TAR Trieste, sez. I, sentenza 2014-01-21, n. 201400018

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Trieste, sez. I, sentenza 2014-01-21, n. 201400018
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Trieste
Numero : 201400018
Data del deposito : 21 gennaio 2014
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 00266/2013 REG.RIC.

N. 00018/2014 REG.PROV.COLL.

N. 00266/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 266 del 2013, proposto da:
Lignano Pineta S.p.A., rappresentata e difesa dall'avv. R B, con domicilio eletto presso Maria Grazia Tedesco Avv. in Trieste, Foro Ulpiano 3;

contro

La Regione Friuli-Venezia Giulia, rappresentata e difesa dagli avv. M D, D I, domiciliata in Trieste, piazza Unita' D'Italia 1;

per l'annullamento

-del provvedimento 5.6.2013 prot. 0013891/P con il quale il Direttore del Servizio demanio e consulenza tecnica della Regione Friuli Venezia Giulia ha rideterminato il canone demaniale dovuto alla ricorrente per l'anno 2013.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio della Regione Friuli-Venezia Giulia;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 gennaio 2014 il dott. Umberto Zuballi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

La ditta ricorrente spiega di essere concessionaria di una zona di demanio marittimo per gestire un approdo per il diporto nautico della durata di 50 anni a decorrere dal 29 settembre 1983. Si sofferma innanzi tutto sulla giurisdizione del giudice amministrativo, sulla base di una giurisprudenza sia del Consiglio di Stato sia della Corte di Cassazione, in quanto la rideterminazione dei canoni concessori implica una valutazione discrezionale da parte dell'amministrazione.

Nel primo motivo di ricorso evidenzia la non applicabilità della normativa di cui alla finanziaria 2007 al caso di specie.

Con il secondo motivo di ricorso deduce la violazione e la falsa applicazione dei commi 251 e 252 dell'articolo 1 della legge 296 del 2006, per violazione dell'articolo sette della legge 241 del 1990, la manifesta ingiustizia, il travisamento dei fatti e il difetto assoluto di motivazione. Osserva la ditta come la nuova norma si applica dal 1 gennaio 2007 e non quindi ai canoni concessori relativi alle concessioni in essere a detta data. In ogni caso se prevalesse l'altra tesi, la parte interessata doveva essere resa edotta dell'inizio del procedimento. Inoltre la regione Friuli Venezia Giulia non ha il potere di aumentare il canone di beni che appartengono allo Stato.

Con la terza censura deduce la violazione degli articoli 251 e 252 dell'articolo 1 della legge finanziaria 2007 per contrasto con gli articoli 3, 4 e 97 della Costituzione.

L'ultima censura riguarda il difetto di motivazione in relazione ai conteggi e alla misura dell'aumento previsto.

Si è costituita in giudizio la Regione eccependo il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, in mancanza di alcun potere discrezionale;
contesta poi le tesi di parte ricorrente.

Infine nella pubblica udienza del 15 gennaio 2014 la causa è stata introitata per la decisione.

DIRITTO

Oggetto del presente ricorso è il provvedimento del 5 giugno 2013 con il quale il direttore del servizio demanio della regione ha determinato ai sensi della legge 296 del 2006 articolo uno commi 250 e seguenti il canone demaniale dovuto all'anno 2013.

Va innanzi tutto esaminata la questione della giurisdizione.

In generale va affermato che le controversie concernenti indennità, canoni o altri corrispettivi, riservate, in materia di concessioni amministrative, alla giurisdizione del giudice ordinario sono solo quelle con un contenuto meramente patrimoniale;
quando, invece la controversia coinvolge la verifica dell'azione autoritativa della p.a. sull'intera economia del rapporto concessorio, la medesima è attratta nella sfera di competenza del giudice amministrativo. In quest'ultima ipotesi, infatti, la controversia ha per oggetto non soltanto la misura del canone di concessione di un bene demaniale, bensì la qualificazione giuridica o la natura intrinseca dell'atto concessorio, sicché le conseguenze patrimoniali (cioè la misura del canone ) sono meramente accessorie rispetto alla questione principale (cfr. Cons. Stato, VI, 17 febbraio 2004, n. 657).

