TAR Roma, sez. II, sentenza 2017-02-27, n. 201702882

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Roma, sez. II, sentenza 2017-02-27, n. 201702882
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Roma
Numero : 201702882
Data del deposito : 27 febbraio 2017
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 27/02/2017

N. 02882/2017 REG.PROV.COLL.

N. 09236/2003 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9236 del 2003, proposto da:
RAI – Radiotelevisione Italiana s.p.a., quale successore universale di RAI SAT s.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall'avvocato M L, con domicilio eletto presso lo studio del difensore, in Roma, Lungotevere Raffaello Sanzio, 9;

contro

Ministero dell'Economia e delle Finanze, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso ope legis dall'Avvocatura generale dello Stato, con domicilio ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

nei confronti di

Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio in Roma, via dei Portoghesi 12;

per l'annullamento

del decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze 26 giugno 2003, recante “Misura e modalità del contributo dovuto all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni per l’anno 2003”, pubblicato in G.U. Serie generale, n. 149 del 30 giugno 2003, nella parte in cui assoggetta la ricorrente al contributo di cui al combinato disposto dell’art. 6, comma 2, lett. b) della l. 31 luglio 1997, n. 249 e 38, lett. b) e commi successivi della l. 14 novembre 1995, n. 481, con la conseguente condanna della Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni alla restituzione di qualsiasi somma nelle more eventualmente versata dalla ricorrente in osservanza dell’illegittimo obbligo imposto dal decreto impugnato, oltre interessi e rivalutazione.


Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio delle amministrazioni intimate;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla pubblica udienza del giorno 8 febbraio 2017 il Cons. Silvia Martino;

Uditi gli avvocati, di cui al verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:


FATTO e DIRITTO

1. Parte ricorrente espone che la legge 31 luglio 1997, n. 249, ha istituito l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, con compiti di regolazione nel settore delle telecomunicazioni e della radiodiffusione.

Per la copertura degli oneri derivanti dall’applicazione di tale legge è previsto che si provveda, in parte, utilizzando le risorse già destinate al funzionamento dell’Ufficio del Garante per la radiodiffusione e l’editoria, e, in parte, “con le modalità di cui all’art. 2, comma 38, lett. b) e commi successivi della legge 14 novembre1995, n. 481”.

La l. n. 481 del 1995 istituisce le Autorità per i servizi di pubblica utilità, “competenti, rispettivamente, per l’energia elettrica e il gas e per le telecomunicazioni” (art. 2, comma 1) e introduce, per la copertura dell’onere derivante dall’istituzione e dal finanziamento di tali Autorità, un contributo “di importo non superiore all’uno per mille dei ricavi dell’ultimo esercizio, versato dai soggetti esercenti il servizio stesso”.

Tale contributo deve essere versato annualmente, a decorrere dal 1996, entro il 31 luglio, “nella misura e secondo le modalità stabilite con decreto del Ministro delle Finanze emanato di concerto con il Ministro del Tesoro, entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore” della legge stessa (art. 2, comma 38, lett. b).

Secondo parte ricorrente la legge avrebbe chiaramente previsto che tenuti al contributo siano solo i soggetti esercenti un “servizio di pubblica utilità” mentre al decreto ministeriale è rimesso unicamente la determinazione della misura e delle modalità del contributo.

In pretesa attuazione di queste previsioni normative, il Ministro delle Finanze (poi dell’Economia e delle Finanze) ha emanato il decreto 16 luglio 1999, il decreto 12 luglio 2000, il decreto 4 luglio 2001 e il decreto 17 maggio 2002, volti a stabilire, per ogni anno, la misura e le modalità di versamento del contributo.

Tutti e quattro questi decreto ministeriali avrebbero debordato dall’ambito di loro competenza, in quanto recavano disposizioni volte anche all’individuazione dei soggetti tenuti al pagamento.

Contro il decreto del 17 maggio 2002, la ricorrente ha proposto il ricorso iscritto al n. 8639/2002.

