TAR Roma, sez. 1Q, sentenza 2019-11-05, n. 201912658

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Roma, sez. 1Q, sentenza 2019-11-05, n. 201912658
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Roma
Numero : 201912658
Data del deposito : 5 novembre 2019
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 05/11/2019

N. 12658/2019 REG.PROV.COLL.

N. 02852/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Prima Quater)

ha pronunciato la presente

SENTENZA NON DEFINITIVA

sul ricorso numero di registro generale 2852 del 2011, integrato da motivi aggiunti, proposto da
T M, L T, M O T, nonché da V P e J P, questi ultimi n.q. di eredi di E S, deceduta in corso di giudizio, rappresentati e difesi dall'avvocato D S, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. S V in Roma, via Giovanni Bettolo,9;

contro

Comune di Catania, in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato D M, domiciliato presso la Segreteria del TAR Lazio in Roma, via Flaminia, 189;
Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per l'accertamento del diritto alla retrocessione di aree e per il risarcimento danni;
ricorso in riassunzione (rg n. 949/2010 Tar Sicilia - Catania);


Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Comune di Catania e di Presidenza del Consiglio dei Ministri;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 ottobre 2019 il dott. Antonio Andolfi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Visto l'art. 36, co. 2, cod. proc. amm.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

I ricorrenti hanno inizialmente proposto al Tar della Sicilia, sezione staccata di Catania, il ricorso numero di registro generale 949 del 2010, notificato al comune di Catania e alla Presidenza del Consiglio dei Ministri il 20 aprile 2010, per l’accertamento del diritto alla restituzione di immobili siti in Catania, nonché al risarcimento dei danni dipendenti dall’occupazione d’urgenza degli immobili per la realizzazione di una opera pubblica.

Il ricorso riguardava un compendio immobiliare interessato da un procedimento di espropriazione per pubblica utilità, al fine della realizzazione di un viadotto stradale, curato dal sindaco di Catania nella qualità di Commissario delegato per l’attuazione degli interventi per fronteggiare l’emergenza traffico e mobilità e per la riduzione del rischio sismico, in forza di ordinanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri numero 3259 del 20 dicembre 2002.

Esponevano i ricorrenti che, per le aree di loro proprietà, occupate temporaneamente d’urgenza con decreto dell’8 marzo 2004, non era mai stato emesso il provvedimento di espropriazione definitiva, pur essendo stato realizzato il viadotto stradale.

Il Tribunale amministrativo regionale adito, con ordinanza numero 607 del 15 marzo 2011, aveva rilevato la propria incompetenza, ritenendo la controversia rientrante nella competenza funzionale inderogabile del Tar del Lazio.

I ricorrenti hanno quindi riassunto il giudizio con atto notificato al Comune di Catania e alla Presidenza del Consiglio dei Ministri in data 4 aprile 2011.

Nell’atto di riassunzione hanno confermato le domande già proposte con il ricorso originario: la restituzione di due appartamenti di loro proprietà, destinati ad abitazione;
il risarcimento dei danni per la mancata utilizzazione degli appartamenti nel periodo di occupazione, per il degrado degli stessi e per la perdita permanente di valore commerciale, dovuta all’esistenza contigua dell’opera pubblica realizzata;
il risarcimento dei danni per la perdita definitiva di altro immobile destinato a deposito, sulla cui area di sedime sorge ora l’opera stradale realizzata;
il risarcimento del danno per equivalente, con rinuncia alla proprietà, per altro appartamento, parzialmente demolito, ma non ricostruibile, essendo l’area di sedime occupata dalle fondazioni del vicino pilastro;
per questi ultimi immobili, oltre il risarcimento del valore di mercato dei beni, i ricorrenti chiedono il risarcimento del danno per la mancata utilizzazione degli stessi nel corso del periodo di occupazione d’urgenza.

Si è costituito in giudizio il Comune di Catania eccependo, preliminarmente, il difetto di legittimazione passiva, trattandosi di atti adottati dal Commissario delegato per l’emergenza nel settore del traffico.

