TAR Roma, sez. 1T, sentenza 2020-02-11, n. 202001805
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Pubblicato il 11/02/2020
N. 01805/2020 REG.PROV.COLL.
N. 03721/2015 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Ter)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3721 del 2015, proposto da
Associazione Agape Italia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati A L, C M e V B, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. A L in Roma, largo di Torre Argentina, 11;
contro
Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi 12;
per l'annullamento
del provvedimento di rigetto emesso dal Ministero dell'Interno, prot. n. 0003133 del 23.12.2014 e notificato ad Agape Italia in data 8.1.2015 relativo all'istanza di riconoscimento giuridico ex. art. 2 della legge n. 1159/1929 e 10 R.D. 289/1930, presentata in data 3.6.2011, come successivamente integrata;
della nota prot. 1673 del 13 giugno 2014 e dell'allegata relazione del Ministro del 10 giugno 2014 con la quale il Ministero dell'Interno ha chiesto il parere al Consiglio di Stato;
ove occorra, del parere reso dal Consiglio di Stato in funzione consultiva n. 3973/14.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 17 dicembre 2019 la dott.ssa F P e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con il ricorso in epigrafe l’associazione Agape Italia ha impugnato il provvedimento con cui il Ministero dell'Interno in data 23.12.2014 ha respinto l'istanza di riconoscimento giuridico ex. art. 2 della legge n. 1159/1929 e 10 R.D. 289/1930, la nota del 13 giugno 2014 con la quale il Ministero dell'Interno ha chiesto il parere al Consiglio di Stato, e il parere n. 3973/2014 reso da quest’ultimo organo in funzione consultiva.
La ricorrente ha esposto di essere un’associazione non riconosciuta, costituita in data 15.1.1990 che, fondandosi sulla fede in Cristo, si poneva come scopo l'istruzione, l'educazione e lo studio della fede cristiana, nonché la diffusione del messaggio evangelico, anche in comunione con quanti -chiese, organizzazioni ed individui - intendessero fare evangelizzazione e discepolato in Italia e/ o all'estero fra persone di lingua italiana, in ottemperanza all’art. 19 della Costituzione italiana (art. 5 comma 1 dell'attuale Statuto);ai sensi dello Statuto, l'adesione all'Associazione comportava l'accettazione della dichiarazione di fede ivi contenuta nell'art. 4, secondo cui il principio fondamentale del Movimento è la fedeltà a tutta la Scrittura, sia nella dottrina che nella pratica, mediante la consacrazione al Signore della propria vita e dei propri beni e l'aiuto fraterno fra quanti operano con lo stesso principio e le stesse direttive.
L'Associazione aveva operato all'inizio quale rappresentanza italiana di “Agape Europa” e di “Campus Crusade for Christ international (C.C.C.)”, associazione confessionale statunitense che, con Decreto dell'Interno emesso in data 6.7.1984, era stata ammessa a godere in Italia dei diritti civili attribuiti alle persone.
Pertanto, con decreto ministeriale del 17.3.1976, i ministri di culto dell'Associazione Studenti Italiani per Cristo (Campus Crusade for Christ International Inc.) erano stati ammessi al fondo di previdenza per il clero secolare e per i ministri di culto delle confessioni religiose diverse dalla cattolica, istituito con legge del 22.12.1973 n. 903.
Per anni, dunque, l'Associazione aveva svolto 1a sua attività di apostolato in Italia, in legame con Campus Crusade for Christ International Inc., sviluppando una nutrita comunità locale che ha progressivamente sentito la necessità di rendersi autonoma, da un punto di vista amministrativo, contabile e organizzativo, dalla chiesa madre, di cui tuttavia condivideva sia la dichiarazione di fede, pedissequamente riprodotta nello statuto, che le finalità religiose.
In ragione della suddetta crescita della comunità locale e dell'esigenza di quest'ultima di riorganizzarsi sul territorio, in data 3.6.2011 l'Associazione aveva presentato alla Prefettura di Firenze istanza di riconoscimento giuridico come ente morale, ai sensi dell'art. 2 della legge 1159/1929 e dell'art. 10 R.D. 289/1930, allegando alla suddetta istanza tutta la documentazione richiesta per legge.
