TAR Venezia, sez. I, sentenza 2018-04-17, n. 201800408
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Pubblicato il 17/04/2018
N. 00408/2018 REG.PROV.COLL.
N. 01422/2017 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1422 del 2017, proposto dalla
P S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, sig. O M, rappresentata e difesa dagli avv.ti V D, G Z e F Z e con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo, in Venezia-Mestre, via Cavallotti, n. 22
contro
Comuni di Colle Umberto, Fonte, Revine Lago, San Biagio di Callalta e Vazzola, in persona dei rispettivi Sindaci pro tempore, rappresentati e difesi dall’avv. P A e con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. F C, in Venezia, p.zza Ferretto, n. 84
nei confronti
Asco TLC S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, dr. Stefano Faè, rappresentata e difeso dall’avv. Enrico Vedova e con domicilio eletto presso lo studio dello stesso, in Venezia-Mestre, Galleria Matteotti, n. 3
Asco Holding S.p.A., non costituita in giudizio
Bluenergy Group S.p.A., non costituita in giudizio
Ascopiave S.p.A., non costituita in giudizio
per l’annullamento,
previa sospensione dell’efficacia,
dei seguenti provvedimenti di revisione straordinaria delle partecipazioni pubbliche ex art. 24 del d.lgs. n. 175/2016:
- della deliberazione del Consiglio Comunale di Colle Umberto n. 40 del 27 settembre 2017 e dei relativi allegati;
- della deliberazione del Consiglio Comunale di Fonte n. 33 del 28 settembre 2017 e dei relativi allegati;
- della deliberazione del Consiglio Comunale di Revine Lago n. 27 del 29 settembre 2017 e dei relativi allegati;
- della deliberazione del Consiglio Comunale di San Biagio di Callalta n. 28 del 29 settembre 2017 e dei relativi allegati;
- della deliberazione del Consiglio Comunale di Vazzola n. 27 del 28 settembre 2017 e dei relativi allegati;
- di ogni altro atto ad esso connesso per presupposizione e/o consequenzialità
e per l’accertamento
del mancato assolvimento da parte dei Comuni degli obblighi posti dall’art. 24 del d.lgs. n. 175/2016 entro il termine del 30 settembre 2017 ivi previsto, e della conseguente impossibilità di esercizio dei diritti sociali nei confronti della società
nonché per l’accertamento
della nullità o inefficacia degli atti di fusione nel frattempo posti in essere da Asco Holding S.p.A. e Asco TLC S.p.A..
Visti il ricorso ed i relativi allegati;
Vista la domanda di sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti impugnati, presentata in via incidentale dalla società ricorrente;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dei Comuni di Colle Umberto, Fonte, Revine Lago, San Biagio di Callalta e Vazzola;
Visto, altresì, l’atto di costituzione in giudizio di Asco TLC S.p.A.;
Viste la memoria e la documentazione dei Comuni resistenti;
Vista la dichiarazione di rinuncia all’istanza cautelare depositata dalla ricorrente e ribadita in forma orale in Camera di consiglio;
Vista l’ordinanza n. 645/2017 del 21 dicembre 2017, recante presa d’atto della rinuncia da parte della ricorrente all’istanza cautelare da essa proposta;
Viste le memorie illustrative, la documentazione e le repliche depositate dalle parti;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l’art. 119 del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (c.p.a.);
Nominato relatore nell’udienza pubblica del 7 marzo 2018 il dott. P D B:
Uditi per le parti i difensori, come specificato nel verbale;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue
FATTO
L’odierna ricorrente, P S.r.l. (“P”), espone di essere socio (con una partecipazione pari all’8,61% del capitale sociale) di Asco Holding S.p.A., società holding al cui capitale partecipano un altro socio privato (Bluenergy Group S.p.A.) e ben novantuno Comuni, i quali detengono ognuno partecipazioni di limitata consistenza, che vanno da un minimo dello 0,05% del predetto capitale ad un massimo del 2,74%, detenuto dal Comune di Conegliano Veneto.
Nella ricostruzione dell’esponente, Asco Holding S.p.A. nasce dalla “metanizzazione” dei Comuni facenti parte del Consorzio obbligatorio del Bacino Imbrifero Montano del Piave, istituito nel 1955 per l’impiego dei sovra-canoni delle derivazioni elettriche finalizzati al riequilibrio economico del territorio. Tale metanizzazione, estesa ai Comuni limitrofi, ha determinato dapprima lo scorporo delle attività di gestione delle reti e la loro attribuzione ad un nuovo soggetto, denominato Azienda Speciale Consorziale del Piave (A.S.CO. Piave), istituito dai Comuni interessati. A seguito della riforma del settore operata dal d.lgs. n. 164/2000, vi è stata la trasformazione di A.S.CO. Piave in una società per azioni, con la denominazione di Ascopiave S.p.A. e, poi, di Asco Holding S.p.A..
L’ambito di attività di Asco Holding S.p.A. si è andato via via estendendo rispetto a quello originario di realizzazione e di gestione delle reti di distribuzione del gas metano dei Comuni consorziati: ciò, tenuto conto che il principio stabilito dal d.lgs. n. 164/2000, di separazione tra la gestione esclusiva delle reti distributive e l’apertura al mercato dell’attività di vendita del gas, ha indotto la costituzione di una serie di società controllate “di scopo”.
In particolare, Asco Holding S.p.A. controlla, per quanto di interesse, Asco Piave S.p.A. (quotata in borsa), la quale si occupa di energia ed a sua volta controlla le società che distribuiscono il gas (AP Reti) e la società che svolge attività di fornitura di energia (Asco Trade).
La “holding” controlla, altresì, Asco TLC S.p.A., società attiva nel settore delle telecomunicazioni e che si occupa sia di infrastrutturazioni, con posa di cavi di telecomunicazioni e realizzazioni di nodi di rete, sia della vendita di servizi di telefonia e telematici di vario genere (dalla videosorveglianza al “backup service”, dai servizi di posta elettronica a quelli di “fonia VOIP”, ecc.).
Con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 175/2016 (cd. decreto Madia) è sorto il problema, per i Comuni soci della “holding”, di verificare la compatibilità della loro partecipazione societaria con i principi introdotti dal suddetto decreto, improntati – osserva l’esponente – a) alla rigorosa rispondenza delle partecipazioni societarie delle P.A. alle finalità istituzionali di queste, b) all’obbligo di dismissione delle partecipazioni non riconducibili alle riferite finalità.
Il d.lgs. n. 175 cit. ha imposto in particolare, all’art. 24, che le partecipazioni detenute direttamente o indirettamente dalle Amministrazioni in società non riconducibili nelle categorie di cui all’art. 4 (id est.: le partecipazioni che possono essere acquisite o mantenute), o che non soddisfano i requisiti di cui all’art. 5, commi 1 e 2 (riguardanti la motivazione analitica dell’atto deliberativo di costituzione di una società a partecipazione pubblica), o ancora che ricadono in una delle ipotesi di cui all’art. 20, comma 2 (id est: le ipotesi che impongono l’adozione di un piano di riassetto delle società partecipate, per la loro razionalizzazione, fusione o soppressione), devono essere alienate, o formare oggetto delle misure di riassetto/razionalizzazione previste dal medesimo art. 20. A tal fine, l’art. 24 impone agli Enti locali di effettuare entro il 30 settembre 2017, “con provvedimento motivato”, la ricognizione delle partecipazioni detenute, individuando quelle da alienare e l’alienazione deve avvenire – precisa il comma 4 dell’art. 24 – entro un anno dalla conclusione della ricognizione.
