TAR Roma, sez. I, sentenza 2017-01-03, n. 201700060
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Pubblicato il 03/01/2017
N. 00060/2017 REG.PROV.COLL.
N. 09921/2011 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9921 del 2011, proposto da:
C Gioielli Srl, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati A D C C.F. DCPNTN55A18A944V, E D C.F. DNTNRC43H08H501V, elettivamente domiciliato in Roma, via Tacito, 10, presso lo studio dell’avv. E D;
contro
L’Autorità garante della concorrenza e del mercato, il Ministero dello sviluppo economico, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t., rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale domiciliano in Roma, via dei Portoghesi, 12;
la Camera di Commercio Industria Artigianato Agricoltura di Prato, non costituita in giudizio;
nei confronti di
Federconsumatori di Pistoia, non costituita in giudizio;
per l'annullamento
previa sospensione dell’esecuzione
del provvedimento PS6975/dpsa/f24*abo dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, assunto nell'adunanza del 25.8.2011 e notificato alla ricorrente in data 13.9.2011;
di ogni atto allo stesso preordinato, presupposto, consequenziale e comunque connesso.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato e del Ministero dello sviluppo economico;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 dicembre 2016 la dott.ssa R C e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con il ricorso in esame la società C Gioielli s.r.l. ha impugnato il provvedimento indicato in epigrafe, con il quale l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (d’ora in avanti anche Autorità o AGCM) ha ritenuto scorretta, ai sensi degli artt. 20 e 22, comma 2, del codice del consumo, una pratica commerciale da essa posta in essere e le ha irrogato la sanzione amministrativa pecuniaria di 50.000 euro.
La pratica commerciale in parola, come si legge nel provvedimento, è consistita nella diffusione, su periodici e quotidiani, dal gennaio 2009 al novembre 2011, di un messaggio relativo alle condizioni di acquisto di oro usato.
Questo il testo del claim che appariva al centro del messaggio “ Acquistiamo il tuo oro usato fino a 40,00€ al gr* valutiamo anche in cambio contanti ”.
L’asterisco, posto in basso rispetto al testo sopra riportato e scritto in caratteri di dimensioni significativamente inferiori, nonché meno evidenti, recava la dizione “ sulla base del metallo puro 24 Kt, in cambio merce su tutti gli articoli ”.
L’Autorità riteneva il messaggio ingannevole in quanto ometteva di specificare le modalità di calcolo del prezzo di acquisto dei prodotti in oro recanti carature inferiore a quella del metallo puro 24kt, nonché di indicare la percentuale di oro puro anche in millesimi, presentando in modo oscuro, incomprensibile o ambiguo informazioni rilevanti circa le effettive condizioni dell’offerta pubblicizzata e potendo pertanto indurre il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale, che altrimenti non avrebbe preso.
Il ricorso è affidato alle seguenti censure:
- violazione e falsa applicazione degli articoli 20 e 22 del codice del consumo sotto un diverso profilo. Violazione del principio di legalità e dell’articolo 1 della legge 24 novembre 1981 e successive modificazioni.
- eccesso di potere per contraddittorietà, difetto di motivazione, travisamento dei presupposti di fatto e di diritto.
- violazione e falsa applicazione degli articoli 20 e 22 del codice del consumo sotto un diverso profilo. Violazione del principio di legalità e dell’articolo 1 della legge 24 novembre 1981 e successive modificazioni.
- eccesso di potere per contraddittorietà, difetto di motivazione, travisamento dei presupposti di fatto e di diritto;
- violazione e falsa applicazione degli articoli 20, 22 e 27, comma 9, nonché dell’articolo 11 della legge n. 689/1981. Eccesso di potere per insufficienza, irrilevanza e apoditticità e pretestuosità della motivazione e sua intima contraddizione.
L’Autorità garante della concorrenza e del mercato, costituita in giudizio, ha chiesto il rigetto del ricorso.
