TAR Roma, sez. 1T, sentenza 2013-12-04, n. 201310459

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Roma, sez. 1T, sentenza 2013-12-04, n. 201310459
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Roma
Numero : 201310459
Data del deposito : 4 dicembre 2013
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 16332/1999 REG.RIC.

N. 10459/2013 REG.PROV.COLL.

N. 16332/1999 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Prima Ter)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 16332 del 1999, proposto da:
N S, rappresentato e difeso dagli avv.ti G R e F P, con domicilio eletto presso lo studio del secondo in Roma, via G. Bazzoni, n.3;

contro

Ministero dell’interno - Dipartimento della pubblica sicurezza, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso la cui sede domicilia in Roma, via dei Portoghesi, n.12;

per l'annullamento

del decreto del Capo della Polizia 17 agosto 1999, che ha disposto a carico del ricorrente la sospensione cautelare dal servizio, con conseguente privazione della retribuzione e corresponsione dell’assegno alimentare.

Visto il ricorso;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell’interno;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del 25 novembre 2013 il cons. A B e uditi per le parti i difensori come da relativo verbale;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con il gravame all’odierno esame il ricorrente, dipendente del Ministero dell’interno con la qualifica di Ispettore superiore della Polizia di Stato, ha interposto azione impugnatoria avverso il provvedimento di cui in epigrafe, che ha disposto a suo carico la sospensione cautelare dal servizio, con conseguente privazione della retribuzione e corresponsione in suo luogo dell’assegno alimentare.

Ha lamentato il ricorrente che nell’ambito della sua carriera, sempre caratterizzata dallo svolgimento irreprensibile delle mansioni svolte e da diligenza e professionalità, la sospensione in parola si profila come sicuramente illegittima, perché disposta a seguito di indagini penali (per accertare il presunto compimento dei reati di cui agli artt. 110, 416 bis , 319 e 321 c.p.) conseguenti a dichiarazioni di collaboratori di giustizia che si affermano essere contraddittorie e completamente prive di riscontri oggettivi, come il ricorrente ritiene dimostrato dalle due richieste di proroga del termine di scadenza delle indagini preliminari avanzate dal Pubblico Ministero ai sensi dell’art. 406 c.p.p. e dalla mancata formulazione della richiesta di rinvio a giudizio.

Queste in dettaglio le censure dedotte a sostegno dell’azione.

1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 9 del D.P.R. 737/1981 – Eccesso di potere per difetto di presupposto, arbitrio e ingiustizia manifesta.

Il provvedimento sarebbe stato assunto in carenza del presupposto legale (“pendenza di un procedimento penale”), atteso che il ricorrente riveste la mera qualità di indagato, non è stato oggetto di richiesta di rinvio a giudizio e non risulta indi sottoposto ad alcun procedimento penale.

Né rileverebbe la circostanza, menzionata nel provvedimento, che la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo ha richiesto l’archiviazione del procedimento a carico di uno dei predetti collaboratori di giustizia, pendente a seguito della denunzia presentata dal ricorrente: avverso l’archiviazione il ricorrente ha infatti presentato opposizione ex art. 410 c.p..

2) Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della l. 241/1990 – Eccesso di potere per difetto di motivazione, difetto di istruttoria e mancata ponderazione comparativa degli interessi coinvolti.

Il provvedimento sarebbe affetto da grave difetto istruttorio, arbitrio e difetto di motivazione, atteso che ricorrente avrebbe offerto al P.M. prove inconfutabili circa l’astio vendicativo, derivante da vicende puntualmente illustrate, che avrebbe animato i predetti collaboratori di giustizia nel rendere le dichiarazioni inattendibili e tendenziose inerenti presunti contatti tra affiliati ad associazione mafiosa e il ricorrente, il quale, tra l’altro, non avrebbe mai trattato pratiche relative a misure di prevenzione o attività investigative dalle quali avrebbe potuto trarre rapporti di conoscenza o contatti con persone sospette o indiziate per il reato di cui agli artt. 416 e 416 bis c.p.p..

Il provvedimento sarebbe stato adottato in difetto di qualsiasi apprezzamento della obiettiva gravità dei fatti addebitati al dipendente e in carenza dell’equilibrata valutazione del pregiudizio concreto arrecabile all’amministrazione dalla sua permanenza in servizio.

Il provvedimento sarebbe sfornito di qualsiasi motivazione, tale non potendo essere considerato il generico richiamo alla gravità dei reati, alla delicatezza della vicenda e al decoro dell’amministrazione, circostanze che, non accertate ed esplicitate in concreto, manifesterebbero l’inaccettabile automatismo cautelare che avrebbe caratterizzato l’azione amministrativa nella fattispecie, in contrasto con il principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27 Cost..

Le nuove norme poste a garanzia della segretezza delle indagini del P.M. (artt. 329 e 335 c.p.p.) avrebbero impedito l’acquisizione di una precisa cognizione dei fatti addebitati al dipendente nello stadio pre-processuale e indi il fondato apprezzamento della sua condotta, mentre gli elementi di giudizio ben noti, ovvero il lodevole servizio prestato dal ricorrente per oltre 38 anni, di cui non vi sarebbe alcuna menzione nel provvedimento, avrebbero dovuto indurre l’amministrazione a una opposta determinazione.

3) Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 degli artt. 7 e 8 della l. 241/1990 – Eccesso di potere per difetto di istruttoria, di motivazione e per mancata ponderazione comparativa degli interessi coinvolti.

Il provvedimento, adducendo apodittici e inesistenti motivi di urgenza, e disattendendo le garanzie di partecipazione apprestata dall’ordinamento, sarebbe stato adottato in assoluta carenza di contraddittorio, con ciò determinando la mancata acquisizione al procedimento di indispensabili elementi che l’interessato avrebbe potuto rappresentare.

Esaurita l’illustrazione delle illegittimità rilevate a carico dell’atto gravati, parte ricorrente ne ha domandato l’annullamento.

Si è costituito in resistenza il Ministero dell’interno.

Con ordinanza n. 3819 del 1999, confermata in sede di appello (C. Stato, ordinanza n. 4616 del 2000) la Sezione ha accolto la domanda di sospensione interinale dell’esecuzione dell’atto impugnato, dalla parte ricorrente presentata in via incidentale.

Con ordinanza n. 8954 del 200 la Sezione si è favorevolmente pronunziata sulla domanda di esecuzione della concessa misura cautelare interposta dal ricorrente.

Per l’effetto, l’amministrazione, con atto depositato il 16 novembre 2000, ha comunicato essere in corso la riammissione in servizio del ricorrente.

Con decreto presidenziale 7 febbraio 2012, n. 1321, il ricorso è stato dichiarato perento.

Con decreto presidenziale 9 maggio 2013, n. 10248, il decreto di perenzione è stato revocato ed è stata disposta la reiscrizione del ricorso sul ruolo del merito.

La controversia è stata indi trattenuta in decisione alla pubblica udienza del 25 novembre 2013.

2. Il ricorso deve essere accolto.

3. Viene in rilievo il D.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737. che prevede le sanzioni disciplinari per il personale dell'amministrazione di pubblica sicurezza e la regolamentazione dei relativi procedimenti, e segnatamente l’art. 9 del predetto regolamento, titolato “Sospensione cautelare in pendenza di procedimento penale”, commi 1 e 2, come sostituiti dall'art. 7 della l. 10 ottobre 1986, n. 668.

La prima disposizione stabilisce che l'appartenente ai ruoli dell'amministrazione della pubblica sicurezza, colto da ordine o mandato di cattura o che si trovi, comunque, in stato di carcerazione preventiva, deve essere sospeso dal servizio (art. 9, comma 1, D.P.R. 737/1981).

La seconda disposizione stabilisce che, fuori dai casi previsti nel comma precedente, il dipendente sottoposto a procedimento penale, laddove la natura del reato sia particolarmente grave, può essere sospeso dal servizio con provvedimento del Ministro reso su rapporto motivato del capo dell'ufficio dal quale il medesimo dipende (art. 9, comma 2, D.P.R. 737/1981).

Nel caso di specie, come emerge dal preambolo del decreto gravato, l’amministrazione ha fatto applicazione dell’art. 9, comma 2 del D.P.R. 737/1981.

Ed è fondata la censura relativa alla violazione della disposizione in parola, in quanto il ricorrente non poteva essere considerato “sottoposto a procedimento penale”, essendo meramente assoggettato ad indagini preliminari.

E’ invero noto che è l’assunzione della qualità di imputato, a seguito dell'esercizio dell'azione penale ex art. 60 c.p.p., a segnare l'inizio del rapporto processuale penale, momento che integra il concetto di procedimento penale pendente ai fini del legittimo esercizio della sospensione cautelare ( ex plurimis , C. Stato, 8 novembre 2005, n. 620;
IV, 24 febbraio 2003, n. 1997;
13 ottobre 1999, n. 1573;
VI, 8 marzo 1996, n. 386;
VI, 16 gennaio 1996, n. 98).

E se è vero che la giurisprudenza amministrativa, evidenziando che con l'acquisizione della notizia di reato cominciano le indagini preliminari, che costituiscono già la prima fase del "procedimento penale", ha anche affermato che la sospensione cautelare dal servizio del dipendente pubblico in pendenza di procedimento penale a suo carico può essere legittimamente disposta non soltanto quando l'interessato sia stato rinviato a giudizio ai sensi dell'art. 60 c.p.p., ma anche quando il procedimento si trovi nella fase delle indagini preliminari, è altresì vero che tale affermazione è stata resa in una fattispecie in cui era stata adottata in sede di indagini preliminari una misura cautelare personale (C. Stato, VI, 2003, n. 398), condizione che non sussiste nella fattispecie.

4. Per tutto quanto precede, in accoglimento del gravame, va disposto l’annullamento dell’atto gravato.

Il Collegio ravvisa nondimeno giusti motivi per disporre la compensazione tra le parti delle spese di lite.

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