TAR Roma, sez. 5B, sentenza 2022-06-06, n. 202207320

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Roma, sez. 5B, sentenza 2022-06-06, n. 202207320
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Roma
Numero : 202207320
Data del deposito : 6 giugno 2022
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 06/06/2022

N. 07320/2022 REG.PROV.COLL.

N. 06415/2016 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Quinta Bis)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6415 del 2016, proposto da
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati R L, A C P, con domicilio eletto presso lo studio Rosalba Grasso in Roma, v.le G. Mazzini, 113;

contro

Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per l'annullamento

del provvedimento del Ministero dell’Interno -OMISSIS-, di rigetto della domanda di concessione della cittadinanza italiana ai sensi dell'art. 9 co. 1 lett. f) l.n. 91/92.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza smaltimento del giorno 23 maggio 2022 il dott. D T e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

Con il ricorso in esame, viene impugnato il provvedimento -OMISSIS-, con cui il Ministero dell'Interno ha rigettato l'istanza del ricorrente del -OMISSIS- volta all'ottenimento della cittadinanza per residenza.

In particolare, la cittadinanza è stata negata perché a carico dell'interessato sono emerse le seguenti circostanze:

1) il procedimento penale n. -OMISSIS-, pendente presso il Tribunale di Pordenone per violazione degli artt. 81, 572 (maltrattamenti contro familiari e conviventi), 582 (lesioni personali) e 585 (circostanze aggravanti) del c.p., definito con sentenza di condanna n.-OMISSIS- del Tribunale di Pordenone;

2) revoca della carta di soggiorno per "maltrattamenti in famiglia e pericolosità sociale";

3) allontanamento, nel maggio 2014, dalla propria abitazione con provvedimento del Tribunale dei Minori di Trieste, con divieto di avvicinamento ai sensi dell'art. 342 ter del c.c., a seguito delle condotte messe in atto nei confronti dei componenti del nucleo familiare, alcuni dei quali minori.

Alla pubblica udienza del 23.05.2022 la causa è stata posta in decisione.

Con un primo motivo di ricorso, il ricorrente fa valere un “travisamento di fatti”, perché “il procedimento penale, sorto per seria imputazione di maltrattamenti ex art. 572 c.p. (punito con pena da 1 a 5 anni), subiva la derubricazione nel ben meno grave reato di cui all'art. 571 c.p., punito con la reclusione fino a 6 mesi (quindi senza nemmeno un minimo edittale)”, e “l'istruttoria non ha tenuto conto dell'evolversi del procedimento penale”.

E la stessa revoca della carta di soggiorno è stata la conseguenza della originaria imputazione ai sensi dell'art. 572 c.p. (maltrattamenti), venendo giustificata sulla base dei "maltrattamenti familiari e della pericolosità sociale", ma, rileva il ricorrente, “essendo venuto meno il presupposto per l'adozione del provvedimento di revoca della carta di soggiorno, tale fatto non può certo essere usato per giustificare il diniego di concessione della cittadinanza”.

E infine, per quanto riguarda il suo allontanamento dall’abitazione familiare, secondo il ricorrente “anche in questo caso la situazione fattuale è rappresentata parzialmente e in modo da risultare deteriore”, perché “la situazione familiare ha trovato un successivo componimento del tutto bonario con una separazione giudiziale con conclusioni congiunte, omologata dal Tribunale di Pordenone in data-OMISSIS-”.

In ogni caso, sostiene il ricorrente col 2° motivo di ricorso, il provvedimento sarebbe “ugualmente viziato per motivazione erronea e difetto di proporzionalità nel ritenere che i presupposti di fatto citati costituissero motivo ostativo alla concessione della cittadinanza, perché sintomatici di una inidoneità del richiedente ad integrarsi nella comunità italiana”.

Ciò perché “la situazione di tensione familiare, erroneamente ritenuta ostativa alla concessione della cittadinanza, è stata del tutto transitoria, collocandosi in una situazione per il resto del tutto regolare e osservante delle regole della comunità civile italiana”.