In data 26 giugno 2003, il Ministro dell’Economia e delle Finanze ha adottato un nuovo decreto il quale, pur non individuando espressamente i destinatari, come accaduto in passato, rinvia a quanto prescritto dal decreto in data 17 maggio 2002, il quale include, tra gli enti soggetti al contributo:

“a) fornitori di servizi pubblici di telecomunicazione e/o di reti pubbliche di telecomunicazione;

b) emittenti televisive: b.1) su frequenze terrestri;
b.2) via cavo e satellite;

c) emittenti radio, anche via cavo e satellite;

d) editori: d.1) giornali quotidiani;
d.2) periodici e riviste;
d.3) agenzie di stampa a carattere nazionale;
d.4) editoria elettronica e digitale;

e) concessionarie di pubblicità: e.1) da trasmettere mediante impianti radiofonici o televisivi;

e.2) da diffondere su giornali quotidiani o periodici;
e.3) da trasmettere per via telematica;

f) fornitori di servizi e prodotti di comunicazione telematici, interattivi e multimediali: f.1) fornitori di servizi di accesso;
f.2) fornitori di servizi d'informazione;
f.3) produttori e distributori di servizi e prodotti interattivi e multimediali;

g) produttori e distributori di programmi radiotelevisivi”.

La società ricorrente, in astratto, rientrerebbe tra i soggetti tenuti al versamento del contributo.

Ritenendolo pregiudizievole, con il presente ricorso, deduce:

1) VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 6,

COMMI

1, LETT. B) E 2 L. 31

LUGLIO

1997, N. 249, 2,

COMMI

38 LETT. B) E 39 L. 14

NOVEMBRE

1995, N. 481.

Parte ricorrente rappresenta che il proprio oggetto sociale, quale risulta dallo Statuto, riguarda, tra l’altro, “la realizzazione di canali televisivi e audio tematici, di eventi, di prodotti multimediali on – line anche mediante acquisizione da terzi di servizi produttivi e diritti su prodotti audiovisivi …e loro sistemazione in palinsesti – al fine di costituire un’offerta rivolta al mercato della distribuzione gratuita e quella a pagamento”.

In considerazione dell’estrema latitudine del decreto impugnato, anche la ricorrente appare soggetta al contributo. Tale previsione, però, non avrebbe alcun fondamento legislativo, poiché la norma di rinvio, ovvero l’art. 2, comma 38, lett. b) e commi successivi della l. n. 481 del 1995, individua, quale destinatari immediati della funzione di controllo affidata alle Autorità di regolazione, gli “esercenti” dei servizi di pubblica utilità che operano ni settori di rispettiva competenza.

Nel dominio della comunicazione, a norma dell’art. 1, comma 1, della l. n. 223 del 1990, il carattere di servizio di pubblica utilità attiene unicamente alla “diffusione di programmi radiofonici o televisivi”. Nessun servizio di pubblica utilità è esercitato, invece, da soggetti che non sono titolari di concessione alla radiodiffusione ovvero di autorizzazione all’installazione e all’esercizio di impianti ripetitori. Il mero fatto di svolgere (in regime di libertà e non di concessione o di autorizzazione), un’attività economica nel mondo della comunicazione, non sarebbe quindi sufficiente perché si venga sottoposti al medesimo trattamento che viene praticato nei confronti dei titolari di concessione o di autorizzazione.

Parte ricorrente soggiunge che nemmeno si potrebbe obiettare che essa fruisce di alcuni servizi resi dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni.

Vero è, infatti, che è iscritta nel registro deli operatori di comunicazione, tenuto dalla medesima Autorità, alla stregua di quanto previsto dall’art. 1, comma 6, lett. a) n. 5 della l. n. 249 del 1997 e della delibera n. 236/01/CONS.

Tuttavia, a tale specifico fine, è prevista, dall’art. 6, comma 2, della l. n. 249 del 1997, la possibilità di istituire un “corrispettivo” che è cosa diversa dal contributo di cui al comma 1.

La legge in particolare impone al Ministro di parametrare il corrispettivo ai costi effettivi, il che induce a ritenere che la tenuta del registro sia attività dotata di una sua autonomia.

Secondo la prospettazione di parte ricorrente, non basta pertanto essere un “operatore della comunicazione” per essere soggetti al contributo di cui all’art. 6, comma 1, della l. n. 249 del 1997, ma occorre essere anche l’esercente di un servizio di pubblica utilità.