Alla camera di consiglio del 19 dicembre 2011, l’istanza di sospensione cautelare del provvedimento è stata respinta.
All’udienza del 21 dicembre 2016 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
Con il primo ed il secondo motivo di doglianza, affidati ad un’unica argomentazione, la ricorrente contesta che la condotta sanzionata presenti le caratteristiche della pratica commerciale scorretta.
Con riferimento al prezzo di acquisto, infatti, l’utilizzo della dizione “ fino a 40,00 € al gr ” avrebbe reso assolutamente chiaro per il consumatore il fatto che tale corrispettivo era quello massimo che la società si dichiarava disposta a pagare.
Quanto poi alla riferibilità della somma indicata al solo metallo puro 24kt, che corrisponde alla tipologia di oro più costosa sul mercato, la stessa sarebbe stata esplicitata mediante l’asterisco apposto subito dopo l’espressione 40,00 euro al grammo, che rinviava alla specificazione contenuta nel messaggio medesimo.
La pesatura dei singoli oggetti e la corrispondente determinazione del prezzo, peraltro, avvenivano davanti al cliente, che aveva, in tal modo, tutto il tempo di riflettere sulla convenienza o meno della operazione commerciale a lui proposta.
Con il secondo e il terzo motivo di doglianza, pure questi sviluppati con unica argomentazione, la ricorrente rappresenta come neppure sussisterebbe il secondo profilo di ingannevolezza, ravvisato dall’Autorità nel fatto che il messaggio pubblicitario non classificava il tipo di oro in base ai millesimi (e cioè al quantitativo di oro presente nella lega - 750, 585, 375), ma in base alla caratura (Kt).
La classificazione per carati, rileva la ricorrente, sarebbe il parametro qualitativo comunemente conosciuto per i metalli preziosi, tale da essere assolutamente comprensibile per il consumatore medio.
Con il quinto motivo di doglianza la ricorrente contesta l’attività di quantificazione della sanzione, nel determinare la quale l’Autorità non avrebbe in alcun modo indagato o considerato il tipo di vantaggio in ipotesi ricavato dalla ricorrente dalla pratica commerciale ritenuta scorretta.
L’Autorità, inoltre, non avrebbe tenuto conto del fatto che la società, oltre che attività di compravendita di oro sul mercato, svolge anche attività di commercio al dettaglio e all’ingrosso di oreficeria e preziosi, ricavando da tale settore più di un terzo dei suoi profitti complessivi.
Il provvedimento, inoltre, non avrebbe tenuto conto del fatto che il messaggio ha avuto una diffusione territoriale estremamente circoscritta - il solo punto vendita di Pistoia – così che irragionevolmente si sarebbe considerato il fatturato realizzato su tutto il territorio nazionale.
Il provvedimento, infine, avrebbe mal calcolato la durata della infrazione, ritenuta sussistente per l’intero 2010, mentre già dal 15 novembre, a seguito della richiesta di informazioni, la società aveva comunicato di aver modificato il messaggio.
Il ricorso è infondato e va respinto.
È utile un breve richiamo al quadro normativo di riferimento.
Al riguardo, viene in immediato rilievo l’art. 20, comma 2, del codice del consumo di cui al d.lgs. 2 settembre 2005, n. 206, che stabilisce che una pratica commerciale è scorretta se è contraria alla diligenza professionale ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori.
Il comma 4 individua come ingannevoli le ipotesi di cui agli articoli 21, 22 e 23 o aggressive quelle di cui agli articoli 24, 25 e 26.
A sua volta, il successivo art. 22, al comma 2, stabilisce che “... Una pratica commerciale è altresì considerata un'omissione ingannevole quando un professionista occulta o presenta in modo oscuro, incomprensibile, ambiguo o intempestivo le informazioni rilevanti di cui al comma 1, tenendo conto degli aspetti di cui al detto comma, o non indica l'intento commerciale della pratica stessa qualora questi non risultino già evidente dal contesto nonché quando, nell'uno o nell'altro caso, ciò induce o è idoneo a indurre il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso ”.