La Prefettura di Firenze aveva trasmesso l'istanza di riconoscimento al Ministero dell’Interno, che aveva richiesto un'integrazione di documenti, poi forniti dall’Associazione alla Prefettura.
Nel frattempo, la stessa Prefettura di Firenze aveva segnalato alcune criticità relative allo Statuto, suggerendo alcune modifiche che la ricorrente aveva apportato.
Dopo una ulteriore richiesta di documentazione integrativa il Ministero dell’Interno, con nota del 4.10.2013, aveva comunicato all'Associazione che dallo statuto emergevano alcune criticità che ostavano all'accoglimento dell'istanza.
Dopo ulteriori modifiche allo Statuto sulla base delle indicazioni ricevute dal Ministero dell’Interno quest’ultimo aveva comunicato ad Agape Italia che, sulla scorta del parere negativo ricevuto dal Consiglio di Stato, l'istanza non poteva essere accolta.
A sostegno del ricorso sono state formulate le seguenti censure:
I.violazione dell'art. 10 bis della l. n. 241/90, eccesso di potere per sviamento, non avendo l’Amministrazione consentito l’esplicazione del contraddittorio sulle ragioni ostative all'accoglimento dell'istanza;
II. violazione degli artt. 1, 3 e 6 della legge n. 241/90, violazione dell'art. 17 della legge 127/1997, violazione dell'art. 2 della legge n. 1159/1929, eccesso di potere sotto il profilo del difetto di motivazione, della contraddittorietà manifesta, della illogicità, dello sviamento dalla causa tipica e dall'interesse pubblico, dell'aggravio dell'iter procedimentale.
La legge n. 1159/1929 e il regolamento esecutivo approvato con R.D. 28.2.1930 n. 289 costituivano l'unico riferimento normativo per tutte le associazioni religiose che, non avendo stipulato alcuna intesa con lo Stato italiano, intendevano ottenere il riconoscimento della personalità giuridica;l'art. 2 della legge 1159/1929 prevedeva, nella sua versione originaria, l'obbligatorietà del parere del Consiglio di Stato, venuto meno per effetto delle modifiche introdotte dall'art. 17 della legge n. 127 del 15 maggio 1997, che ha stabilito tassativamente i casi in cui tale parere è obbligatorio, non ricomprendendo tra questi il riconoscimento della personalità giuridica degli enti di culto.
Nel caso in esame, quindi, il Ministero non aveva alcun obbligo legale di avvalersi del parere del Consiglio di Stato ai fini del decidere, di tal che la scelta di ricorrere comunque all'apporto di un organo consultivo avrebbe dovuto essere giustificata dalle risultanze dell'istruttoria e dalle ragioni che precludevano la immediata definizione del procedimento, mentre nella nota ministeriale prot. 1673 del 13 giugno 2014 e nell'allegato appunto del 30 maggio 2014 non emergeva alcun ragionevole motivo a supporto di tale opzione.
III. Violazione dell'art. 97 della Costituzione, violazione dell'art. 2 e dell'art. 2 bis della legge 241/90, Violazione dei termini di conclusione del procedimento;danno da ritardo.
Il Ministero dell’Interno avrebbe dovuto concludere il procedimento entro 30 giorni dalla presentazione dell’istanza, non essendo previsto per il procedimento in questione un termine diverso da quello generale posto dalla legge n. 241/90;il danno da ritardo concerneva il danno derivante dal mancato accesso ai benefici fiscali connessi al riconoscimento richiesto.
Inoltre, i termini per la conclusione del procedimento avrebbero potuto essere sospesi una sola volta e per non più di 30 giorni per l’eventuale integrazione documentale, di tal che, nel caso di specie, il termine aveva ricominciato a decorrere dal 9.4.2014, quando la ricorrente aveva trasmesso all’Amministrazione il nuovo Statuto redatto secondo le indicazioni del Ministero.
IV. violazione dell'articolo 1 e dell'art. 3 della legge 241/1990, violazione dell'art. 97 della Costituzione, eccesso di potere sotto il profilo del difetto di motivazione, difetto di istruttoria, illogicità, contraddittorietà e sviamento dalla causa tipica e dall'interesse pubblico, non avendo l’Amministrazione dato conto delle ragioni a fondamento del diniego.