Ad avviso dell’esponente, le partecipazioni degli Enti locali in Asco Holding S.p.A. non sarebbero compatibili con i limiti fissati dal cd. decreto Madia, sotto due profili: a) quello generale e assorbente di non essere partecipazioni finalizzate all’espletamento di un servizio di interesse generale correlato al perseguimento di finalità istituzionali degli Enti (v. art. 4, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 175/2016, in correlazione al precedente art. 2, comma 1, lett. h) del decreto);b) quello, più specifico, dell’assenza di dipendenti in capo ad Asco Holding S.p.A., a fronte della presenza di n. 5 amministratori (v. art. 20, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 175 cit.).
Alla luce di ciò, P ha notificato agli Enti locali soci una missiva con cui ha prospettato, quale unica alternativa all’alienazione delle partecipazioni di detti Enti, la fusione di Asco Holding S.p.A. con la controllata Ascopiave S.p.A.: essendo questa, infatti, quotata in borsa, la fusione – sostiene la ricorrente – consentirebbe di sottrarre le partecipazioni alla disciplina del d.lgs. n. 175/2016, in virtù della specifica esclusione delle società quotate posta dall’art. 1, comma 5, e dall’art. 26, comma 4, del ridetto decreto legislativo.
I Comuni resistenti (Colle Umberto, Fonte, Revine Lago, San Biagio di Callalta, Vazzola), tuttavia, hanno seguito – lamenta l’esponente – il suggerimento irrituale e anomalo della stessa Asco Holding S.p.A.: per l’effetto, essi hanno assunto le deliberazioni citate in epigrafe ed oggetto di impugnazione, con cui hanno ritenuto che le partecipazioni societarie assolvessero a finalità istituzionali e che l’assenza di dipendenti in Asco Holding S.p.A. fosse l’unico profilo ostativo al mantenimento delle partecipazioni stesse, individuando nell’incorporazione della controllata Asco TLC S.p.A. la misura di razionalizzazione ex art. 20 cit. idonea a superare il riferito profilo ostativo ed a consentire, così, di evitare l’alienazione delle quote.
Avverso le suddette deliberazioni comunali è quindi insorta la P, impugnandole con il ricorso indicato in epigrafe e chiedendone l’annullamento, previa tutela cautelare.
A supporto del gravame, la società ha dedotto i seguenti motivi:
1) violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 24 del d.lgs. n. 175/2016, nonché dell’art. 2, comma 1, lett. h), del medesimo d.lgs. n. 175/2016, in quanto le partecipazioni dei Comuni intimati in Asco Holding S.p.A. difetterebbero del vincolo funzionale del perseguimento delle finalità istituzionali ex art. 4 del d.lgs. n. 175/2016 e, di conseguenza, dovrebbero essere obbligatoriamente dismesse, ai sensi del successivo art. 24. Ciò varrebbe anzitutto per l’attività di distribuzione del gas naturale, trattandosi sì di servizio pubblico, ma che oggi non sarebbe più di competenza dei singoli Enti locali ed avrebbe carattere sovracomunale, e tenuto conto che il servizio di distribuzione svolto da Asco Holding S.p.A. tramite le sue controllate verrebbe effettuato anche in favore di Comuni diversi da quelli soci, i quali, anzi, sarebbero più numerosi degli Enti soci e ricompresi in ambiti territoriali diversi da quelli in cui sono inseriti i suddetti Enti soci. Varrebbe, poi, per l’attività di vendita del gas, considerata la natura prettamente commerciale di detta attività, nonché per i servizi di telecomunicazione svolti da Asco Holding S.p.a. per il tramite di Asco TLC S.p.A., trattandosi di prestazioni reperibili sul mercato ed eseguibili da una pluralità di operatori privati. In conclusione, le partecipazioni dei Comuni intimati alla società avrebbero soltanto scopo di lucro, al pari di ogni altra attività commerciale o industriale, e, quindi, non potrebbero essere mantenute, né potrebbe essere riconosciuto in capo ai soci pubblici alcun margine di valutazione discrezionale al riguardo;
2) eccesso di potere e violazione di legge per difetto di motivazione, difetto di istruttoria, eccesso di potere per sviamento, perché le deliberazioni gravate sarebbero inficiate dall’assenza di un’adeguata istruttoria e della necessaria motivazione, avendo giustificato il mantenimento delle partecipazioni in Asco Holding S.p.A. con formule stereotipate ed affermazioni apodittiche, inidonee a supportare le determinazioni assunte. Tali illegittimità costituirebbero, anzi, indici di sviamento, alla luce del fatto che i Comuni intimati, ignorando la missiva loro trasmessa da P, avrebbero pedissequamente recepito le indicazioni fornite dalla stessa Asco Holding S.p.A. e, così, si sarebbero adeguati ad una scelta di carattere politico operata al di fuori dell’Ente locale e rispondente alla sola sviata logica di mantenere una posizione di controllo e di potere (cioè proprio quella logica che il d.lgs. n. 175/2016 avrebbe inteso sradicare);
3) violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 4 e 24 del d.lgs. n. 175/2016 sotto diverso ed ulteriore profilo, eccesso di potere e violazione di legge per difetto di motivazione, nonché difetto di istruttoria ed eccesso di potere per sviamento sotto diverso profilo, poiché la frammentazione che caratterizza le partecipazioni dei Comuni in Asco Holding S.p.A., in assenza di convenzioni, patti parasociali o di sindacato idonei a garantire il controllo congiunto dei soci pubblici, sarebbe un ulteriore elemento che avrebbe dovuto indurre i Comuni a prendere atto dell’impossibilità di qualificare le menzionate partecipazioni come necessarie per perseguire i propri fini. Nel caso di specie, infatti, i Comuni sono possessori, in misura polverizzata, di azione ordinarie, che non garantirebbero loro, neppure in via indiretta, l’effettiva partecipazione all’elezione dei rappresentanti del Consiglio d’amministrazione ed alle decisioni strategiche della società;
4) eccesso di potere per erroneità dei presupposti, difetto di istruttoria e di motivazione, sviamento, violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 24, comma 1, e 20, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 175/2016, poiché la scelta operata di fondere per incorporazione la controllata Asco TLC S.p.A. sarebbe del tutto inidonea allo scopo del mantenimento delle partecipazioni, essendo mirata solo a far transitare i dipendenti di Asco TLC S.p.A. nella “holding”, senza finalità industriali ed in assenza di un piano di razionalizzazione. Le deliberazioni gravate non conterrebbero in realtà alcuna misura di razionalizzazione, visto che, oltretutto, la fusione dovrebbe essere deliberata dalle società interessate (soggetti terzi ed autonomi rispetto ai Comuni);
5) violazione e falsa applicazione degli artt. 4, 5, 7 e 8 del d.lgs. n. 175/2016, difetto di istruttoria, eccesso di potere e violazione di legge (art. 5 del d.lgs. n. 175 cit.) per difetto di motivazione, eccesso di potere per illogicità manifesta, poiché qualora – come imposto dalla normativa – i Comuni avessero proceduto previamente alla verifica della sussistenza delle condizioni di cui all’art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 175/2016 in capo ad Asco TLC S.p.A., sarebbe risultata immediatamente la mancanza delle condizioni giustificative di una partecipazione degli Enti locali in quest’ultima: ed infatti, i servizi di telecomunicazioni prestati dalla società non sarebbero riferibili ad alcun fine istituzionale dei Comuni e non vi sarebbe alcuna prova della necessità della partecipazione per conseguire il fine istituzionale, al quale la partecipazione stessa è collegata. Mancherebbe, inoltre, la motivazione analitica imposta dall’art. 5 del d.lgs. n. 175/2016. Ancora, sarebbe illogica la scelta della fusione della “holding” con Asco TLC S.p.A., anziché con la controllata e quotata Ascopiave S.p.A., visto che nelle deliberazioni impugnate si indicherebbe il servizio di distribuzione del gas (svolto dalla seconda), e non certo quello di telecomunicazioni (svolto dalla prima), quale “collante” tra i soci pubblici. Ciò, tenuto anche conto che la fusione con Ascopiave S.p.A. porterebbe non solo all’eliminazione dei costi di un Consiglio di amministrazione e del Collegio sindacale, ma al risparmio dei costi del contratto di servizio in essere tra la “holding” e la controllata, e consentirebbe di beneficiare delle garanzie sull’investimento che una società quotata in borsa sarebbe in grado di prestare;
6) violazione e falsa applicazione degli artt. 42 e 239 del d.lgs. n. 267/2000, poiché la deliberazione impugnata del Consiglio Comunale di Colle Umberto sarebbe inficiata, in quanto assunta sulla base di una proposta non corredata del parere obbligatorio dell’organo di revisione dei conti, il che sarebbe tanto più grave, alla luce dello stato di esposizione debitoria in cui verserebbe il medesimo Comune di Colle Umberto.