2. IN SUBORDINE. ECCESSO DI POTERE PER ERRONEITÀ DEI PRESUPPOSTI E DISPARITÀ DI TRATTAMENTO.

Invero, quand’anche l’art. 6, comma 1, lett. b) della l. n. 249 del 1997, avesse concesso al Ministro il potere di identificare i soggetti tenuti al contributo ivi previsto, detto potere avrebbe comunque dovuto essere esercitato in modo ragionevole e non arbitrario.

I costi di funzionamento di AGCOM, eccezione fatta per la tenuta del ROC, non possono essere imputati a soggetti che non esercitano servizi di pubblica utilità.

La ricorrente, in sostanza, viene equiparata a soggetti che svolgono attività totalmente incomparabili.

3. IN ULTERIORE SUBORDINE. ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DELL’ART. 6,

COMMA

1, LETT. B) DELLA L. 31

LUGLIO

1997, N. 249, PER VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 3 E 23 DELLA COSTITUZIONE.

E’ noto che la riserva di legge di cui all’art. 23 Cost. viene interpretata nel senso che, sebbene sia concesso ad atti normativi secondari e ad altri atti della pubblica amministrazione, disciplinare la materia delle prestazioni personali o patrimoniali, la legge deve delimitare il campo della discrezionalità amministrativa.

Nel caso che occupa, se davvero l’art. 6, comma 1, della l. n. 249 del 1997, consentisse all’amministrazione di individuare i destinatari dell’obbligo di contribuzione, ne risulterebbe alla stessa affidato un potere totalmente arbitrario, risultandone violato, nel contempo, anche l’art. 3 Cost., per irragionevolezza della disposizione legislativa.

In data 26.6.2015, con decreto n. 7930, il ricorso veniva dichiarato perento.

Tuttavia, in data 30.6.2016, con decreto di revoca n. 3542, veniva rimesso sul ruolo ordinario, ai sensi dell’art. 1, comma 2, dell’allegato 3 al d.lgs. 2 luglio 2010 n. 104.

In vista della pubblica udienza dell’8 febbraio 2017, le parti hanno depositato memorie conclusionali.

Parte ricorrente, pur consapevole che, con sentenza n. 3808 della VI^ Sezione del Consiglio di Stato, è stato ritenuto “giustificato l’assoggettamento al contributo in questione di società esercenti attività analoghe”, ritiene che, ai fini della definizione della controversia in esame, sia di decisivo rilievo una recente sentenza della Corte di Giustizia UE (sez. II, 28 luglio 2016, in causa C-240/15, Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni) con la quale è stato affermato, tra l’altro, in relazione all’art. 12 della direttiva “autorizzazioni” per le reti e i servizi di comunicazione elettronica, 2002/20/CE, che “i diritti amministrativi che gli Stati membri possono imporre, in forza di tale articolo alle imprese che prestano servizi o reti ai sensi dell’autorizzazione generale o che hanno ricevuto una concessione dei diritti di uso, al fine di finanziare le attività dell’ANR, devono essere destinati a coprire i soli costi amministrativi relativi alle attività menzionate all’art. 12, paragrafo 1, lett. a) di tale direttiva. Essi non possono quindi essere destinati a coprire spese relative a compiti diversi da quelli elencati da tale disposizione e segnatamente non i costi amministrativi di qualsiasi natura sopportati dall’ANR (vedi in tal senso, sentenza del 18 luglio 2013, Vodafone Omnitel e a., da C-228/12 a C-/232/12 e da C-254/12 a C-258/12, EU:C:2013:495, punto da 38 a 40 e 42)”.

La Corte ha osservato, altresì, che dall’art. 12, par. 2, della direttiva autorizzazioni, letto alla luce del considerando 30 della medesima, risulta che i diritti in parola devono coprire i costi amministrativi effettivi risultanti dalle attività citate al paragrafo 1, lett. a) di tale articolo e che vi debba essere equilibrio con tali costi.

Il gettito complessivo dei diritti percepito non può quindi eccedere il totale dei costi relativi a tale attività.