V. violazione dell’art. 2 della legge 24.6.1929, n. 1159, violazione della legge 241/90, eccesso di potere sotto il profilo del difetto di istruttoria, della erroneità manifesta e dello sviamento dalla causa tipica e dall'interesse pubblico, in quanto la documentazione fornita dal Ministero in occasione del formale accesso agli atti non consentiva di comprendere quali documenti fossero stati trasmessi al Consiglio di Stato e da questo esaminati ai fini dell'espressione del parere richiamato a fondamento del diniego.
VI. violazione dell’art. 2 della legge 24.6.1929, n. 1159, violazione dell'art. 12 cod. civ., violazione dell'art. 2 delle disp. att. cod. civ., violazione degli artt. 8, 18, 24 e 97 della Costituzione, eccesso di potere sotto il profilo del difetto di istruttoria, della erroneità, della contraddittorietà manifesta e dello sviamento dalla causa tipica e dall'interesse pubblico, in quanto la legge del 1929 ed il relativo Regolamento di attuazione si fondavano sul principio della libera ammissione dei culti diversi dalla religione cattolica "purché non professino principi e non seguano riti contrari all'ordine pubblico o al buon costume", subordinando il riconoscimento della personalità giuridica dei relativi enti alla condizione ineludibile che si trattasse di religioni i cui principi ed i cui riti non si ponevano in contrasto con l'ordinamento giuridico dello Stato;profili, questi, senz'altro ricorrenti nella fattispecie in esame.
Nel parere del Consiglio di Stato, invece, erano stati sollevati rilievi che, sulla base della documentazione prodotta, potevano essere agevolmente superati.
In particolare, il rilievo secondo cui lo status di fedele veniva a coincidere con quello di socio pagante non teneva conto del fatto che tale disposizione non contrastava con i principi fondamentali dell’ordinamento italiano e, comunque, avrebbe potuto essere espunta;il fatto che dall’istruttoria non emergevano indicazioni sulle attività di culto svolte da Agape, sui luoghi di riunione e sulla gestione finanziaria delle stesse, poteva essere superato in quanto dalla documentazione prodotta emergeva che l’attività dell’Associazione consisteva nell’opera di evangelizzazione e diffusione del messaggio delle Sacre Scritture attraverso i propri ministri che organizzavano incontri presso piccole comunità o con le famiglie, come risultava anche dal sito dell'Associazione.
VII. violazione degli artt. 3, 8, 18 e 19 così come degli artt. 24 e 97 della Costituzione, violazione dell’art. 2 della legge 24.6.1929, n. 1159, violazione dell'art. 12 cod. civ., violazione dell'art. 2 delle disp.att. cod.civ., in quanto, nel caso in esame, sia il Ministero che la Prefettura di Firenze avevano verificato, negli oltre 4 anni di istruttoria, "la sussistenza di tutti i requisiti richiesti" sia in termini di attività che di patrimonio dell'ente, ritenendo peraltro che "i mezzi economico-finanziari fossero sufficienti al raggiungimento dei fini".
Si è costituita l’Amministrazione intimata resistendo al ricorso.
Alla pubblica udienza del 17 dicembre 2019 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
Il ricorso è infondato.
Con il primo motivo la ricorrente ha lamentato la violazione dell’art. 10 bis della L. n. 241/1990 per omessa instaurazione del contraddittorio procedimentale sulle ragioni poste a fondamento del diniego di riconoscimento.
Al riguardo, va rammentato che la garanzia partecipativa di cui alle richiamate disposizioni è rivolta ad assicurare un effettivo e proficuo apporto collaborativo del privato al procedimento e la sua violazione assume rilievo ogni qual volta la mancata partecipazione abbia impedito al medesimo di apportare utili elementi di valutazione da sottoporre alla valutazione della amministrazione interessata.
Nel caso di specie, di contro, oltre a risultare dagli atti formalmente inviato il preavviso di diniego, prima delle integrazioni documentali e modifiche statutarie apportate dalla ricorrente, già dalla lettura del ricorso emerge come il contraddittorio procedimentale abbia potuto pienamente esplicarsi, attraverso più di una richiesta di integrazione da parte dell’Amministrazione, richieste alle quali la ricorrente ha ottemperato operando alcune modifiche allo statuto della costituenda associazione;ed infatti, nel proporre tale doglianza la ricorrente non ha indicato gli eventuali elementi di valutazione che, qualora tempestivamente avvisata, avrebbe potuto introdurre nel procedimento, limitandosi a lamentare l’omesso invio del preavviso di diniego in via formale, senza quindi evidenziare l’apporto conoscitivo che non aveva potuto introdurre nel corso del procedimento.