In punto di fatto è opportuno rilevare come, dalla lettura del provvedimento impugnato e dall’esame della documentazione versata agli atti di causa, emerge indiscutibilmente che:
il messaggio è assolutamente omissivo per quanto riguarda la valutazione dell’oro di caratura inferiore ai 24 Kt;
la fase di aggancio del possibile contraente è consistita nella pubblicizzazione dell’importo di 40,00 euro al grammo, particolarmente enfatizzato da un punto di vista grafico all’interno del claim , che, seppure preceduto dall’indicazione “ fino a ” non forniva - se non mediante il richiamo alla frase in caratteri inferiori e meno evidenti, posta in un punto meno visibile della pagina - informazioni dettagliate e complete in ordine ai casi in cui tale prezzo sarebbe stato effettivamente corrisposto;
tutte le informazioni ulteriori, attinenti ai corrispettivi previsti per le carature inferiori, erano acquisibili solo recandosi presso il singolo punto vendita;
il messaggio non conteneva alcuna indicazione alla caratura in millesimi, prevista fin dal 1999.
Da quanto riportato emerge come correttamente l’Autorità abbia ritenuto l’ingannevolezza della pratica commerciale, atteso che il professionista ha fornito informazioni ai consumatori oggettivamente omissive in ordine ad un’ampia gamma di transazioni astrattamente riconducibili a quelle pubblicizzate (tutte quelle relative ad oggetti in oro con carature inferiori a quella massima), e, in ogni caso, tali, in ragione dell’evidenza grafica data al corrispettivo massimo, nonché del fatto che l’espressione “ fino a ” non era in grado di chiarire, in maniera certa e conoscibile ex ante, le limitazioni cui l’offerta era sottoposta, da indurli a recarsi presso gli esercizi della ricorrente.
In tal modo veniva chiaramente lesa quell’esigenza di salvaguardia della libertà di autodeterminazione, che il legislatore ha inteso tutelare fin dal primo contatto pubblicitario, imponendo al professionista un particolare onere di chiarezza e veridicità nella propria comunicazione di impresa (sulla rilevanza di qualsiasi omissione informativa che renda non chiaramente percepibile il reale contenuto ed i termini dell'offerta o del prodotto, inducendo in tal modo in errore il consumatore e condizionandolo nell'assunzione di comportamenti economici che altrimenti non avrebbe adottato, cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, sez. VI, 17/11/2015, n. 5250).
Il fatto che il claim fosse idoneo a provocare un effetto di “ aggancio del consumatore ” rende dunque irrilevante il fatto che quest’ultimo avesse poi, a seguito della stima del singolo oggetto, un ulteriore spatium deliberandi in ordine alla convenienza o meno dell’affare (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 24/11/2011, n. 6204 che rileva come “ Va qualificata scorretta una pratica commerciale pubblicitaria che miri a condizionare la libertà di scelta del consumatore, indipendentemente dall'effettiva lesione patrimoniale. Per questa ragione, i consumatori, fin dal primo contatto pubblicitario, devono essere e rimanere in grado di poter valutare l'offerta economica nei suoi elementi essenziali al fine di percepirne con chiarezza la portata e poter conseguentemente operare una consapevole scelta economica. D'altra parte, una volta determinato il cd. "aggancio" pubblicitario del consumatore, il solo fatto che questi sia indotto” a contattare il professionista “per ottenere ulteriori informazioni aumenta le possibilità che egli possa poi effettivamente decidere di fruire delle prestazioni del professionista (per cui l'intento promozionale può dirsi raggiunto ).
Va pure considerato che, come più volte rilevato in giurisprudenza, nell’assetto di interessi disciplinato dal decreto legislativo n. 206/2005, le norme a tutela del consumo delineano una fattispecie di “ pericolo ”, “ essendo preordinate a prevenire le possibili distorsioni delle iniziative commerciali nella fase pubblicitaria, prodromica a quella negoziale, sicché non è richiesto all'autorità di dare contezza del maturarsi di un pregiudizio economico per i consumatori, essendo sufficiente la potenziale lesione della loro libera determinazione ” (cfr., ex multis , T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 04 febbraio 2013, n. 1177).