La deducente ha formulato, inoltre, domande di accertamento: a) del mancato assolvimento, da parte delle P.A., degli obblighi ex art. 24 del d.lgs. n. 175/2016 entro il termine del 30 settembre 2017 ivi previsto, e della conseguente impossibilità di esercizio dei diritti sociali nei confronti della società;b) della nullità e/o inefficacia degli atti di fusione nel frattempo posti in essere da Asco Holding S.p.A. e Asco TLC S.p.A..
Si sono costituiti in giudizio i Comuni di Colle Umberto, Fonte, Revine Lago, S. Biagio di Callalta e Vazzola, depositando un controricorso e successiva memoria ed eccependo:
a) in rito, l’inammissibilità del ricorso cumulativo, perché questo violerebbe l’onere dell’allegazione di fatti e censure circostanziati, rispetto ai singoli provvedimenti impugnati, nonché per la circostanza che il ricorso recherebbe un motivo (il sesto) riferito ad uno solo dei Comuni intimati (quello di Colle Umberto), ma contenuto in un atto processuale che li riguarda tutti;
b) sempre in rito, l’inammissibilità per difetto di interesse (nonché di legittimazione) e comunque per acquiescenza;
c) il difetto di giurisdizione in relazione alle domande di accertamento formulate da P;
d) nel merito, l’infondatezza dei motivi di impugnazione.
Si è, altresì, costituita in giudizio la società Asco TLC S.p.a., con atto formale.
Con ordinanza n. 645/2017 del 21 dicembre 2017 il Tribunale ha preso atto della rinunzia all’istanza cautelare da parte della ricorrente.
In vista dell’udienza pubblica le parti hanno depositato memorie illustrative, documenti e repliche, controdeducendo alle altrui eccezioni ed insistendo nelle conclusioni già rassegnate. In aggiunta, la ricorrente P ha precisato di non avere più interesse a coltivare la domanda di accertamento della nullità degli atti attuativi della misura di razionalizzazione consistente nell’incorporazione di Asco TLC S.p.A. in Asco Holding S.p.A. eventualmente assunti, avendo l’assemblea della “holding” deliberato di astenersi dall’assumere decisioni sull’attuazione della misura di razionalizzazione fino alla definizione del giudizio.
All’udienza pubblica di merito del 7 marzo 2018, dopo ampia discussione, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
Formano oggetto di impugnazione le deliberazioni elencate in epigrafe, attraverso le quali i Comuni resistenti hanno proceduto alla ricognizione delle partecipazioni societarie possedute, nel quadro del programma di revisione straordinaria delle suddette partecipazioni previsto dall’art. 24 del d.lgs. n. 175/2016 (cd. “riforma Madia”).
La ricorrente agisce, altresì, per l’accertamento del mancato assolvimento da parte dei Comuni degli obblighi imposti dall’art. 24 cit., e della conseguente impossibilità, in capo ai medesimi Comuni, di esercitare i diritti sociali (v. il comma 5 dell’art. 24). Agisce, ancora, per l’accertamento della nullità e/o inefficacia degli atti di fusione nel frattempo posti in essere da Asco TLC S.p.A. e Asco Holding S.p.A. (società, la seconda, a cui le suddette partecipazioni si riferiscono).
Quanto a quest’ultimo punto, peraltro, il Collegio prende atto che nei più recenti scritti difensivi la ricorrente ha precisato di non avere più interesse a coltivare la domanda di accertamento della nullità degli atti attuativi della misura consistente nell’incorporazione di Asco TLC S.p.A. in Asco Holding S.p.A. eventualmente assunti dalle società, per avere l’assemblea della ridetta “holding” deliberato di astenersi dall’assumere decisioni in ordine all’attuazione di tale misura di razionalizzazione fino alla definizione del giudizio. Se ne desume che, per questa parte, il ricorso è diventato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse alla sua decisione.
Venendo ora all’esame delle molteplici eccezioni pregiudiziali di rito sollevate dai Comuni resistenti ed iniziando da quella di difetto di giurisdizione, che, per giurisprudenza consolidata (cfr. ex plurimis, C.d.S., Sez. V, 5 dicembre 2013, n. 5786;id., 12 novembre 2013, n. 5421;T.A.R. Veneto, Sez. I, 1° febbraio 2018, n. 109;id., 17 gennaio 2018, n. 52;T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 5 novembre 2015, n. 5127;id., Salerno, Sez. I, 13 gennaio 2014, n. 104), assume carattere prioritario rispetto ad ogni altra, il Collegio osserva quanto segue.
I Comuni hanno sollevato eccezione di difetto (parziale) di giurisdizione in relazione alle domande di accertamento presentate da P: eccezione che – dopo quanto si è appena riportato circa la sopravvenuta carenza di interesse sulla domanda di accertamento della nullità o inefficacia degli atti di fusione eventualmente assunti in conseguenza delle deliberazioni impugnate – si deve considerare limitata alla sola domanda di accertamento del mancato assolvimento degli obblighi ex art. 24 del d.lgs. n. 175 cit. entro il 30 settembre 2017 e della conseguente impossibilità, per i Comuni intimati, di esercitare i diritti sociali nei riguardi della società.
Viene eccepito, in argomento, che la domanda, avendo ad oggetto l’accertamento della sussistenza, in capo ai Comuni, di una situazione assimilabile alla mancata adozione dell’atto ricognitivo entro il 30 settembre 2017 e delle conseguenti sanzioni ex art. 24, comma 5, del d.lg. n. 175 cit., si riflette sull’accertamento dei poteri del socio e, perciò, attiene alla sfera civilistica, la cui cognizione sfugge al G.A..
Si tratterebbe infatti – si precisa – di sanzioni (impossibilità, per i Comuni inadempienti, di esercitare i diritti sociali nelle future assemblee della società partecipata) di rilevanza unicamente civilistica e l’accertamento giudiziale sarebbe riferito a conseguenze afferenti ai rapporti paritetici tra Comuni e P in seno all’assemblea della “holding”.
Entro gli ora visti limiti, l’eccezione di difetto di giurisdizione è fondata e da accogliere.
P presuppone che le deliberazioni impugnate, essendo illegittime e da annullare, sarebbero da assimilare all’ipotesi del mancato esercizio del potere ricognitivo entro il termine del 30 settembre 2017, a cui l’art. 24, comma 5, del d.lgs. n. 175/2016 riconnette la sanzione dell’impossibilità, per il socio pubblico, di esercitare i diritti sociali nei confronti della società partecipata: muovendo da tale presupposto, chiede, pertanto, l’accertamento di detta impossibilità.