Peraltro, anche in sede processuale la ricorrente non ha poi fornito alcuno specifico apporto conoscitivo in ordine a tale profilo, limitandosi a fornire una generica disponibilità ad ulteriori modifiche statutarie.
Pertanto, deve ritenersi che una ulteriore interlocuzione tra le parti non avrebbe comunque consentito all’Amministrazione di acquisire informazioni altrimenti mancanti o nuovi chiarimenti sugli altri motivi di rigetto, con conseguente infondatezza del motivo.
Con il secondo motivo la ricorrente ha dedotto che, nel procedimento in esame, l'obbligatorietà del parere del Consiglio di Stato era venuta meno per effetto delle modifiche introdotte dall'art. 17 della legge n. 127 del 15 maggio 1997, che aveva stabilito tassativamente i casi in cui tale parere è obbligatorio, non ricomprendendo tra questi il riconoscimento della personalità giuridica degli enti di culto;la scelta di acquisire il parere dell’organo consultivo, quindi, avrebbe dovuto essere motivata sulla base delle risultanze dell'istruttoria, mentre non era stata in alcun modo giustificata dall’Amministrazione.
Al riguardo si rileva che, secondo l’art. 2 della legge n. 1159 del 1929, Disposizioni sull'esercizio dei culti ammessi nello Stato e sul matrimonio celebrato davanti ai ministri dei culti medesimi, “ Gli istituti di culti diversi dalla religione dello Stato possono essere eretti in ente morale, con regio decreto su proposta del Ministro per la giustizia e gli affari di culto, di concerto col Ministro per l'interno, uditi il Consiglio di Stato e il Consiglio dei ministri ”;a sua volta, l’art. 10 del Regio Decreto recante le disposizioni attuative di tale legge prevede che “ L'erezione in ente morale degli istituti dei culti diversi dalla religione dello Stato può essere chiesta da qualsiasi interessato con domanda diretta al Ministro per la giustizia e gli affari di culto (ora, Ministro dell'interno in forza del R.D.L. 19 agosto 1932, n. 1080).La domanda è presentata all'ufficio di culto presso la procura generale della Corte di appello (ora, Prefetto in forza del R.D.L. 19 agosto 1932, n. 1080) e deve essere corredata del testo dello statuto dell'ente da cui risultino lo scopo, gli organi dell'amministrazione, le norme di funzionamento di esso, i mezzi finanziari dei quali dispone per il raggiungimento dei propri fini ”.
La disposizione dell’art. 17, comma 26, della legge n. 127/97, secondo cui “ E' abrogata ogni diversa disposizione di legge che preveda il parere del Consiglio di Stato in via obbligatoria. Resta fermo il combinato disposto dell'articolo 2, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e dell'articolo 33 del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, approvato con regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054 ”, è intervenuta in linea generale su tutti i procedimenti che richiedevano il parere obbligatorio del Consiglio di Stato, eliminando l’obbligatorietà del parere.
Tuttavia, tale disposizione non può certo essere interpretata nel senso che l’avere sollecitato, da parte dell’Amministrazione procedente, e acquisito tale parere concretizzi una illegittimità del procedimento per la dilatazione dei relativi termini.
Il procedimento di riconoscimento delle persone giuridiche, infatti, ha notoriamente natura concessoria, potendo essere qualificato come espressione di un controllo di natura pubblicistica, mirato e circoscritto alla valutazione, sulla base dell'atto costitutivo e dello statuto ed a tutela del pubblico interesse, della ricorrenza delle condizioni per la concessione all'ente delle specifiche prerogative connesse alla personalità, , sfociando in un provvedimento la cui cognizione è attribuita al giudice amministrativo (Cassazione civile, Sez. Un., 8 maggio 2014 n. 9942).