Specificatamente sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo in tema di controversie concernenti la di rivalutazione dei canoni concessori demaniali marittimi ex art. 4, l. n. 494/1993, n. 494, e art. 1, commi 251 e 252, legge finanziaria n. 296/2006 (C d S 4 novembre 2013 n. 5289;
3 febbraio 2011, n. 787;
14 ottobre 2010, n. 7505;
26 maggio 2010, n. 3348).

Venendo al merito, va da subito evidenziato come il ricorso merita accoglimento.

Con il primo motivo di ricorso si sostiene la non applicabilità della legge finanziaria 2007 (articolo 1 commi 251 e 252 della legge 296 del 1996). Ritiene il ricorrente che la normativa sia applicabile unicamente alle concessioni poste in essere dopo il 1 gennaio 2007 e non a quelle in essere a detta data.

L’assunto non è condivisibile, in quanto la norma per la sua dizione e ratio si applica pacificamente anche alle concessioni in essere. Il legislatore ha inteso correggere l’evidente sproporzione dei canoni concessori relativi al demanio marittimo.

Merita invece accoglimento la censura relativa alla natura particolare del canone nel caso in esame.

Invero la fattispecie in esame non riguarda una concessione per finalità turistico ricreativa, ma una concessione demaniale inerente a strutture relative alla nautica di diporto, in relazione a un concessionario che ha investito cifre consistenti per realizzare strutture portuali marittime che al termine della concessione rimarranno di proprietà statale.

Evidentemente una concessione di tal fatta e natura implica un sinallagma affatto diverso da quello riguardante una normale concessione demaniale a fini turistico ricreativi, proprio perché essa a fronte di una durata prolungata nel tempo comporta un impegno notevole da parte del concessionario in termini di investimenti. Tra l’altro una volta realizzate le opere il concessionario deve pagare il canone demaniale sulle stesse opere, costruite a spese del concessionario e destinate comunque a divenire al termine della concessione di proprietà statale.

In sostanza un’interpretazione corretta della normativa sopra citata implica che il canone come rideterminato dal comma 251 riguarda solo le opere statali e quindi le opere realizzate dal concessionario solo al termine della concessione, quando dette opere verranno trasferite allo Stato. Solo in tal modo viene salvaguardato il sinallagma originario della concessione di lunga durata e vengono differenziate le due diverse ipotesi comprese nelle concessioni.

Ci si trova invero in presenza di una fattispecie modificativa degli elementi essenziali del rapporto giuridico instauratosi tra l'amministrazione demaniale e la società ricorrente, di natura tale da porre le parti medesime innanzi a un nuovo rapporto concessorio. Invero la durata cinquantennale della concessione risponde all’esigenza di ammortamento degli investimenti necessari a realizzare il porto turistico.

E’ invero possibile ad avviso di questo Collegio fornire un’interpretazione costituzionalmente corretta della normativa di cui ai ripetuti commi 251 e 252 che implica la loro applicabilità solo alle tipologie di concessioni demaniali in cui non sono previste opere di difficoltosa e onerosa realizzazione a carico del privato, anche nella considerazione della mancata espressa abrogazione del DM 343 del 1998, riguardante appunto la fattispecie in esame.

Il concessionario nel caso si trova al cospetto di un atto che, sebbene costituisca applicazione di una clausola di adeguamento dell'entità del canone a parametri normativamente stabiliti, produce tuttavia l'effetto della non riconoscibilità del rapporto nei suoi tratti originari e, dunque, in quelli che sono i suoi elementi essenziali.

Non può, infatti, ignorarsi che il canone di una concessione demaniale costituisce non solo il corrispettivo per il godimento e l'uso di un bene pubblico che si è attribuito ad un privato, ma rappresenta anche elemento capace di incidere significativamente sul calcolo della convenienza economica che l'operazione può avere per il concessionario.