Ad avviso del Collegio, tuttavia, la riferita sanzione, incidendo sulle facoltà e sui poteri che spettano all’Ente locale nella sua qualità di socio, cioè sulle manifestazioni di volontà privatistiche del socio pubblico, rientra nella cognizione del G.O.: essa, infatti, involve l’esercizio di poteri privatistici e le posizioni che vi si correlano hanno natura di diritti soggettivi (cfr., ex multis, Cass. civ., Sez. Un., 15 aprile 2005, n. 7799;T.A.R. Lazio, Latina, Sez. I, 9 gennaio 2013, n. 17;T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. III, 25 gennaio 2010, n. 89).
In altre parole, l’art. 24, comma 5, del d.lgs. n. 175 cit. menziona i “diritti sociali” dell’Ente pubblico socio, quindi si riferisce non ad atti espressione di potestà amministrativa, ma ai poteri che all’Ente pubblico sono conferiti dalla normativa civilistica, e cioè a manifestazioni di volontà essenzialmente privatistiche, sulle quali non vi è giurisdizione del G.A. (T.A.R. Campania, Salerno, Sez. I, 9 agosto 2016, n. 1814;id., Napoli, Sez. I, 23 novembre 2011, n. 5510). Ne consegue che l’accertamento della possibilità o meno, per il socio pubblico, di esercitare tali poteri, non può che ritenersi attribuito alla giurisdizione ordinaria.
Né si versa in un’ipotesi di diritti patrimoniali consequenziali, cui, ai sensi dell’art. 7 c.p.a., si estende la giurisdizione del G.A., poiché qui non si discute dei diritti spettanti al privato a seguito e per effetto dell’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa (cfr. T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 2 dicembre 2013, n. 10314), ma, dal lato opposto, dei diritti spettanti all’Ente pubblico quale socio della società (mista).
Pertanto, al Collegio non rimane che dichiarare, ai sensi degli artt. 9 e 11 c.p.a., che la domanda di P volta all’accertamento dell’impossibilità, per gli Enti locali resistenti, di esercitare i “diritti sociali” ex art. 24, comma 5, cit., è devoluta alla giurisdizione del G.O..
Esaurito l’esame dell’eccezione di difetto di giurisdizione e passando alle altre plurime eccezioni di rito, il Collegio ritiene di analizzare, anzitutto, quella di inammissibilità del gravame per carenza dei presupposti richiesti ai fini della proposizione del ricorso cumulativo.
Si eccepisce, al riguardo, da un lato che la scelta processuale della società ricorrente, di impugnare in forma cumulativa n. 5 deliberazioni di altrettanti Comuni, riferendo indistintamente le stesse censure a tutte le deliberazioni, disattenderebbe l’onere di allegazione di fatti e censure circostanziate rispetto ai contenuti dei singoli provvedimenti impugnati.
Per altro verso, si lamenta come uno dei motivi dedotti (il sesto) sia riferito ad uno solo dei Comuni intimati (Colle Umberto), ma contenuto in un atto processuale che li riguarda tutti.
Le suesposte argomentazioni non possono essere condivise.
In particolare, secondo la giurisprudenza più recente, il ricorso cumulativo è ammissibile quando fra gli atti impugnati sussista una connessione procedimentale, ovvero un rapporto di presupposizione giuridica o quantomeno di carattere logico, oppure in quanto i diversi atti incidano sulla medesima vicenda, ovvero sussista tra i provvedimenti uno stretto rapporto logico. In particolare, la cumulabilità delle impugnative impone che tra gli atti impugnati sia rintracciabile una ragione comune, cosicché, anche se appartengono a procedimenti diversi, sono fra loro ad ogni modo collegati in un rapporto di presupposizione o di consequenzialità, o comunque di connessione (C.d.S., Sez. IV, 3 maggio 2011, n. 2615;T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 20 ottobre 2017, n. 10528).
Altra giurisprudenza ha sottolineato che, per l’ammissibilità del ricorso cumulativo avverso distinti provvedimenti, è necessario che gli stessi siano riferibili al medesimo procedimento amministrativo, “seppur inteso nella sua più ampia latitudine semantica”, e che con il gravame siano dedotti vizi che colpiscano, nella medesima misura, i diversi atti impugnati, di guisa che la cognizione delle censure dedotte a fondamento del ricorso interessi allo stesso modo il complesso dell’attività provvedimentale contestata dal ricorrente, e che non residui, quindi, alcun margine di differenza nell’apprezzamento della legittimità dei singoli provvedimenti congiuntamente gravati (C.d.S., Sez. III, 21 aprile 2017, n. 1866;id., Sez. V, 30 marzo 2017, n. 1463;T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I, 9 novembre 2017, n. 5272).
Ebbene, alla stregua dei riferiti parametri giurisprudenziali, non pare dubbia la sussistenza, nel caso ora in esame, degli estremi per la proposizione del ricorso cumulativo.
Invero, da un lato tra gli atti impugnati da P esiste un’evidente connessione logico-giuridica, trattandosi delle deliberazioni dei Comuni soci di Asco Holding S.p.a. con le quali i predetti Comuni, nell’effettuare la ricognizione, ex art. 24, comma 1, del d.lgs. n. 175/2016, delle partecipazioni da ognuno di essi detenute, con particolare riferimento alla partecipazione nella ridetta “holding” hanno tutti ritenuto:
a) che la partecipazione in discorso non potesse essere mantenuta senza l’adozione di una “misura di razionalizzazione” ex art. 20 del d.lgs. n. 175 cit., essendo la società priva di dipendenti e, pertanto, versando essa nella situazione di cui alla lett. b) del comma 2 del citato art. 20;
b) che la “misura di razionalizzazione”, idonea a consentire il mantenimento della partecipazione e ad evitarne la dismissione, fosse la fusione di Asco Holding S.p.A. con Asco TLC S.p.A., mediante incorporazione della seconda nella prima.
È, dunque, corretto affermare che tra le varie deliberazioni impugnate sussiste una ragione comune, cosicché le stesse, pur se poste in essere da soggetti diversi e con procedimenti distinti, sono fra loro intimamente connesse.
D’altro lato, con il gravame sono stati dedotti – a parte il sesto motivo – vizi che colpiscono in ugual misura le deliberazioni impugnate, interessando la cognizione delle censure allo stesso modo l’intera attività provvedimentale contestata e non residuando, sempre con l’eccezione – apparente, come si dirà subito – del sesto motivo, differenze nell’apprezzamento dei singoli provvedimenti.
Da questo punto di vista, a confutazione delle argomentazioni dei Comuni va precisato che le censure di P sono sufficientemente circostanziate in relazione a tutte e ciascuna delle deliberazioni impugnate (ad opinare diversamente, del resto, dovrebbe negarsi la stessa ammissibilità in astratto del ricorso cumulativo).
Risulta, inoltre, irrilevante la proposizione, con il sesto motivo, di censure afferenti in via esclusiva alla deliberazione del Consiglio Comunale di Colle Umberto (n. 40 del 27 settembre 2017), poiché la ricorrente ha dichiarato, nei suoi successivi scritti difensivi, di rinunciare al rilievo di siffatto motivo, ove ritenuto preclusivo dell’ammissibilità del cumulo.
Al riguardo i Comuni resistenti obiettano, nella seconda memoria illustrativa per l’udienza di merito, che la dichiarazione di rinuncia di P a far valere il motivo sarebbe contraddittoria e comunque inammissibile: infatti, o la società accetta la valutazione giudiziale sul divieto di cumulo, ma allora deve attendere che il giudice adito si pronunci sull’eccezione senza rinunciare al motivo, o dichiara – come in effetti ha fatto – di rinunciare al motivo, ma allora i Comuni dichiarano a propria volta di non accettare detta rinuncia ed insistono nell’eccezione processuale de qua.