La Corte di Cassazione, nella sentenza citata, ha affermato che tali considerazioni permangono valide anche nell'ambito del sistema di attribuzione della personalità giuridica delineato dal D.P.R. n. 361 del 2000, in quanto il superamento del sistema di riconoscimento della personalità giuridica mediante decreto del Presidente della Repubblica, con l'abrogazione dell'art. 12 cod. civ. e la sua sostituzione con il procedimento di iscrizione nel registro delle persone giuridiche istituito presso le Prefetture, non ha alterato il connotato essenzialmente concessorio dell'attribuzione della personalità giuridica, alla luce del contenuto prescrittivo ricavabile dalle norme dello stesso D.P.R. n. 361 del 2000.
Ne consegue che, nell’ambito di tale procedimento, l’amministrazione esercita poteri discrezionali nella verifica della sussistenza dei requisiti per la concessione della personalità giuridica.
Tali principi sono pienamente applicabili anche nel caso di specie, in quanto le peculiarità connesse al regime degli enti religiosi o di culto non eliminano certo il nucleo sostanzialmente discrezionale della valutazione demandata in materia all’Amministrazione.
In tale contesto, e alla luce della delicatezza e della rilevanza dell’analisi affidata agli organi pubblici in materia, la determinazione del Ministero dell’Interno di acquisire il parere del Consiglio di Stato, quantunque non obbligatorio alla stregua della disposizione sopra richiamata, non evidenzia certo un inutile aggravamento del procedimento, palesando, piuttosto, un approfondimento istruttorio dell’indagine sui requisiti giuridici per ottenere il riconoscimento del tutto corretto e scevro da profili di sproporzionatezza e illegittimità.
Anche tale doglianza è pertanto infondata.
Con il terzo motivo la ricorrente ha contestato il ritardo nell’adozione del provvedimento gravato, evidenziando che il Ministero dell’Interno avrebbe dovuto concludere il procedimento entro 30 giorni dalla presentazione dell’istanza, non essendo previsto per il procedimento in questione un termine diverso da quello generale posto dalla legge n. 241/90, e che il danno da ritardo concerneva il danno derivante dal mancato accesso ai benefici fiscali connessi al riconoscimento richiesto.
Al riguardo deve rilevarsi che, secondo l’orientamento espresso anche di recente dalla giurisprudenza, la violazione del termine per la conclusione del procedimento, ove non sia espressamente qualificato dalla legge come perentorio, non determina la consumazione del potere in capo alla Amministrazione procedente e non rende per di per sé solo illegittimo il provvedimento tardivamente adottato, con conseguente infondatezza della censura.
Il ritardo può, invece, comportare la responsabilità dell’Amministrazione per i danni subiti dall’istante, ma ciò presuppone che possa essere dimostrata e accertata la spettanza del bene della vita, ovvero che il procedimento si concluda con l'adozione di un provvedimento favorevole alla parte (Consiglio di Stato, sez. V, 23/8/2019, n. 5810;T.A.R. Lazio, Roma, sez. III ter, 2/10/2019, n. 11502;T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 27/4/2019, n. 934).
Per ragioni di ordine logico la richiesta risarcitoria dovrà pertanto essere trattata all’esito dell’analisi delle censure proposte avverso il provvedimento di diniego impugnato.
Con il quarto motivo la ricorrente ha lamentato il difetto di motivazione del provvedimento.
In proposito si osserva che, nell’esposizione delle ragioni a sostegno del diniego di riconoscimento, l’Amministrazione ha richiamato le considerazioni espresse nel parere del Consiglio di Stato, evidenziando: l’esiguo numero degli associati;il contrasto tra la finalità di culto e la circostanza che nello Statuto dell’ente lo status di “membro”, coincidente con quello di “fedele”, cioè di persona impegnata nel perseguimento degli scopi del movimento, sia identificato con quello di socio pagante, pena l’esclusione dall’assemblea generale che riunisce tutti i membri;l’indeterminatezza insita nel fatto che lo Statuto demanda a successivi regolamenti interni, approvati dall’organi di governo dell’ente (Consiglio direttivo), la disciplina dei rapporti dei membri con il movimento;la carenza di informazioni in ordine all’attività di culto da svolgere, ai luoghi di riunione e alla gestione finanziaria;il fatto che le voci più consistenti del bilancio riguardino il trattamento economico del personale e i canoni di locazione della sede dell’associazione e le esigenze organizzative degli organi statutari, senza variazioni significative nella consistenza delle quote associative e nelle fonti di finanziamento.