Risulta evidente che la stima della redditività della gestione di un bene in regime di concessione è condizionata dalla possibilità di confidare ragionevolmente su un graduale aggiornamento dell'entità del canone che ponga al riparo il concessionario dal rischio di un imprevisto ed eccessivamente oneroso impegno contrattuale.

Ciò permette, in una logica di analisi economica del diritto, di compiere adeguate valutazioni circa l'entità degli investimenti da effettuare, e anche in ordine alla convenienza stessa della durata della concessione che è stabilita in 50 anni, nel caso di specie, proprio al fine di consentire un graduale ammortamento degli investimenti programmati.

La fondatezza di siffatto ordine di argomentazioni si ricava anche dalla lettura di una disposizione contenuta nel codice civile italiano, l'art. 1623 c.c., la quale disciplina le modificazioni sopravvenute del rapporto di affitto ossia una fattispecie negoziale che presenta, per certi versi, elementi di affinità rispetto al rapporto di concessione di cui si controverte.

Ebbene, il precetto normativo in questione, stabilisce che " se, in conseguenza di una disposizione di legge o di un provvedimento dell'autorità riguardanti la gestione produttiva, il rapporto contrattuale risulta notevolmente modificato in modo che le parti ne risentano rispettivamente una perdita e un vantaggio, può essere richiesto un aumento o una diminuzione del fitto ovvero, secondo le circostanze, lo scioglimento del contratto.".

Sebbene la norma operi nell'ambito proprio del rapporto di affitto disciplinato dal codice civile italiano, deve ritenersi che essa proponga un modello di azione utilizzabile anche in presenza di modificazioni sopravvenute di un rapporto contrattuale accessivo alla concessione di un bene pubblico quale il demanio marittimo.

La significativa alterazione dell'equilibrio tra le prestazioni dedotte nel rapporto contrattuale, che fa seguito al considerevole incremento del canone concessorio prospetta alla parte concessionaria la necessità di recuperare spazi di discrezionalità economica in termini di assenso alla nuova concessione, ovvero in termini di scioglimento dal vincolo assunto.

Un’alternativa del genere può, però, essere esercitata solo in presenza di adeguate garanzie partecipative.

In definitiva, quando l'aggiornamento del canone comporta un aumento imprevisto delle somme da versare all'interlocutore pubblico, pur in seguito alla doverosa applicazione di norme di legge, l'amministrazione pubblica è obbligata a dare comunicazione di avvio del procedimento di aggiornamento medesimo al fine di permettere al concessionario un’adeguata rinegoziazione delle condizioni economiche dell'uso del bene pubblico, ovvero di esercitare, al limite, anche la facoltà di recedere dal vincolo assunto in precedenza.

Sta di fatto che, però, nella fattispecie concreta, detta comunicazione di avvio del procedimento è mancata e il concessionario è stato posto repentinamente di fronte ad un canone incrementato in misura significativa rispetto all'importo originariamente stabilito.

Che ciò sia avvenuto in applicazione di una ben precisa disposizione di legge, da ricercarsi nell'art. 1, commi 251 e 252 della legge 296/2006 non impediva alla pubblica amministrazione il ricorso al modulo partecipativo dell'azione amministrativa, tanto più in presenza di una modifica sopravvenuta così radicale del rapporto concessorio da esigere un opportuno spazio di rinegoziazione in favore del privato, realizzabile solo attraverso la garanzia della partecipazione al procedimento di rideterminazione del canone (TAR Lecce 246 del 2012).

In conclusione il ricorso va accolto con conseguente annullamento dell’atto impugnato.

Sussistono, tuttavia, anche in considerazione delle oscillazioni giurisprudenziali in materia, giusti motivi per disporre l’integrale compensazione delle spese di lite tra le parti, salvo che per il contributo unificato cha va rimborsato alla ricorrente nella misura versata.

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