Anche la Presidenza del Consiglio dei Ministri si è costituita eccependo, a sua volta, il difetto di legittimazione passiva, invocando la responsabilità del sindaco di Catania nella qualità di delegato.

I ricorrenti notificano alle controparti, in data 13 febbraio 2015, un ricorso per motivi aggiunti, richiamando il nuovo orientamento giurisprudenziale delle corti superiori e chiedendo la restituzione di tutti gli immobili, anche quelli irreversibilmente destinati all’opera pubblica, a meno che non sia adottato un provvedimento di acquisizione sanante ex articolo 42 bis del d.p.r. 327 del 2001;
confermano, in ogni caso, la domanda risarcitoria per i danni da mancato godimento degli immobili.

Il Comune di Catania eccepisce l’inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti e conferma l’eccezione sul difetto di legittimazione passiva dell’Amministrazione comunale, chiedendo comunque il rigetto, per infondatezza, di tutte le domande proposte.

Il ricorso, integrato con i motivi aggiunti, è trattato all’udienza pubblica del 6 marzo 2018, quando viene cancellato dal ruolo, su richiesta della parte ricorrente.

Stessa parte che deposita il 28 febbraio 2019 una nuova istanza di fissazione di udienza.

La causa viene quindi trattata all’udienza pubblica del 15 ottobre 2019, per essere decisa.

DIRITTO

La controversia è relativa ad un procedimento espropriativo iniziato dal sindaco di Catania, nella qualità di Commissario delegato per l’attuazione degli interventi per fronteggiare l’emergenza nella città di Catania in relazione alla situazione del traffico e della mobilità, nonché per la riduzione del rischio sismico.

In via del tutto preliminare, quindi, deve essere disposta la conversione del rito, trattandosi di controversia in materia di espropriazione alla quale si applica il rito abbreviato disciplinato dall’articolo 119 del codice processuale amministrativo.

Gli immobili dei ricorrenti, interessati dal procedimento espropriativo, furono occupati temporaneamente e d’urgenza con decreto del Direttore dell’Ufficio speciale per l’emergenza traffico dell’8 marzo 2004, fino al 22 ottobre 2008.

L’avvio del procedimento espropriativo fu comunicato il 4 ottobre 2004.

L’opera pubblica venne realizzata, ma i termini del procedimento vennero a scadenza senza l’adozione di alcun provvedimento definitivo di esproprio.

In particolare, il periodo di occupazione temporanea e d’urgenza venne a scadere il 22 ottobre 2008, mentre il termine per la conclusione del procedimento di espropriazione giunse a scadenza il 20 dicembre 2009.

Lamentando la perdurante occupazione abusiva degli immobili, i ricorrenti chiedono, con il ricorso introduttivo, la restituzione parziale e il risarcimento per equivalente dei beni definitivamente perduti nonché il risarcimento per i danni cagionati agli appartamenti da restituire.

Le Amministrazioni resistenti non contestano specificamente le allegazioni di parte ricorrente, ma eccepiscono, reciprocamente, il difetto di legittimazione passiva.

La difesa comunale sostiene la non riconducibilità dell’attività espropriativa al Comune di Catania, trattandosi di atti adottati dal sindaco nella qualità di Commissario delegato per l’emergenza traffico, quindi imputabili alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Quest’ultima Amministrazione, a sua volta, richiamando l’articolo 5 comma 4 della legge numero 225 del 1992, per cui il Presidente del Consiglio dei ministri può delegare un soggetto apposito per porre in essere ogni azione utile al superamento delle situazioni di emergenza, eccepisce il proprio difetto di legittimazione passiva, sostenendo che, nell’ambito di un rapporto giuridico di delegazione amministrativa, la responsabilità, nonché gli effetti giuridici dell’atto di esercizio della delega, ricadrebbero esclusivamente sul delegato.

A giudizio del Collegio deve essere esclusa la legittimazione processuale passiva dell’Amministrazione statale, essendo cessato, sin dal 30 giugno 2005, lo stato di emergenza che aveva determinato l’adozione dell’ordinanza n. 3259 del 20 dicembre 2002.