L’obiezione è, tuttavia, priva di pregio.
È, infatti, evidente che la “rinuncia” al motivo in parola formulata da P non può configurarsi quale atto rituale di rinuncia in parte qua al ricorso, non sussistendo tutti i requisiti formali prescritti dall’art. 84 c.p.a.;nondimeno, la predetta “rinuncia” costituisce – in modo del tutto analogo a quanto sopra visto in relazione alla domanda di accertamento della nullità e/o inefficacia degli atti di fusione nel frattempo posti in essere da Asco TLC S.p.A. e Asco Holding S.p.A. – atto da cui univocamente emerge la sopravvenuta carenza di interesse della ricorrente circa la decisione sul motivo stesso, con il corollario dell’improcedibilità in parte qua del ricorso.
Tale conclusione è, del resto, conforme alla disciplina dettata dal comma 4 dell’art. 84 c.p.a., a tenor del quale, anche in assenza delle formalità previste dai precedenti commi dell’art. 84 per la rinuncia rituale, il giudice può desumere dall’intervento di fatti o atti univoci dopo la proposizione del ricorso, nonché dal comportamento delle parti, argomenti di prova circa la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione della causa. E non par dubbio che la dichiarazione sopra riportata, contenuta negli scritti difensivi di P, costituisca “atto univoco” ai sensi e per gli effetti dell’art. 84, comma 4, c.p.a. (cfr., ex plurimis, T.A.R. Lazio, Latina, Sez. I, 15 ottobre 2012, n. 761;T.A.R. Piemonte, Sez. I, 16 giugno 2011, n. 640).
Si tratta, in altre parole, di una piana applicazione alla questione in esame del principio dispositivo, a cui è ispirato anche il processo amministrativo (cfr., ex multis, T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. II, 13 marzo 2017, n. 424).
In definitiva, nella vicenda all’esame il ricorso cumulativo proposto da P appare senz’altro ammissibile, considerate la riferita improcedibilità del sesto motivo e le connessioni procedimentali e funzionali poc’anzi delineate, tali da giustificare un unico giudizio: ed invero, l’uso di un simile strumento processuale risponde a concrete e ragionevoli esigenze di giustizia sostanziale, finalizzate a rendere effettiva la tutela giurisdizionale prevista dagli artt. 24 e 111 Cost., eliminando inutili formalismi, privi di concreta utilità e di per sé inidonei a giustificare una maggior gravosità degli oneri procedurali posti a carico di chi intende tutelarsi contro gli atti della P.A. ritenuti lesivi (cfr. C.d.S., Sez. IV, 1° settembre 2016, n. 3783;id., Sez. V, 16 giugno 2016, n. 2644).
Passando ora alle eccezioni di inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione e di interesse ad agire, a mezzo di esse i Comuni resistenti sottolineano:
- che le deliberazioni impugnate, recando la ricognizione delle partecipazioni esistenti e una proposta di misura di razionalizzazione volta al mantenimento delle partecipazioni, cioè la fusione, che dovrà essere votata dall’assemblea della “holding”, sarebbero atti non immediatamente lesivi, perché ogni determinazione concreta sarebbe rimandata ad atti successivi;
- che P non godrebbe di una posizione differenziata, poiché, nell’ipotesi di dismissione delle partecipazioni detenute dai Comuni, sarebbe necessario, per la dismissione stessa, attivare procedure di evidenza pubblica, L’eventuale accoglimento del ricorso, perciò, non recherebbe alcun vantaggio diretto alla deducente, dovendo le partecipazioni dismesse venire acquisite – si ripete – a mezzo delle procedure di evidenza pubblica (artt. 8, 9 e 10 del d.lgs. n. 175/2016).
- che un ulteriore motivo di inammissibilità del gravame sarebbe riconducibile all’acquiescenza che avrebbe prestato la ricorrente, sotto due profili:
a) per non avere essa mai contestato, né impugnato il piano di razionalizzazione adottato dai Comuni ex art. 1, comma 612, della l. n. 190/2014, di cui gli atti di ricognizione impugnati costituirebbero un mero aggiornamento;
b) perché l’oggetto sociale di Asco Holding S.p.A. non si limiterebbe alla distribuzione e fornitura del gas e ai servizi di telecomunicazione, ma comprenderebbe anche altri servizi di interesse generale, in specie i servizi di gestione dei tributi, delle risorse idriche, di gestione ambientale. Nei confronti di tali servizi, però, la ricorrente non solleverebbe censure, cosicché sarebbe contraddittoria la sua tesi che le partecipazioni dei Comuni nella “holding” debbano essere dismesse perché non funzionali al perseguimento delle finalità istituzionali dei medesimi Comuni.
Le suesposte argomentazioni dei Comuni resistenti, pur nella loro pregevolezza, non sono suscettibili di positivo apprezzamento.
In primo luogo, deve osservarsi che P, ad oggi titolare di una partecipazione non strategica, in quanto non le consente di esercitare poteri nella “holding”, vuole massimizzare nel suo interesse il proprio investimento, attraverso una duplice opzione alternativa: o con una fusione tra la “holding” ed Ascopiave S.p.A. (società quotata in borsa), che determinerebbe, oggettivamente, una maggiore valorizzazione nell’immediato del suo investimento (poiché la società quotata, con titoli scambiabili facilmente, è più “interessante” di Asco TLC S.p.A.), nonché una posizione di forza all’interno della quotata in borsa, mediante una fusione senza passare dal mercato borsistico;oppure, imponendo ai Comuni, sulla base dell’art. 24 del d.lgs. n. 175/2016, di alienare le loro quote, il che le consentirebbe di concorrere per l’acquisto di tali quote e, per tal via, di aumentare la propria partecipazione nella “holding”, al fine di rendere la partecipazione stessa strategica e non irrilevante, com’è attualmente, accrescendone il valore.
Si tratta di interessi prettamente privati, leciti e che, ad avviso del Collegio, valgono indubbiamente a configurare in capo all’odierna ricorrente una posizione differenziata e qualificata, giuridicamente rilevante e suscettibile di tutela.
Occorre a questo punto vedere se le deliberazioni impugnate sono in grado di incidere sull’ora vista posizione soggettiva, arrecandole in via immediata e diretta una lesione.
In proposito va osservato, anzitutto, che le deliberazioni impugnate, poiché prefigurano quale misura di razionalizzazione ex art. 20 del d.lgs. n. 175/2016 la fusione tra Asco Holding S.p.A. e Asco TLC S.p.A., sono necessariamente destinate ad avere un seguito nelle decisioni delle assemblee delle due società ora citate. Nondimeno, esse sono produttive di effetti esterni immediati, in quanto escludono da subito che le partecipazioni detenute dai Comuni resistenti nella “holding” rientrino tra quelle da dismettere ai sensi del succitato decreto legislativo (cd. Madia).
In altre parole, si è già rammentato che, ai sensi dell’art. 24, comma 1, del d.lgs. n. 175 cit., l’atto di ricognizione delle partecipazioni societarie detenute, che le P.A. erano tenute ad adottare entro il 30 settembre 2017, recava l’individuazione delle partecipazioni da alienare. Le deliberazioni impugnate escludono tutte che la partecipazione in Asco Holding S.p.A. sia tra quelle da alienare ed al contrario individuano una “misura di razionalizzazione” che dovrebbe – nelle intenzioni degli Enti deliberanti – consentire il mantenimento della partecipazione stessa. Dunque, esse frustrano immediatamente e da subito uno degli obiettivi di P più sopra ricordati, ostando definitivamente, quantomeno, alla dismissione delle partecipazioni comunali.