L’interpretazione del diritto comunitario offerta dalla Corte di Giustizia porterebbe a concludere che, come originariamente sostenuto dalla ricorrente, solo soggetti che prestano servizi radiotelevisivi in forza di autorizzazione o concessione possono essere assoggettati al contributo e che, comunque, i soggetti obbligati non possono essere tenuti a coprire qualunque onere sostenuto dall’Autorità Nazionale di Regolazione.

Ad ogni buon conto, la società chiede che venga rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la compatibilità della disciplina nazionale con l’art. 12 della Dir. 7 marzo 2002, n. 2002/20/CE.

Insiste, comunque, per la rimessione di costituzionalità già prospetta in sede di ricorso.

La difesa erariale, dal canto suo, ha rappresentato quanto segue.

In primo luogo ha ricordato che le disposizioni evocate nel ricorso delineavano l’originario sistema di finanziamento di AGCOM, peraltro, in maniera analogo all’attuale, racchiuso nell’art. 1, commi 65 e 66 della l. n. 266/2005.

Ha poi argomentato che il rinvio operato dal legislatore del 1997 alle modalità stabilite in via generale dalla legge del 1995 deve essere letto nella prospettiva, derivante dall’istituzione dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, di porre l’onere per il funzionamento del nuovo organismo a carico di tutti i soggetti interessati allo svolgimento della sua azione, tra cui certamente rientravano anche le ricorrenti iscritte al ROC ed operatori di comunicazione nel senso ampio indicato dalle norme in questione.

In sostanza, le società collegate, nelle varie forme possibili, alla società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo, partecipano alla fornitura di tale servizio.

In tal senso si è espresso il Consiglio di Stato con la sentenza n. 3808 del 15 giugno 2009, in una vicenda del tutto analoga a quella in esame.

Al contrario, le pronunce richiamate dalla ricorrente nella memoria conclusionale attengono alle autorizzazioni rilasciate ai sensi del d.lgs. n. 259/2003, Codice delle comunicazioni elettroniche, ovvero riguardano “i contribuenti” della medesima Autorità appartenenti ad un diverso mercato di competenza della medesima.

Rimangono pertanto ferme le conclusioni cui è giunto il Consiglio di Stato secondo cui l’interpretazione letterale della legge “non si mostra capace di cogliere nella sua pienezza e complessità il significato del servizio pubblico radiotelevisivo, che non potrebbe essere astretto alla mera attività di trasmissione dei programmi radiotelevisivi, dovendo invece necessariamente ricomprendere l’attività dei soggetti produttori dei programmi televisivi, nonché le società concessionarie di pubblicità, soggetti tutti che contribuiscono in modo insostituibile al servizio radiotelevisivo, rendendone concreta e possibile l’operatività (vuoi fornendo i contenuti all’attività di diffusione in concreto dei programmi, vuoi assicurandone una delle principale fonti di remunerazione: cfr. al proposito, Corte Cost., 26 giugno 2002, n. 284)”

Pertanto, in tale prospettiva, “il riferimento legislativo ai soggetti esercenti il servizio, quali soggetti obbligati al versamento del contributo, non potrebbe leggersi ed interpretarsi, come sostiene l’appellante, nel prospettato senso restrittivo, che consente di individuare i soli soggetti titolari delle concessioni di emittenza, ma deve piuttosto risultare coerente con una nozione di tipo funzionale del servizio radiotelevisivo, che valga a ricomprendere tutti i soggetti che ne assicurano, sia pure in via strumentale, l’effettivo espletamento.

Una conferma in tal senso viene d’altra parte dal rilievo fattuale secondo cui l’attività disimpegnata dalla odierna ricorrente era, in epoca più remota, direttamente ascrivibile alla RAI, e cioè allo stesso soggetto concessionario del servizio pubblico di radiotelevisione. Di tal che, solo per effetto della progressiva disgregazione in autonome società ( pur sempre collegate e facenti parte del gruppo RAI, cui contribuiscono anche nei dati del bilancio consolidato di gruppo) viene oggi a porsi la questione della esatta individuazione dei soggetti obbligati a versare il prescritto contributo in favore della Autorità per le garanzie nelle comunicazioni: non potendosi tuttavia dubitare che tali distinti soggetti, nati per gemmazione dal concessionario del servizio pubblico radiotelevisivo, svolgono attività funzionali e teleologicamente orientate all’espletamento del predetto servizio, sottoposto per legge all’attività di regolazione e controllo della predetta Autorità.”.