La fattispecie è disciplinata oggi dal D. Lgs. 02/01/2018, n. 1, Codice della protezione civile, che, all’art. 24, comma 6, confermando la norma già recata dall’articolo 1, comma 422, della legge numero 147 del 2013, abrogato dall'art. 48, comma 1, lett. n), del richiamato D. Lgs. 2 gennaio 2018, n. 1, così dispone: “alla scadenza dello stato di emergenza, le amministrazioni e gli enti ordinariamente competenti, individuati anche ai sensi dell'articolo 26, subentrano in tutti i rapporti attivi e passivi, nei procedimenti giurisdizionali pendenti, anche ai sensi dell'articolo 110 del codice di procedura civile, nonché in tutti quelli derivanti dalle dichiarazioni già emanate nella vigenza dell'articolo 5-bis, comma 5, del decreto-legge 7 settembre 2001, n. 343 convertito, con modificazioni, dalla legge 9 novembre 2001, n. 401, già facenti capo ai soggetti nominati ai sensi dell'articolo 25, comma 7. Le disposizioni di cui al presente comma trovano applicazione nelle sole ipotesi in cui i soggetti nominati ai sensi dell'articolo 25, comma 7, siano rappresentanti delle amministrazioni e degli enti ordinariamente competenti ovvero soggetti dagli stessi designati”.

Si deve ritenere, dunque, che al momento della cessazione dello stato di emergenza il Comune di Catania sia subentrato a tutti gli effetti all’Amministrazione statale nella vicenda controversa (in questo senso si è già orientata in casi simili la giurisprudenza di questa Sezione, cfr. sentenza n. 11595 del 2019).

Di conseguenza, l’eccezione sul difetto di legittimazione passiva dell’Amministrazione statale deve essere accolta e, per l’effetto, la suddetta Amministrazione deve essere estromessa dal giudizio.

Conseguentemente risulta infondata l’eccezione della difesa comunale sul proprio difetto di legittimazione passiva.

Si deve considerare, oltre il dato normativo già richiamato, che l’occupazione abusiva di immobili da parte della pubblica amministrazione, alla scadenza del periodo di occupazione legittima, costituisce un illecito permanente.

Il 30 giugno 2005 è scaduta l’emergenza disposta con l’ordinanza numero 3259 del 2002 e il Comune di Catania è subentrato al Commissario delegato in tutta l’attività amministrativa da quest’ultimo avviata.

Ne deriva che il procedimento amministrativo di cui si tratta, seppure in parte riconducibile all’Amministrazione statale, essendo stato avviato dal Commissario delegato, è stato proseguito dal Comune che ha omesso di concluderlo con un provvedimento espropriativo espresso.

Anche sotto tale profilo, dunque, la responsabilità per la omessa conclusione del procedimento deve necessariamente ricadere sul Comune di Catania che dal 30 giugno 2005 è subentrato nella gestione del procedimento e che avrebbe potuto e dovuto concluderlo entro il 20 dicembre 2009.

Si deve considerare, infine, che, nel caso di persistente occupazione “sine titulo”, la competenza ad emettere l'eventuale provvedimento di acquisizione sanante ex art. 42 bis d.P.R. n. 327 del 2001 spetta in via esclusiva all'autorità che, al momento attuale, utilizza il bene (Consiglio di Stato, sez. IV, 29/01/2015, n.437).

Di conseguenza, l’Amministrazione che abbia trascurato di esercitare anche il potere straordinario di espropriazione semplificata conferito dalla norma richiamata non può essere tenuta indenne dalle conseguenze risarcitorie di una occupazione abusiva.

Ne deriva, anche sotto tale profilo, la infondatezza dell’eccezione sul difetto di legittimazione passiva dell’Amministrazione comunale, trattandosi, appunto, dell’amministrazione pubblica competente a disporre l’eventuale acquisizione sanante degli immobili oggetto del contenzioso.

Prima di entrare nel merito della questione, ancora in via preliminare, deve essere valutata l’ammissibilità dei motivi aggiunti con cui i ricorrenti hanno parzialmente modificato le domande proposte con il ricorso introduttivo.