E il fatto che si sia trattato di un “unico episodio, avente rilevanza penale limitata, preceduto e soprattutto, seguito, da perfetta osservanza della legge della Repubblica”, ha fatto sì che gli potesse “ottenere il beneficio della conversione della pena di quattro mesi di reclusione in otto mesi di libertà controllata e la sospensione condizionale della pena”.

E pertanto, continua il ricorrente, l’Amministrazione avrebbe dovuto tenere conto anche del fatto che egli “è in Italia da vent'anni, nel corso dei quali ha sempre lavorato, ha acquistato casa contraendo un mutuo insieme alla moglie che ha provveduto a onorare, ha impartito educazione e fatto studiare tutti i suoi cinque figli, ha frequentato e frequenta la comunità religiosa di appartenenza (cristiana) ed è integrato nelle abitudini di vita della nostra terra”, per cui “manca quindi totalmente una visione di insieme,…che focalizzi l'attenzione, oltre che sul periodo limitato di accesa crisi familiare, su come il ricorrente è stato in grado di superarla, assumendosi le sue responsabilità e dando prova di un pieno ravvedimento e di comprovata attitudine al rispetto della normativa e delle regole del vivere civile”.

Essendo i descritti motivi di ricorso strettamente connessi, possono essere esaminati congiuntamente.

Il Collegio ritiene il ricorso infondato, perché la prospettazione del ricorrente contrasta con la ricostruzione dell’istituto della cittadinanza per naturalizzazione effettuata dalla giurisprudenza in materia, di recente sintetizzata dalla Sezione (TAR Lazio, sez. V bis, n. 2943, 2944, 2947, 3018 e 3471 del 2022).

L'acquisizione dello status di cittadino italiano per naturalizzazione è oggetto di un provvedimento di concessione, che presuppone l'esplicarsi di un'amplissima discrezionalità in capo all'Amministrazione, come si ricava dalla norma, attributiva del relativo potere, contenuta nell’art. 9, comma 1, della L. n. 91/1992, ai sensi del quale la cittadinanza “può” essere concessa.

L’ampia discrezionalità in questo procedimento si esplica, in particolare, in un potere valutativo in ordine al definitivo inserimento dell'istante all'interno della comunità nazionale, in quanto al conferimento dello status civitatis è collegata una capacità giuridica speciale, propria del cittadino, che comporta non solo diritti – consistenti, sostanzialmente, nei “diritti politici” di elettorato attivo e passivo (che consente, mediante l’espressione del voto alle elezioni politiche, la partecipazione all’autodeterminazione della vita del Paese di cui si chiede di entrare a far parte), e alla possibilità di assunzione di cariche pubbliche – ma anche doveri nei confronti dello Stato-comunità, con implicazioni d’ordine politico-amministrativo;
si tratta infatti di determinazioni che rappresentano un'esplicazione del potere sovrano dello Stato di ampliare il numero dei propri cittadini (cfr. Consiglio di Stato, AG, n. 9/1999 del 10.6.1999;
sez. IV n. 798/1999;
n. 4460/2000;
n. 195/2005;
sez, I, 3.12.2008 n. 1796/08;
sez. VI, n. 3006/2011;
Sez. III, n. 6374/2018;
n. 1390/2019, n. 4121/2021;
TAR Lazio, Sez. II quater, n. 10588 e 10590 del 2012;
n. 3920/2013;
4199/2013).

Pertanto, l'interesse dell'istante a ottenere la cittadinanza deve necessariamente coniugarsi con l'interesse pubblico a inserire lo stesso a pieno titolo nella comunità nazionale.

E se si considera il particolare atteggiarsi di siffatto interesse pubblico, avente natura “composita”, in quanto teso alla tutela della sicurezza, della stabilità economico-sociale, del rispetto dell’identità nazionale, è facile comprendere il significativo condizionamento che ne deriva sul piano dell’agire del soggetto (il Ministero dell’Interno) alla cui cura lo stesso è affidato.