Ne deriva l’infondatezza del primo e del secondo motivo di doglianza.
Quanto poi alla mancata indicazione dei millesimi, in luogo o in aggiunta ai carati, deve rilevarsi come la stessa sia, a sua volta, oggettivamente sussistente e non conforme ad una disciplina di settore da tempo vigente, non essendo di conseguenza rilevante la prospettata comprensibilità, da parte dei consumatori, del metodo utilizzato per individuare la purezza del metallo.
Sul punto va pure considerato come tale dato sia stato utilizzato dall’Autorità per descrivere compiutamente la fattispecie esaminata, integrando lo stesso solo un aspetto - e non il più rilevante nella complessiva economia del giudizio - della generale omissività del messaggio e della sua decettività.
Tanto importa la reiezione del terzo e del quarto motivo di doglianza.
Va, infine, respinto il quinto motivo di doglianza, con il quale la ricorrente ha lamentato l’illegittimità della sanzione, sotto il profilo della violazione delle norme e dei principi in materia di quantificazione della sanzione e per difetto di motivazione.
Deve, per contro, osservarsi come, nella determinazione della sanzione, l’Autorità si è attenuta ai parametri di riferimento individuati dall’art. 11 della legge n. 689/81, in virtù del richiamo previsto all'articolo 27, co. 13, del d.lgs. n. 206/05: nello specifico, quelli della gravità della sanzione, nel considerare la quale si è tenuto conto anche della dimensione economica del professionista che, nel corso del 2010, ha realizzato un fatturato di circa 4,5 milioni di euro, del grado di diffusione della pratica, dell’ampiezza e della capacità di penetrazione del messaggio, che veicolato anche da riviste distribuite gratuitamente, ha raggiunto un numero considerevole di consumatori, seppure in un’area circoscritta della Toscana.
Quanto alla gravità della pratica, in particolare, deve osservarsi come, versandosi in fattispecie sanzionatoria di pericolo, non rilevano né il dato quantitativo dei contratti stipulati in conseguenza del messaggio pubblicitario ingannevole, né la diretta riferibilità dello stesso solo ad una parte delle attività commerciali della ricorrente (con specifico riferimento all’irrilevanza del numero di contestazioni cfr. pure Tar Lazio Roma, sez. I, 9 settembre 2015, n. 11122, che richiama pure la recente pronuncia della Corte giustizia UE (sez. I, 16/04/2015, n. 388) secondo cui “ l’informazione non veritiera, fornita da un operatore a un singolo consumatore, è una pratica commerciale ingannevole anche quando non è reiterata e riguarda un singolo consumatore. Non è necessario, per garantire l'applicazione della direttiva n. 2005/29 sulle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori, verificare la contrarietà alle regole di diligenza professionale, la presenza dell'intenzionalità o di un danno elevato .”).
Del pari corretto appare, trattandosi di sanzione per pubblicità ingannevole, il riferimento al fatturato e non all’utile, atteso che in materia di pratiche commerciali scorrette le sanzioni devono essere adeguate ed efficaci e dunque assolvere ad una concreta funzione dissuasiva (cfr., ex multis , Tar Lazio, Roma, I, 11 marzo 2016, n. 3101, che richiama pure l’orientamento della Corte di Giustizia UE, 16 aprile 2015, C-388/13).
Nel caso di specie, peraltro, la sanzione si è posta nel limite di un decimo del massimo edittale ed è proporzionata alla gravità e alla durata dell’infrazione e alle condizioni economiche dell’impresa.
L’Autorità, infine, ha pure correttamente apprezzato la durata, atteso che ha considerato che la pratica commerciale scorretta fosse cessata nel novembre 2011, data indicata dalla stessa ricorrente come termine finale dell’infrazione.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.