Si deve premettere che il compendio immobiliare per cui è causa è composto di 4 beni: un appartamento distinto al catasto alla particella 765, subalterno 1;
un secondo appartamento, iscritto al catasto al foglio 765, subalterno 2;
un terzo appartamento, accatastato alla particella 765, subalterno 3;
infine, un deposito, segnato al catasto alla particella 2196.

Risulta dagli atti processuali che la costruzione dell’opera ha comportato la totale demolizione del deposito e la parziale demolizione del primo appartamento, quello con subalterno 1, attualmente non ricostruibile, essendo l’area di sedime occupata dalle fondamenta di un pilastro dell’opera stradale.

Con riferimento a questi primi due immobili, i ricorrenti hanno, con il ricorso introduttivo, espressamente rinunciato alla restituzione, chiedendone il risarcimento per equivalente, corrispondente al valore di mercato dei beni.

I ricorrenti hanno stimato il valore di circa EUR 78.000 per il deposito e di circa EUR 73.000 per l’appartamento, cui aggiungere il danno per la mancata utilizzazione dei beni durante il periodo di occupazione.

Quanto agli altri due appartamenti, invece, i ricorrenti ne hanno chiesto la restituzione, accompagnando la domanda restitutoria con una domanda risarcitoria, articolata in 3 voci di danno, corrispondenti alla mancata utilizzazione degli appartamenti nel periodo di occupazione, al degrado degli stessi, corrispondente al costo di ripristino, infine alla perdita permanente di valore commerciale per la presenza del viadotto stradale costruito nelle immediate vicinanze.

Come si accennava, le domande sono state parzialmente modificate con il ricorso per motivi aggiunti.

La modifica ha interessato gli immobili corrispondenti al deposito e al primo appartamento, per i quali viene ora chiesta la restituzione, in alternativa all’eventuale adozione da parte della pubblica amministrazione di un provvedimento acquisitivo ex articolo 42 bis del testo unico sull’espropriazione.

Sebbene i ricorrenti presentino la nuova domanda come precisazione della precedente, si tratta in realtà di un vero e proprio mutamento della domanda giudiziale, essendo sostituita una pretesa restitutoria a quella risarcitoria.

La difesa dei ricorrenti giustifica il mutamento della domanda con il cambiamento della giurisprudenza nelle more del giudizio, facendo riferimento in particolare alle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Nel ricorso introduttivo la domanda risarcitoria sarebbe stata formulata, infatti, sulla base della giurisprudenza allora vigente, che avrebbe riconosciuto conseguenze irreversibili alla trasformazione dei beni detenuti dalla pubblica amministrazione, anche in mancanza di un valido provvedimento di esproprio, impedendone la restituzione ai legittimi proprietari.

A giudizio del Collegio, il mutamento della domanda giudiziale è inammissibile.

Per alcuni dei beni immobili si deve ritenere intervenuta la rinuncia abdicativa.

Per il prevalente orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio giudicante, la proposizione della domanda di risarcimento del danno da perdita sostanziale della proprietà a seguito di trasformazione dei suoli - in quanto manifestazione del potere di autodeterminazione del titolare che ha preferito non chiedere la restituzione del fondo - produce l’abbandono liberatorio del fondo medesimo (Cass. civ., sez. un., n. 735 del 2015;
successivamente: sez. I, n. 12961 del 2018;
sez. I, n. 5686 del 2017;
Cons. Stato, ad. plen., n. 2 del 2016;
C.g.a., n. 255 del 2019;
Cons. Stato sez. IV, n. 1332 del 2019;
sez. IV, n. 3105 del 2018;
sez. IV, n. 2778 del 2018;
sez. IV, n. 5262 del 2017;
sez. IV, n. 4636 del 2016);
viceversa, anche qualora il fondo sia stato irreversibilmente trasformato, la domanda di risarcimento del danno la cui causa petendi sia fondata sulla perdita del godimento del bene – ma che al contempo non sia accompagnata da una esplicita richiesta di applicazione dell’istituto della rinuncia abdicativa - impone al giudice di liquidare solo tale voce di danno e, eventualmente, di disporre la rimessione in pristino in favore di colui che era e continua a rimanere legittimo proprietario (Cons. Stato, sez. IV, n. 5703 del 2019).