Né può replicarsi che alla dismissione non potrebbe far seguito l’acquisto delle quote dei soci pubblici da parte del socio privato, essendo l’alienazione delle quote subordinata all’evidenza pubblica: infatti, è evidente che sottrarre le partecipazioni alla dismissione già di per sé elide in radice la possibilità, per P, di acquisirle, in quanto le nega la “chance” di aggiudicarsele all’asta pubblica e, per tal via, di aumentare il suo peso nella compagine societaria, accrescendo il valore del suo investimento (con il renderlo strategico).
La rilevanza giuridica della “chance”, per P, di rendersi aggiudicataria delle quote dismesse (“chance” preclusa, si ripete, dalle deliberazioni impugnate) vale, poi, a superare le obiezioni basate sull’assenza di un diritto di prelazione per dette quote in capo al socio privato, o sulla mancanza, in capo alla deducente, dei requisiti per esercitarlo.
Ne consegue l’idoneità delle deliberazioni comunali impugnate ad incidere in via immediata e diretta sugli interessi patrimoniali del socio privato della “holding”.
Sotto distinto e concorrente profilo, deve, inoltre, negarsi che l’iniziativa giurisdizionale assunta da P si ponga in conflitto con l’interesse della società partecipata, o che l’interesse azionato sia contra legem, perché volto a sottrarla agli obblighi su di essa incombenti per l’adesione al contratto di società, o, ancora, che si tratti di interesse il quale potrebbe assumere rilievo giuridico unicamente nell’ambito di una controversia (civilistica) sulla validità degli atti “a valle”, adottati dalle assemblee delle due società (“holding” e partecipata) a seguito delle deliberazioni comunali.
Sul punto non pare per nulla peregrina – ed anzi va condivisa – l’osservazione di P di avere interesse a che la “holding”, di cui detiene una quota, operi in maniera legittima, in modo che non ne sia danneggiata l’esistenza: ed infatti, il socio ha interesse a che la società agisca legittimamente e l’ordinamento giuridico riconosce e accorda tutela a tale interesse, come dimostra l’art. 2377, secondo comma, c.c., a tenor del quale “le deliberazioni che non sono prese in conformità della legge o dello statuto possono essere impugnate dai soci assenti, dissenzienti od astenuti (….)”. Come affermato in giurisprudenza, nell’azione di annullamento di delibera di società di capitali o cooperativa, l’interesse ad agire si identifica con quello dei soci alla regolare e corretta gestione della società (cfr. Cass. civ., Sez. I, 30 maggio 2008, n. 14554).
Invero, negli scritti difensivi la deducente osserva – del tutto condivisibilmente – di far valere, quale socia di Asco Holding S.p.A., il suo interesse legittimo a che i soci pubblici, chiamati dal cd. decreto Madia a provvedere sulle loro partecipazioni nella “holding”, assumano determinazioni relative alla gestione di tali partecipazioni nel rispetto della legge: ed infatti, l’eventuale illegittimità degli atti di ricognizione ex art. 24 cit. costituisce di per sé un danno per il socio privato, così come per ogni altro socio, poiché finisce per ripercuotersi sul buon funzionamento della società e sul valore delle relative partecipazioni.
In definitiva, nel caso di specie viene fatto valere un interesse legittimo inteso non già come interesse alla correttezza dell’azione amministrativa (secondo una risalente impostazione dottrinale), ma come interesse alla correttezza e legittimità dell’operato della società di cui si detengono le quote, al fine del mantenimento e dell’aumento di valore delle quote stesse (bene della vita sostanziale, perseguito dalla ricorrente). E detto interesse viene inciso dalle deliberazioni gravate, nella misura in cui queste conducono inevitabilmente ad una decisione delle assemblee societarie (quella della fusione tra Asco Holding S.p.a. e Asco TLC S.p.A.) che sarebbe – nella prospettazione della deducente – contra legem, perché elusiva del dettato del d.lgs. n. 175/2016.
Anche per questa via, dunque, si conferma che gli atti di ricognizione adottati dai Comuni resistenti ai sensi dell’art. 24, comma 1, del cd. decreto Madia sono idonei ad incidere in via immediata e diretta sugli interessi di P, alla quale vanno, per conseguenza, riconosciuti sia la legittimazione, sia l’interesse a ricorrere.
Da ultimo, non può essere in alcun modo condivisa l’eccezione di inammissibilità per acquiescenza, atteso che:
a) la revisione delle partecipazioni prevista dall’art. 24, comma 1, del d.lgs. n. 175/2016 ha carattere straordinario – come recita la rubrica dello stesso art. 24 –, imponendo la legge, tra l’altro, una precisa scadenza temporale per l’alienazione delle partecipazioni di cui non è consentito il mantenimento (un anno dalla ricognizione di cui al citato comma 1): essa non integra, perciò, un mero aggiornamento del piano di razionalizzazione delle partecipazioni, che i Comuni erano tenuti ad approvare ai sensi dell’art. 1, comma 612, della l. n. 190/2014. Ne discende che chi non ha contestato i contenuti di detto piano, non per questo non è legittimato a dolersi di eventuali illegittimità della revisione straordinaria ex art. 24, comma 1, cit.;
b) le deliberazioni impugnate fanno riferimento ai servizi di distribuzione e fornitura del gas, nonché ai servizi di comunicazione, sicché, stante il carattere demolitorio-impugnatorio dell’azione proposta, è evidente che la ricorrente, dovendo cercare di individuare vizi dei provvedimenti impugnati, aveva l’onere di circoscrivere le proprie censure a detti servizi, senza possibilità di estenderle ad altri servizi, non menzionati dai provvedimenti stessi.
Donde, in definitiva, l’ammissibilità del ricorso, essendo infondate e da respingere tutte le eccezioni sollevate al riguardo dai Comuni resistenti.
Venendo adesso al merito del gravame, osserva il Collegio che lo stesso è fondato e da accogliere nei termini che di seguito si vanno ad esporre.
In particolare, è fondato il terzo motivo di ricorso, attraverso il quale si lamenta l’illegittimità delle deliberazioni comunali impugnate, per avere queste ritenuto tutte che le partecipazioni dei Comuni in Asco Holding S.p.A. fossero coerenti con il perseguimento delle finalità istituzionali dei Comuni medesimi e che le attività svolte dalle società controllate dalla predetta “holding” (Ascopiave S.p.A. e Asco TLC S.p.A.) consistessero in servizi di interesse generale, ai sensi degli artt. 2, comma 1, lett. h), e 4, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 175/2016, nonostante il carattere estremamente frammentato di tali partecipazioni e la mancanza di convenzioni, patti parasociali o di sindacato idonei a garantire il controllo congiunto dei soci pubblici sulla “holding”.
Invero, la possibilità o meno di configurare le attività svolte dalla società partecipata quali “servizi di interesse generale” – che, in base all’art. 4, comma 2, lett. e), cit., consentono ai Comuni soci di non dismettere le quote – anche in presenza di una partecipazione fortemente minoritaria dell’Ente locale al capitale sociale, è questione pregiudiziale rispetto alle altre: ove, infatti, ad essa sia data soluzione negativa, ci si troverà comunque al di fuori dei casi in cui l’art. 4 del d.lgs. n. 175/2016 consente alle Amministrazioni di mantenere le partecipazioni detenute.