In questo quadro, pertanto, l’Amministrazione ha il compito di verificare che il soggetto istante sia in possesso delle qualità ritenute necessarie per ottenere la cittadinanza, quali l’assenza di precedenti penali, la sussistenza di redditi sufficienti a sostenersi, una condotta di vita che esprima integrazione sociale e rispetto dei valori di convivenza civile.

La concessione della cittadinanza deve rappresentare il suggello, sul piano giuridico, di un processo di integrazione che nei fatti sia già stato portato a compimento, la formalizzazione di una preesistente situazione di “cittadinanza sostanziale” che giustifica l’attribuzione dello status giuridico.

In tal modo, l'inserimento dello straniero nella comunità nazionale può avvenire (solo) quando l'Amministrazione ritenga che quest'ultimo possieda ogni requisito atto a dimostrare la sua capacità di inserirsi in modo duraturo nella comunità, mediante un giudizio prognostico che escluda che il richiedente possa successivamente creare problemi all’ordine e alla sicurezza nazionale, disattendere le regole di civile convivenza ovvero violare i valori identitari dello Stato (cfr., ex multis, TAR Lazio, Roma, Sez. I ter, n. 3227/2021;
n. 12006/2021 e sez. II quater, n. 12568/2009;
Cons. St., sez. III, n. 4121/2021;
n. 8233/2020;
n. 7122/2019;
n. 7036/2020;
n. 2131/2019;
n. 1930/2019;
n. 657/2017;
n. 2601/2015;
sez. VI, n. 3103/2006;
n.798/1999).

Tanto chiarito sulla natura discrezionale del potere de quo, ne deriva che il sindacato giurisdizionale sulla valutazione compiuta dall'Amministrazione – circa il completo inserimento o meno dello straniero nella comunità nazionale – non può spingersi al di là della verifica della ricorrenza di un sufficiente supporto istruttorio, della veridicità dei fatti posti a fondamento della decisione e dell'esistenza di una giustificazione motivazionale che appaia logica, coerente e ragionevole.

Ciò perché la giurisprudenza, dalla quale non vi è motivo per discostarsi, ha costantemente chiarito che, al cospetto dell’esercizio di un potere altamente discrezionale, come quello in esame, il sindacato del giudice amministrativo si esaurisce nel controllo del vizio di eccesso di potere, nelle particolari figure sintomatiche dell’inadeguatezza del procedimento istruttorio, illogicità, contraddittorietà, ingiustizia manifesta, arbitrarietà, irragionevolezza della scelta adottata o difetto di motivazione, e non può estendersi all’autonoma valutazione delle circostanze di fatto e di diritto su cui fondare il giudizio di idoneità richiesto per l’acquisizione dello status di cittadino;
il vaglio giurisdizionale non può sconfinare, quindi, nell’esame del merito della scelta adottata, riservata all’autonoma valutazione discrezionale dell’Amministrazione (ex multis, Cons. St., Sez. IV n. 6473/2021;
Sez. VI, n. 5913/2011;
n. 4862/2010;
n. 3456/2006;
TAR Lazio, Sez. I ter, n. 3226/2021, Sez. II quater, n. 5665/2012).

Applicando le coordinate tracciate al caso in esame, questo Collegio ritiene le censure formulate con il ricorso infondate, avendo l’Amministrazione valutato in maniera non manifestamente illogica la sua situazione, perché, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la circostanza che, nel giudizio penale, il P.M. abbia derubricato l’accusa originaria di “Maltrattamenti contro familiari e conviventi”, non può certo condurre alla conclusione della irrilevanza della condanna, visto che comunque il ricorrente è stato condannato per “abuso dei mezzi di correzione o di disciplina”, “percosse”, e “minacce”, “in danno alle figlie -OMISSIS- talvolta insultandole e colpendo con schiaffi, in particolare nel 2012 la figlia -OMISSIS- perché si era infastidita per le sue carezze ed era andata ad una festa senza la sua autorizzazione, cagionandole lividi al braccio destro ed alla faccia e costringendola a dormire in terrazza con la minaccia che in caso contrario avrebbe "visto sangue", colpendo la figlia -OMISSIS- sulle mani anche usando in una occasione una cintura ed un'altra un rotolo di Domopack;
colpiva la moglie durante i litigi con schiaffi e spinte e pugni ferendola una volta con il vetro di una porta accidentalmente frantumatosi e nel 2008 minacciandola in un'occasione con un coltello dicendo che volendo avrebbe potuto farla a pezzi”.