Nel ricorso introduttivo, i ricorrenti hanno espressamente dichiarato che la richiesta di risarcimento del danno per equivalente avrebbe determinato la rinuncia alle proprietà ed hanno formulato tale richiesta limitatamente all’immobile destinato a deposito, integralmente demolito, nonché all’appartamento, parzialmente demolito, ma non ricostruibile, contraddistinto dal subalterno catastale 1.

La rinunzia viene ricostruita dalla dottrina civilistica come negozio giuridico unilaterale mediante il quale l’autore dismette una situazione giuridica di cui è titolare. Il suo effetto essenziale è unicamente l’abdicazione da parte del soggetto alla situazione giuridica.

La rinunzia abdicativa è un negozio unilaterale non recettizio, che non richiede la conoscenza né tanto meno l’accettazione da parte di altri soggetti.

Possibile oggetto di rinuncia è senz’altro il diritto di proprietà, al pari di altri diritti reali.

A sostegno di tale conclusione possono addursi molteplici argomenti: il carattere disponibile del diritto in esame;
la previsione, da parte del legislatore, di specifiche ipotesi, sia pure peculiari, di rinunzia al diritto di proprietà (artt. 882-1104 c.c.);
la circostanza che per escludere la rinunziabilità, in relazione alle parti comuni dell’edificio, il legislatore è dovuto intervenire espressamente (art. 1118 c.c.);
la disparità di trattamento che si creerebbe altrimenti rispetto ai beni mobili, dei quali è indiscutibile la possibilità di abbandono;
l’espresso riferimento contenuto negli artt. 1350 e 2643 c.c.

L’effetto della rinunzia è l’acquisto dell’immobile in capo allo Stato ai sensi dell’art. 827 c.c. Si tratta di un acquisto a titolo originario, che costituisce effetto solo indiretto e mediato della rinunzia e che trova fondamento nella legge. La rinunzia alla proprietà ha natura di negozio unilaterale non recettizio, per il quale è da escludersi un potere di rifiuto da parte dello Stato.

Così ricostruito l’istituto della rinuncia abdicativa, deve escludersi la revocabilità di essa, essendosi prodotto in capo al rinunciante l’effetto irreversibile della perdita del diritto reale.

Irrilevante, quindi, è l’asserito mutamento della giurisprudenza, oltre tutto inesistente, in quanto già all’epoca della proposizione del ricorso introduttivo la possibilità di occupazione appropriativa, mediante la cosiddetta accessione invertita, era positivamente esclusa dal diritto nazionale, oltre ad essere ritenuta incompatibile con la Convenzione europea sui diritti dell’uomo dalla costante giurisprudenza amministrativa e civile successiva agli arresti della Corte Europea dei diritti dell’uomo (ex multis, 30 maggio 2000, Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia;
12 gennaio 2006, Sciarrotta c. Italia).

Pertanto, il mutamento parziale delle domande, introdotto con i motivi aggiunti, deve essere dichiarato inammissibile.

Nel merito, è pacifico che la pubblica amministrazione detenga abusivamente gli immobili di proprietà dei ricorrenti, essendo scaduto il periodo di illegittima occupazione temporanea degli stessi ed essendo altresì scaduto il termine del procedimento espropriativo senza l’adozione di alcun provvedimento espresso di espropriazione.

Trattandosi di illecito permanente, rientrante nell’alveo della responsabilità extra-contrattuale, la pubblica amministrazione non può acquistare per vie di fatto alcun diritto sui beni oggetto di occupazione abusiva.

La cessazione dell’occupazione abusiva può avvenire in uno dei modi seguenti: mediante la restituzione dei fondi ai legittimi proprietari;
stipulando un accordo transattivo con effetti traslativi del diritto di proprietà;
per effetto della cosiddetta rinuncia abdicativa da parte dei legittimi proprietari;
per usucapione, nei ristretti limiti di applicabilità dell’istituto alla fattispecie;
infine, ricorrendone i presupposti, con l’adozione del provvedimento previsto dall’articolo 42 bis del testo unico sull’espropriazione.