Il Consiglio di Stato prosegue rilevando che “Peraltro, come correttamente rilevato dai primi giudici, nella convenzione a suo tempo stipulata (e trasfusa nel dPR 28 marzo 1994) tra la RAI ed il Ministero delle Poste si dava espressa facoltà alla prima, di svolgere, anche attraverso società collegate, attività commerciali ed editoriali che fossero funzionali alla equilibrata gestione aziendale, senza pregiudizio per il servizio pubblico. Un argomento ulteriore a riprova del nesso funzionale sussistente tra le attività commerciali accessorie e quella di emittenza radiotelevisiva e della avvertita necessità, da parte della Amministrazione concedente, di consentire dette attività, in ragione del loro carattere servente e necessitato rispetto a quella principale”.

Relativamente alla specifica tematica dell’iscrizione al ROC, il Consiglio di Stato ha osservato che “la circostanza che la società appellante sia tenuta ad iscriversi nel predetto registro degli operatori delle comunicazioni previsto dal citato art. 6 comma 2 della l. 31 luglio 1997 n. 249 è la riprova di come la stessa sia un soggetto che opera sul mercato delle comunicazioni, sia pure ai fini della erogazione di servizi strumentali all’attività di emittenza. In secondo luogo, la circostanza inerente la prevista facoltà per l’Autorità di istituire un corrispettivo a parte per il servizio di tenuta del registro ( oltre che per gli altri servizi resi in base a disposizioni di legge) non è indice sintomatico da cui desumere la non debenza del contributo generale ( previsto, come detto, dal primo comma del medesimo art. 6) per il funzionamento della istituzione da parte dell’odierna appellante;
caso mai, è ulteriore elemento per inferirne la debenza, visto che tale ultimo obbligo di pagamento non risulta congegnato, nella architettura di legge, in funzione corrispettiva rispetto a singoli servizi, ma riguarda il servizio generale di controllo e vigilanza esercitato dall’Autorità sul mercato delle comunicazioni ( e quindi investe tutti i soggetti che operano su tale mercato). Né ha pregio la ulteriore tesi difensiva dell’appellante, secondo cui una dilatazione senza limiti dell’area dei soggetti obbligati finirebbe per ricomprendere financo coloro che erogano servizi di pulizia in favore della predetta Autorità;
e ciò per l’ovvia considerazione che si deve pur sempre trattare di soggetti che, operando nel mercato delle comunicazioni, sono astretti ai poteri di controllo e vigilanza della Autorità ( e fra questi soggetti è pacifico che non abbiano titolo per rientrare le imprese di pulizia operanti al servizio dell’Autorità)”.

Il giudice amministrativo ha anche spiegato che non è possibile ravvisare la pretesa disparità di trattamento considerato che “il predetto contributo è correlato ai ricavi risultanti dall’ultimo bilancio di ciascun operatore, risultando in tal modo congruamente differenziato il sacrificio contributivo imposto a ciascun operatore in relazione al generale servizio regolativo svolto dall’Autorità ( e quindi non in relazione a singoli e ben individuati servizi, rispetto ai quali avrebbe ragione di porsi il problema della correlazione tra contributo e beneficio individuale) a vantaggio dei soggetti operanti sul mercato e, in ultima analisi, dei consumatori finali dei servizi e prodotti propri del settore delle comunicazioni”.