Orbene, la suddetta questione è stata affrontata e risolta dalla Corte dei conti della Lombardia – Sez. controllo con delibera n. 398 del 21 dicembre 2016: questa, dopo aver premesso che l’individuazione di un servizio pubblico svolto a fini di interesse generale secondo le previsioni dell’art. 2, comma 1, lett. h), del d.lgs. n. 175 cit., rileva, alla luce della ricognizione da operarsi ai sensi del successivo art. 24, in ordine alla possibilità del mantenimento o meno della relativa partecipazione societaria, precisa che, qualora siffatta partecipazione sia minoritaria (stante anche l’assenza di altri soci pubblici), il servizio espletato non soddisfa tale qualificazione, non potendo esserne garantita la fruibilità secondo le modalità richieste dal cd. decreto Madia.
Per pervenire alla conclusione ora esposta – che il Collegio condivide – la Corte dei conti muove dal presupposto dell’intangibilità del ruolo centrale dell’Ente locale quale interprete primario dei bisogni della collettività locale, riconosciuto anche a livello costituzionale: siffatto ruolo non viene messo in discussione dall’assenza di un organico quadro legislativo che individui le funzioni comunali perché, semmai, il Legislatore può solo specificare quali siano gli ambiti che non rientrano nella competenza comunale. Tuttavia – aggiunge la delibera – l’Ente che non ha fini di lucro non può svolgere attività di impresa, e la possibilità quindi, di costituire società, o è prevista espressamente dalla legge, oppure può essere consentita per lo svolgimento di servizi generali (si tratti di servizi pubblici economici o non).
La disciplina legislativa succedutasi negli ultimi anni ha come cifra costante quella dell’eliminazione dall’azione degli Enti locali delle attività economiche per interessi estranei alle finalità istituzionali dell’Ente, o per fini esclusivamente commerciali.
Spetta, pertanto, al singolo Ente valutare quali siano le necessità della comunità locale e, nell’ambito delle compatibilità finanziarie e gestionali, avviare le “politiche” necessarie per soddisfarle.
Ciò premesso, la Corte dei conti concentra l’attenzione sulla nozione di servizio di interesse generale contenuta nell’art. 2, comma 1, lett. h, del d.lgs. n. 175/2016.
In base a tale disposizione, per “servizi di interesse generale” si intendono “le attività di produzione e fornitura di beni o servizi che non sarebbero svolte dal mercato senza un intervento pubblico o sarebbero svolte a condizioni differenti in termini di accessibilità fisica ed economica, continuità, non discriminazione, qualità e sicurezza, che le amministrazioni pubbliche, nell’ambito delle rispettive competenze, assumono come necessarie per assicurare la soddisfazione dei bisogni della collettività di riferimento, così da garantire l’omogeneità dello sviluppo e la coesione sociale, ivi inclusi i servizi di interesse economico generale”.
Alla luce di siffatta definizione, il servizio può essere svolto dall’Ente locale se l’intervento dell’Ente stesso sia necessario per garantire l’erogazione del servizio, alle condizioni stabilite nella disposizione in questione, ossia nell’ipotesi in cui, senza l’intervento pubblico, sarebbero differenti le condizioni di accessibilità fisica ed economica, continuità, non discriminazione, qualità e sicurezza del servizio stesso.
La Corte osserva che, però, ove la partecipazione dell’Ente sia minoritaria (ed in assenza di altri soci pubblici, che consentano il controllo della società), il servizio espletato non è da ritenere “servizio di interesse generale” poiché, a prescindere da ogni altra considerazione relativa alle finalità istituzionali dell’Ente, l’intervento pubblico, stante la partecipazione minoritaria, non può garantire l’accesso al servizio, come declinato nel cd. decreto Madia: l’accesso al servizio non sarebbe svolto dal mercato, oppure sarebbe svolto a condizioni differenti in termini di accessibilità fisica ed economica, continuità e non discriminazione.
In definitiva, una partecipazione poco significativa non sarebbe in grado di determinare le condizioni di accesso al servizio, che potrebbero legittimare il mantenimento della quota.
Il Collegio condivide le suesposte argomentazioni della Sez. controllo della Corte dei conti e reputa che le stesse debbano estendersi anche alla fattispecie ora all’esame, stante l’evidente somiglianza tra il caso dell’unico socio pubblico titolare di una partecipazione minoritaria, analizzato dalla Corte dei conti, e quello dei Comuni resistenti, titolari ciascuno di una partecipazione “pulviscolare” al capitale sociale di Asco Holding S.p.A.: ciò, atteso che le ridette partecipazioni “pulviscolari” non consentono di per sé ai singoli soci pubblici di influire sulle decisioni strategiche della società e, tantomeno, sulle decisioni attinenti alle modalità di accesso ai servizi e di erogazione di questi.
È, quindi, totalmente erroneo sostenere che, affinché sia garantita la “stretta necessità” dell’attività per le finalità istituzionali delle P.A., ex art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 175/2016, non vi sarebbe alcuna necessità di un controllo dei Comuni sull’attività della società: controllo che non sarebbe richiesto da nessuna disposizione di legge e, in particolare, non sarebbe richiesto dall’art. 2, comma 1, lett. h), del succitato decreto legislativo.
Sul punto, infatti, la giurisprudenza (C.d.S., Sez. V, 11 novembre 2016, n. 4688) ha evidenziato che il rapporto di strumentalità di un ente societario, formalmente privatistico e naturalmente operante nel mercato, rispetto ai fini di interesse pubblico devoluti alla cura dell’Amministrazione partecipante non dipende dal solo oggetto sociale, ma anche dalle modalità con cui quest’ultima può esercitare le proprie prerogative di azionista ed indirizzarne e coordinarne l’attività. In altri termini, per un’autorità amministrativa ha rilievo non solo “se” una società di diritto privato esercita un’attività economica e se, pertanto, è opportuno partecipare al suo capitale, ma anche “come” questa attività viene svolta, e, dunque, quale influenza sulla stessa è possibile esercitare, per assicurarne la coerenza con finalità di interesse pubblico.
La pronuncia in commento (espressasi in riferimento all’obbligo di dismissione delle partecipazioni delle P.A. in società aventi per oggetto l’attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, introdotto dall’art. 3, comma 27, della l. n. 244/2007), ha messo l’accento sull’importanza, per questo verso, dell’entità concreta della partecipazione, nell’ottica della capacità dell’Ente pubblico di assicurarsi un’incidenza determinante sul governo della società partecipata. Occorre, in particolare, verificare se questa partecipazione sia tale da consentire all’Ente di governare verso le succitate finalità istituzionali la società partecipata o meglio la sua attività: laddove questo governo non sia possibile, la partecipazione dell’Ente pubblico assume nei fatti le caratteristiche di un semplice sostegno finanziario ad un’attività di impresa, che si realizza tramite la sottoscrizione di parte del capitale, ma che non si accompagna alla possibilità di indirizzarla verso finalità di interesse pubblico.
Escluso, quindi, che i singoli Comuni soci possano in qualche modo influire sulla vita della “holding” partecipata, visto il carattere polverizzato delle loro partecipazioni, non risulta in alcun modo allegata o documentata neppure la sussistenza di elementi tali da garantire un controllo congiunto dei Comuni sulla ridetta società, sì da indirizzarne – in forma stavolta collettiva – l’azione verso il conseguimento delle finalità istituzionali degli stessi Enti locali. Nella documentazione in atti non vi è cenno, infatti, alla sussistenza di patti parasociali, di sindacato, o di previsioni statutarie, che, mediante il predetto controllo congiunto, possano supplire all’impossibilità, per i Comuni, di controllare singulatim vita e attività della “holding”.
A quest’ultimo riguardo, si ricorda che, per il caso del cd. in house frazionato (in cui vi è una società che si pone come “in house” rispetto a più Enti pubblici soci) – diverso, ma con talune somiglianze rispetto alla vicenda ora in esame –, la giurisprudenza ha elaborato taluni indici, che consentivano di parlare di “controllo analogo” anche da parte dei Comuni titolari di una partecipazione polverizzata al capitale della società “in house”.