Sulla base di quanto precedentemente esposto, deve essere accolta la domanda risarcitoria per entrambi gli immobili oggetto della rinuncia, riconoscendo agli interessati il valore venale dei beni, da accertare nella prosecuzione del giudizio.

A tal fine si dovrà disporre una verificazione, nei termini che saranno in seguito precisati.

Anche la domanda per il risarcimento del danno da mancato godimento di tali beni prima della rinuncia alla proprietà degli stessi deve essere accolta, con le precisazioni seguenti.

Specificamente, in tema di danno da occupazione illegittima di un immobile, la giurisprudenza della Corte di legittimità ricorre alla categoria del danno “in re ipsa”. Ricollega il danno alla perdita di disponibilità del bene, la cui natura è naturalmente fruttifera e alla impossibilità di conseguire l’utilità da esso ricavabile nell’esercizio delle facoltà di godimento e disponibilità, insite nel diritto dominicale. L’esistenza del danno costituisce, così, oggetto di una presunzione “iuris tantum”, superabile solo ove si accerti, ma non è questo il caso, che il proprietario si sia intenzionalmente disinteressato dell’immobile (da ultimo, Cass. n. 16670 del 2016, n. 20823 del 2015, n. 14222 del 2012). Alle medesime conclusioni perviene la giurisprudenza amministrativa (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. IV, n. 4636 del 2016).

Al valore venale del bene, quindi, deve essere aggiunto il risarcimento per la mancata utilizzazione degli immobili in tutto il periodo di occupazione illegittima ovvero a decorrere dalla scadenza del provvedimento che aveva disposto l’occupazione temporanea e d’urgenza dei beni immobili.

Essendo scaduta l’efficacia del suddetto provvedimento in data 22 ottobre del 2008, ai proprietari spetta il risarcimento per non aver potuto godere degli immobili dalla suddetta data, fino a quando gli stessi sono passati nella proprietà pubblica, per effetto della rinuncia abdicativa proposta con il ricorso introduttivo del giudizio.

Il danno deve essere liquidato, seguendo i consueti criteri giurisprudenziali, nella misura del 5% annuo del valore venale dei fondi illegittimamente occupati, per il periodo compreso dal 22 ottobre 2008 al 20 aprile 2010, data di notificazione del ricorso originario contenente la rinuncia abdicativa (per il criterio di liquidazione del danno cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. V, 23/08/2019, n. 4407 per cui dalla illegittimità dell'occupazione consegue l'obbligazione risarcitoria per i danni cagionati dalla perdita della disponibilità dell'immobile, sia pur limitatamente a detto periodo;
tale danno può quantificarsi, con valutazione equitativa ex artt. 2056 e 1226 c.c., nell'interesse del cinque per cento annuo sul valore venale del bene, in linea con il parametro fatto proprio dal legislatore con il cit. art. 42-bis comma 3, D.P.R. n. 327 del 2001, suscettibile di applicazione analogica in quanto espressione di un principio generale;
per altro precedente conforme cfr. anche T.A.R. Sardegna Sez. II, 15/07/2019, n. 644, per cui, per quanto attiene alla quantificazione del danno da mancato godimento, corrispondente al danno sofferto dai proprietari per l'illecita prolungata occupazione dei terreni di loro proprietà, può ragionevolmente attuarsi una valutazione equitativa ex artt. 2056 e 1226 c.c., e dunque applicarsi un interesse del cinque per cento annuo sul valore venale del bene).

Per quanto riguarda invece gli altri due beni immobili, entrambi destinati ad abitazione, contraddistinti dai subalterni 2 e 3, deve essere accolta la domanda restitutoria proposta dai ricorrenti.