Il recepimento di tali considerazioni costituisce, pertanto, supporto motivazionale più che adeguato al provvedimento, articolato con riferimento ad una pluralità di aspetti.
Le ultime tre censure, afferenti proprio ai profili centrali della motivazione del diniego di riconoscimento, possono essere esaminate congiuntamente.
La ricorrente al riguardo ha confutato i rilievi mossi allo Statuto dell’Associazione dal Consiglio di Stato e recepiti nel contenuto del provvedimento impugnato.
Sotto un primo profilo, con riferimento al rilievo secondo cui lo status di fedele veniva a coincidere con quello di socio pagante, la ricorrente ha dedotto che tale disposizione non contrastava con i principi fondamentali dell’ordinamento italiano e, comunque, avrebbe potuto essere espunta.
In merito il parere del Consiglio di Stato, premesso che l’associazione è di natura confessionale e persegue la diffusione della fede cristiana e del messaggio evangelico, ha evidenziato come il fatto che lo status di fedele e membro dell’associazione, secondo le disposizioni dello Statuto, coincidesse con quello di socio pagante, a pena di esclusione dall’assemblea generale di tutti i membri, contrastava con le finalità di culto dell’ente, rilevando, altresì, che tale clausola presentava aspetti ancor più critici tenuto conto dell’indeterminatezza della disciplina dei rapporti dei membri con il movimento, demandata a successivi regolamenti interni da approvare da parte del Consiglio direttivo dell’associazione, organo di governo della stessa.
Tali considerazioni, riportate nella motivazione del provvedimento, pongono in modo logico e congruente in rilievo sia un profilo di contraddizione dello Statuto, nell’identificare lo status di fedele con quello di membro pagante, che la genericità nella configurazione dell’assetto interno dell’organizzazione, laddove il mancato pagamento della quota comporta l’esclusione dall’assemblea, e i rapporti con i membri non sono disciplinati dallo Statuto ma da futuri eventuali regolamenti;sotto tale profilo le ragioni espresse si sottraggono alle censure proposte.
Allo stesso modo, non presenta profili di illogicità né di contraddizione l’avere rilevato l’assenza di indicazioni, nella documentazione prodotta, sulle attività di culto svolte da Agape, sui luoghi di riunione e sulla gestione finanziaria delle stesse, che del resto non è stata superata neanche nel corso del giudizio, non essendo stata prodotta documentazione al riguardo.
Tali notazioni consentono di concludere per l’infondatezza anche della doglianza relativa alla asserita discrepanza tra la documentazione sottoposta dal Ministero al Consiglio di Stato in allegato alla richiesta di parere sull’istanza e quella acquisita dall’Amministrazione nel corso del procedimento, in quanto le conclusioni cui è addivenuto il parere non risultano sconfessate dalla documentazione prodotta in sede procedimentale e nel presente giudizio.
Infine, quanto alla deduzione secondo cui già il Ministero e la Prefettura di Firenze avevano verificato, negli oltre 4 anni di istruttoria, "la sussistenza di tutti i requisiti richiesti" per il riconoscimento, si rileva che, anche sotto tale profilo, il provvedimento, così come il presupposto parere, hanno evidenziato che dal rendiconto economico-finanziario degli anni 2010, 2011 e 2012 emergeva che le voci più consistenti riguardavano il trattamento economico del personale e i canoni di locazione della sede dell’associazione e delle unità immobiliari destinate ad abitazione dei “ministri”, preposti a non meglio definiti “ministeri o dipartimenti”, ciascuno dei quali ha la responsabilità organizzativa di uno dei settori del movimento.
Da tali dati l’Amministrazione ha dedotto che il bilancio dell’associazione è stato prevalentemente assorbito dalle esigenze organizzative degli organi statutari per la sussistenza della stessa, mentre non sono intervenute variazioni rilevanti nella consistenza delle quote e delle fonti finanziamento.
Tali considerazioni coincidono appieno con i dati risultanti dall’istruttoria svolta e dai documenti depositati anche in giudizio, sicché, anche sotto tale profilo, il provvedimento risulta immune dai vizi denunciati.
In conclusione, le ragioni ostative opposte dall’amministrazione al riconoscimento resistono ai profili di illegittimità articolati dalla parte ricorrente e, pertanto, il ricorso va respinto, così come la domanda di risarcimento del danno da ritardo, proposta ai sensi dell'art.