostanza che si tratti di intervento di natura meramente conservativa esclude che l’Amministrazione comunale dovesse astenersi dall’adozione delle relative misure fino all’approvazione del piano particolareggiato dell’arenile, ancora assente in quella fase storica;
allo stesso modo, poi, nulla vietava che l’intervento si realizzasse in via autonoma rispetto all’«autosilos» di cui alla scheda 4.6 PRG, per non risultare essenziale la contestualità di opere prive del carattere dell’interdipendenza.

In conclusione, il ricorso va respinto.

Le spese di lite seguono la soccombenza della ricorrente, e vengono liquidate come da dispositivo.

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