La giurisprudenza, condivisibilmente, ritiene che l'accertamento giurisdizionale della illegittimità o della mancata conclusione del procedimento espropriativo, per la circostanza che esso non si sia concluso con l'adozione del decreto di esproprio né con l'accordo di cessione, determina il verificarsi dei presupposti posti dal legislatore per la piena tutela del diritto di proprietà, mediante un provvedimento restitutorio da parte del giudice amministrativo, che può, eventualmente, essere impedito (oltre che da un accordo tra le parti) dalla adozione del provvedimento di acquisizione emesso ai sensi dell'art. 42 bis del D.P.R. n. 327/2001 (cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. V, 17/07/2019, n. 3958).

L’obbligo di restituire i beni detenuti “sine titulo” deriva dalla considerazione che la realizzazione di un'opera pubblica su un fondo oggetto di legittima occupazione in via di urgenza, non seguita dal perfezionamento della procedura espropriativa, costituisce un mero fatto, anche quando sia avvenuta la irreversibile trasformazione del terreno per la costruzione di un'opera pubblica ed anche quando vi sia stata una dichiarazione di pubblica utilità, sicché il privato ha diritto a chiederne la restituzione, salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno per equivalente ( Cons. Stato, Sez. II, 17/05/2019, n. 3195).

Inoltre, per la mancata utilizzazione dei beni in tutto il periodo compreso tra la scadenza del provvedimento che disponeva la occupazione legittima e la effettiva restituzione degli stessi, ai legittimi proprietari la pubblica amministrazione è tenuta a corrispondere il risarcimento del danno.

A tale proposito i ricorrenti hanno articolato 3 voci di danno, rispettivamente riferite alla mancata utilizzazione degli appartamenti nel periodo di occupazione, con valore stimato in misura corrispondente al canone di locazione non percepito, asseritamente corrispondente a EUR 400 mensili;
al degrado degli immobili che si sarebbero trovati in buone condizioni all’atto dell’occupazione e sarebbero attualmente inabitabili, commisurando il risarcimento al costo di ripristino delle abitazioni che sarebbe stimabile in circa EUR 70.000 per ciascuna unità abitativa;
infine alla diminuzione di valore di mercato determinata dalla realizzazione dell’opera pubblica, incombendo la sagoma imponente del viadotto, alto una decina di metri e sostenuto da pilastri, sugli appartamenti che avrebbero perso luce e aria, con perdita di valore valutata nel 50% del precedente valore di mercato.

Ribaditi i principi precedentemente espressi sull’esistenza del danno, si deve precisare che occorre la prova rigorosa di parte per il riconoscimento di un risarcimento superiore al 5% annuo del valore venale del fondo, riconosciuto normalmente, come si è già chiarito.

Nel caso specifico i ricorrenti non hanno provato il deterioramento fisico degli appartamenti, per cui deve essere respinta la corrispondente voce risarcitoria.

Nella perizia di parte allegata al ricorso, invece, si forniscono elementi di prova sul deprezzamento degli appartamenti a causa della costruzione dell’opera pubblica.

Di conseguenza, per la quantificazione del danno, si deve ricorrere a verificazione.

In conclusione, il ricorso può essere definito solo in parte.

Deve essere accolta la domanda di restituzione dei beni immobili, destinati ad abitazione, indicati nel ricorso con le lettere b) e c) e distinti al catasto al foglio 8, particella 765, ai subalterni 2 e 3.

Per gli stessi immobili deve essere accolta la domanda risarcitoria per la mancata disponibilità nel periodo di occupazione illegittima, rinviando all’esito della verificazione per la liquidazione del danno.

Deve essere accolta, inoltre, la domanda risarcitoria per la perdita definitiva della proprietà dell’immobile destinato a deposito (annotato al catasto al foglio 8, particella 2196) e dell’appartamento indicato nel ricorso con la lettera a) e distinto al catasto al foglio 8, particella 765, subalterno 1, rinviando all’esito della verificazione per la liquidazione del danno.

Deve infine essere accolta anche la domanda risarcitoria per la mancata disponibilità dei suddetti immobili nel periodo compreso tra l’inizio dell’occupazione senza titolo e la rinuncia abdicativa agli stessi, rinviando ancora alla verificazione per la liquidazione del danno.

Per la misura del risarcimento, quindi il Collegio ritiene opportuno disporre una verificazione tecnica per determinare il valore dei beni occupati.