In particolare, i suddetti indici sono stati ravvisati (cfr. C.d.S., Sez. V, 24 settembre 2010, n. 7092;T.A.R. Lombardia, Sez. III, 10 dicembre 2008, n. 5758, confermata dalla precedente;T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 16 ottobre 2007, n. 9988):
- nell’esistenza di un convenzione tra gli Enti locali partecipanti al capitale della società “in house”, stipulata ai sensi dell’art. 30 del d.lgs. n. 267/2000, recante la costituzione di un organismo comune formato dai Sindaci dei Comuni affiliati, con paritario diritto di voto indipendentemente dall’entità della partecipazione societaria, che definiva gli indirizzi operativi sui servizi affidati, vincolanti per il consiglio d’amministrazione della citata società, ed esercitava il controllo di efficacia complessiva dei servizi affidati all’organismo societario;
- nell’attribuzione a ciascun Comune socio, in base allo statuto della società, di poteri propulsivi nei riguardi del consiglio d’amministrazione (c.d.a.) di quest’ultima, consistenti in proposte di specifiche iniziative inerenti all’esecuzione dei singoli contratti di servizio, e di poteri di veto sulle deliberazioni del c.d.a. riguardanti l’attuazione del contratto di servizio;
- nella previsione, sempre in base allo statuto, di un modello societario caratterizzato da un aumento dei poteri decisori dell’assemblea sociale rispetto al c.d.a., divergente dal modello ordinario, con attribuzione alla prima del potere di formulare indirizzi vincolanti in ordine al piano industriale – con previsione di una maggioranza qualificata basata anche sul numero dei Comuni soci – e agli atti più significativi relativi all’erogazione dei servizi, quale la predisposizione della carta dei servizi e degli schemi generali dei contratti di servizio.
Certo, si tratta di vedere se simili schemi convenzionali e modelli statutari possano essere applicati anche al caso ora in esame della società mista, con i necessari accorgimenti dovuti alla presenza dei soci privati. Del resto, la pronuncia del Consiglio di Stato poc’anzi rammentata (C.d.S., Sez. V, n. 4688/2016, cit.), ai fini della verifica della possibilità, per i Comuni soci, di indirizzare verso finalità istituzionali l’attività della società partecipata, ha posto l’accento, oltre che sulla già ricordata entità della partecipazione, sulla previsione di speciali diritti del socio pubblico, o riserve di amministratore, ovvero su particolari rapporti contrattuali tra la società e l’Amministrazione Pubblica partecipante, “sulla base di caratterizzazioni esterne di matrice pubblicistica e derogatorie degli ordinari dispositivi di funzionamento propri del modello societario definito dal Codice civile”.
Ove, peraltro, si ritengano impossibili simili adattamenti/accorgimenti/previsioni, restano comunque aperte le altre strade, di matrice più prettamente civilistica, già elencate (patti parasociali, di sindacato, ecc.), finalizzate anch’esse a quel controllo congiunto da parte degli Enti locali soci, necessario a far rientrare la fattispecie nelle strette maglie degli artt. 2 e 4 del d.lgs. n. 175/2016. Né a ciò osterebbe l’eventuale temporaneità di dette pattuizioni, atteso che l’art. 20 del decreto legislativo (non a caso rubricato “razionalizzazione periodica delle partecipazioni pubbliche”) impone – in disparte quanto previsto dal successivo art. 24, comma 1 – che le P.A. provvedano annualmente ad eseguire un’analisi dell’assetto complessivo delle società di cui detengono partecipazioni, predisponendo, ove ricorrano i presupposti di cui al comma 2 dello stesso art. 20, un piano di riassetto per la loro razionalizzazione, fusione o soppressione, anche mediante messa in liquidazione o cessione.
La fondatezza, per quanto suesposto, del terzo motivo di gravame comporta la fondatezza, altresì, del secondo motivo, in considerazione dell’inadeguatezza delle motivazioni addotte dalle deliberazioni comunali impugnate a supporto dell’operazione di ricognizione delle partecipazioni da esse compiuta ai sensi dell’art. 24, comma 1, del d.lgs. n. 175/2016. Comporta, altresì, l’assorbimento del quarto motivo, mentre per il sesto motivo vale quanto sopra osservato circa la “rinunzia” di parte ricorrente a farlo valere, ove ritenuto preclusivo del cumulo, da intendersi nel senso dell’improcedibilità in parte qua del ricorso, per sopravvenuta carenza di interesse alla decisione sul motivo.
Per quanto riguarda, infine, il primo ed il quinto motivo, osserva il Collegio che l’art. 4, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 175 cit., nel consentire il mantenimento delle partecipazioni pubbliche in società “esclusivamente” per lo svolgimento di servizi di interesse generale, sembra confermare la fondatezza delle censure ivi dedotte: infatti, la società può sopravvivere nella sua attuale compagine societaria – cioè con le partecipazioni dei Comuni resistenti – a patto che svolga tutti e solo servizi di interesse generale (in questo senso dovendo intendersi, per il Collegio, l’avverbio “esclusivamente”). Mentre, però, l’attività di distribuzione del gas può ben farsi rientrare tra i “servizi di interesse generale”, non altrettanto può dirsi né per l’attività di vendita del gas, né per i servizi di telecomunicazioni svolti da Asco TLC S.p.A., aventi carattere puramente commerciale, venendo così a difettare, nel caso de quo, il requisito della “esclusività” di cui al citato art. 4, comma 2 del cd. decreto Madia.
In definitiva, perciò, il ricorso è fondato e da accogliere nella sua parte impugnatoria, per le ragioni sopra esposte.
Per conseguenza, va pronunciato l’annullamento degli atti impugnati e cioè delle deliberazioni dei Consigli Comunali elencate in epigrafe, nelle parti concernenti la partecipazione dei Comuni intimati in Asco Holding S.p.A., con restituzione degli atti ai Comuni stessi per le determinazioni conseguenti, da adottarsi in base all’effetto conformativo derivante dalla presente decisione, secondo i principi di diritto desumibili dalla medesima (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. VI, 20 giugno 2013, n. 640;T.A.R. Veneto, Sez. I, 9 febbraio 2018, n. 145;id., 27 settembre 2017, n. 861;T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 8 aprile 2015, n. 5145).
Ed invero, l’accoglimento del ricorso, con il conseguente annullamento delle deliberazioni gravate nelle parti recanti disposizioni circa la partecipazione dei Comuni soci in Asco Holding S.p.A., non comporta l’automatica dismissione delle partecipazioni dei Comuni: in capo a questi resta il potere discrezionale di rideterminarsi, in sede di revisione straordinaria ex art. 24 cit., e, così, di scegliere tra le varie opzioni possibili, assumendo a riferimento l’interesse dell’Ente locale e – come detto – i principi desumibili dal cd. effetto conformativo della presente decisione. Non si rinviene, infatti, nel d.lgs. n. 175/2016 alcuna disposizione che vieti la riedizione del potere di ricognizione straordinaria ex art. 24 cit. oltre il termine del 30 settembre 2017, ove resasi necessaria a seguito di annullamento giurisdizionale del precedente atto di ricognizione: ciò, atteso che il termine ultimo della complessa fattispecie procedimentale indicata dall’art. 24 del decreto legislativo sembra, piuttosto, quello per l’alienazione delle partecipazioni di cui al comma 4 del ridetto art. 24.
Sussistono, comunque, giusti motivi per disporre l’integrale compensazione delle spese tra le parti, in ragione della novità e della complessità delle questioni trattate.