Cioè comportamenti violenti, posti in essere nel 2008 e dal 2011 al 2013, a fronte di un provvedimento di diniego della cittadinanza emesso nel 2016, che hanno indotto ragionevolmente il Ministero intimato ad affermare che “l'ordinamento italiano impedisce ogni forma di coercizione e di violenza, dentro e fuori la famiglia, e che il comportamento tenuto dal richiedente, palesemente in contrasto con il rispetto della dignità della persona in tutte le manifestazioni e in ogni momento della vita associativa, induce a formulare un giudizio negativo sul livello di integrazione raggiunto”.

Ora, se, da un lato, il Collegio non ignora quell’orientamento giurisprudenziale che – al fine di evitare che l’esercizio del potere discrezionale dell’Amministrazione in materia di cittadinanza sconfini in arbitrio – esclude la rilevanza automatica dei precedenti penali diversi da quelli automaticamente ostativi ex art. 6 legge n. 91/1992, in particolare ove trattasi di fatti qualificabili come reati “non gravi” e risalenti nel tempo in particolare ove sia intervenuta la riabilitazione (Cons. St., sez. VI, n. 3907/2008;
TAR Lazio, sez. II quater n. 292/2010;
Id., sez. I ter, n. 13686/21;
Cons. St., sez. III, n.1837/19. n. 3121/19;
n. 4151/2021), dall’altro rileva che, in tali ipotesi, non è che venga automaticamente vanificata la rilevanza delle medesime condotte, ma, semplicemente, che le stesse possono e devono essere attentamente valutate dall’Amministrazione, tenendo in considerazione tutto quel complesso degli specifici elementi che risultino rilevanti nel caso concreto, al fine di esprimere un giudizio sull’effettiva assimilazione dei valori fondamentali su cui si regge la comunità di cui il richiedente aspira a far parte, nonché di formulare una valutazione prognostica sull’inserimento dello stesso nella medesima comunità (tanto che le sentenze richiamate hanno annullato i provvedimenti negativi per difetto di motivazione, con rinvio per il riesame all’Amministrazione: Cons. St., sez. III, n. 1837/2019, n. 1893/2021, n. 4151/2021, n. 8022/2021).

A ciò si aggiunga anche, in linea con la giurisprudenza anche di questo Tribunale, dalla quale non vi è motivo per discostarsi, che la discrezionalità dell’Amministrazione procedente nella concessione dello status civitatis, di cui sono stati delineati sopra gli ampi margini di esercizio – a tutela dei rilevanti interessi dello Stato – nella valutazione in ambito amministrativo della condotta e dell’inserimento sociale dell’interessato, consente che “le valutazioni volte all'accertamento di una responsabilità penale si pongano su di un piano assolutamente differente e autonomo rispetto alla valutazione del medesimo fatto ai fini dell'adozione di un provvedimento amministrativo, con la possibilità che le risultanze fattuali oggetto della vicenda penale possano valutarsi negativamente, sul piano amministrativo, anche a prescindere dagli esiti processuali penali” (ex multis, T.A.R. Lazio, Sez. I ter, nn. 10323/2021, 3345/2020, 347/2019, 6824/2018, Sez. II, n. 1833/2015).

Infine, neanche l’integrazione del ricorrente nel tessuto sociale italiano, testimoniata dall’attività lavorativa, assurge a elemento degno di speciale merito, in grado di far venir meno i constatati motivi ostativi alla concessione dello status di cittadino, visto che lo stabile inserimento è solo il prerequisito della richiesta di cittadinanza.

Pertanto, il Collegio ritiene, sulla scorta dei principi sopra enunciati, che le conclusioni a cui è giunta l’Amministrazione, che poggiano su elementi penali pregiudizievoli, siano immuni dai vizi denunciati, per cui il ricorso deve essere respinto, perché infondato.

Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo.

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