La verificazione dovrà utilizzare il metodo di stima diretta (o sintetica), che consiste nella determinazione del più probabile valore di mercato di un bene mediante la comparazione di valori di beni della stessa tipologia di quello oggetto di stima (atti di compravendita di beni finitimi e simili) avuto, altresì, riguardo alle indicazioni della parte ricorrente quanto alle caratteristiche originarie dei beni.

Per i beni oggetto della rinuncia (deposito, annotato al catasto al foglio 8, particella 2196 e appartamento indicato nel ricorso con la lettera a) e distinto al catasto al foglio 8, particella 765, subalterno 1), trattandosi di beni oramai distrutti, sarà necessario determinarne il valore iniziale, alla data dell’occupazione legittima, devalutato o rivalutato annualmente secondo gli indici dell’andamento dei prezzi del mercato immobiliare pubblicati nei siti internet delle maggiori e più accreditate società di studi e di osservatori del mercato immobiliare, per giungere al valore virtuale degli stessi alla data di proposizione della rinuncia abdicativa, così determinando il danno da risarcire per la perdita di proprietà.

La somma così determinata sarà oggetto di rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat, per attualizzare il valore monetario del danno e sul valore attualizzato andranno calcolati, anno per anno, gli interessi al tasso legale fino alla data di conclusione della verificazione.

Accertato il danno per la perdita della proprietà, è possibile procedere alla liquidazione del danno da mancato godimento dei beni durante l’occupazione abusiva.

A tal fine, sul valore determinato anno per anno, per comprendere il periodo che va dall’inizio dell’illegittima detenzione fino alla perdita, per rinuncia, del diritto di proprietà, andranno, come detto, computati, a titolo di risarcimento del danno da occupazione abusiva, gli interessi nella misura del 5% per ogni anno di occupazione illegittima fino alla cessazione della stessa.

La somma determinata a titolo di risarcimento del danno per il periodo di occupazione illegittima dovrà essere anch’essa rivalutata all’attualità e, sugli importi cosi rivalutati, dovranno essere corrisposti gli interessi legali, in base ai principi generali sulla liquidazione dell'obbligazione risarcitoria.

Per quanto concerne, invece, i beni da restituire (immobili, destinati ad abitazione, indicati nel ricorso con le lettere b) e c) e distinti al catasto al foglio 8, particella 765, ai subalterni 2 e 3) dovrà essere liquidato il solo danno da occupazione abusiva, eventualmente incrementato per la perdita di valore degli immobili causata dalla costruzione dell’opera stradale.

Per questi ultimi beni, dunque, sarà necessario innanzitutto calcolare l’eventuale deprezzamento, per liquidare la relativa voce di danno, se effettivamente sussistente, cui saranno applicati rivalutazione monetaria e interessi, secondo i consueti criteri.

Per la liquidazione del danno da occupazione abusiva si dovrà procedere, invece, a determinare il valore inziale dei beni, alla data dell’occupazione legittima, devalutato o rivalutato annualmente secondo gli indici dell’andamento dei prezzi del mercato immobiliare pubblicati nei siti internet delle maggiori e più accreditate società di studi e di osservatori del mercato immobiliare.

Sul valore dei beni durante l’intero periodo di occupazione abusiva andranno calcolati gli interessi del 5% per ogni anno di occupazione illegittima fino alla cessazione della stessa per restituzione dei beni ai legittimi proprietari.

Anche su questa somma andranno applicati rivalutazione monetaria e interessi legali, secondo i consueti criteri.

La verificazione sarà curata dalla Direzione provinciale di Catania dell’Agenzia delle Entrate, con assegnazione del termine di giorni novanta per l’esecuzione della stessa, previo avviso alle parti dell’inizio delle operazioni e con facoltà per queste ultime di nominare consulenti di parte.

La relazione conclusiva delle operazioni di verifica dovrà essere depositata nella Segreteria della Sezione nel successivo termine di 30 giorni.

Il compenso del verificatore, che è posto a carico del Comune di Catania in via di anticipazione, è fissato in € 5.000,00.

Per le spese processuali si rinvia alla sentenza definitiva.

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