Infine, il Consiglio di Stato ha ritenuto manifestamente infondata anche la questione di illegittimità costituzionale, analoga a quella sollevata con il presente ricorso, significando che “Quanto al profilo di ipotizzata violazione dell’art. 3 della Costituzione, si è appena detto che nella richiamata normativa (nonché nell’applicazione che ne è stata fatta nello specifico a mezzo del gravato decreto ministeriale) non è ravvisabile alcuna violazione del principio di uguaglianza, dato che il contestato obbligo contributivo grava indistintamente su tutti gli operatori del settore (al cui novero, per le già dette ragioni, va aggregata la ricorrente società) in misura proporzionale rispetto ai dati di bilancio. Per ciò che riguarda la prospettata violazione dell’art. 23 Cost., secondo cui nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge, è noto il carattere relativo della riserva di legge introdotto dalla citata disposizione costituzionale e la piena ammissibilità della integrazione della normativa primaria ad opera della fonte secondaria, sol che siano prefissati nella prima i limiti di esercizio del potere integratorio.

Nel caso in esame, si è detto che la legge individua con formula sufficientemente chiara la sfera dei soggetti obbligati a versare il contributo in favore dell’Autorità, prevedendone il pagamento da parte degli esercenti il servizio;
si è pure detto qual sia la ratio, pienamente coerente con le finalità sottese all’istituzione di un meccanismo di autofinanziamento dell’Autorità, della scelta di assoggettare a contributo anche i soggetti che forniscono servizi strumentali rispetto al principale servizio radiotelevisivo, in quanto anch’essi destinatari (ancorché spesso in forma mediata e indiretta) dell’attività di regolazione e controllo dell’Autorità, in vista del cui proficuo espletamento la legge, in definitiva, ha istituito il contestato obbligo contributivo. Né risulta sollevata specifica censura (ad esempio, per oggettiva esosità del contributo richiesto) in ordine al quantum della misura contributiva in concreto applicata in danno della ricorrente, di tal che la questione si appalesa, sotto tale ultimo riguardo, anche inammissibile, attesa la sua irrilevanza nella prospettiva decisoria”.

La difesa erariale ha infine ricordato che, con la predetta sentenza n. 3808 del 2009, il Consiglio di Stato ha sottolineato la continuità dell’attuale sistema di finanziamento rispetto al precedente, sotto il profilo che qui interessa, ovvero quello relativo all’obbligo contributivo da porre a carico dei soggetti che operano nel mercato di competenza, sottolineando che “argomenti a favore della tesi della <estraneità>
dell’appellante rispetto all’obbligo contributivo non potrebbero neppure trarsi, come invece dalla ricorrente dedotto in sede di memoria conclusiva, dalla previsione normativa contenuta nell’art. 1 comma 65 della l. 23 dicembre 2005 n. 266, secondo cui a decorrere dall’anno 2007 le spese delle Autorità indipendenti nominalmente indicate ( tra le quali la Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) sono finanziate dal mercato di competenza per la parte non coperta da finanziamento a carico del bilancio dello Stato. La disposizione non fa altro che confermare, in modo ancor più esplicito (e per questa parte la disposizione assume valenza interpretativa anche rispetto agli interventi normativi pregressi, applicabili ratione temporis alla presente controversia), che i soggetti tenuti al versamento del contributo sono appunto quelli che operano nel mercato di competenza, cui si rivolge il servizio di regolazione e controllo erogato dalla Autorità per le garanzie nelle comunicazioni: tra questi soggetti non par dubbio che debba rientrare anche la odierna ricorrente, iscritta nel registro degli operatori nel settore delle comunicazioni. Si è già detto, infatti, che il dato rilevante è rappresentato dalla corrispondenza tra il servizio di regolazione e controllo reso dalla Autorità e l’attività dei soggetti operanti nel mercato di competenza, cui non potrebbero dirsi estranei né i soggetti che svolgono, in via prevalente o esclusiva, intermediazione nel mercato della pubblicità sui mezzi di comunicazione, né quelli che distribuiscono servizi e prodotti per il mercato radiotelevisivo ( cfr. in particolare, l’art. 2, lett. b) n.3) della l. 249/97, a proposito della competenza della commissione per i servizi e prodotti operante all’interno della Autorità per le garanzie nelle comunicazioni)” .

Il ricorso è stato assunto per la decisione alla pubblica udienza dell’8 febbraio 2017.

2. Il ricorso è infondato e deve essere respinto.

Tanto per l’assorbente ragione che, a parere del Collegio, sulla questione relativa all’individuazione dei soggetti obbligati al pagamento del contributo in esame si è ormai formato il giudicato, per effetto della sentenza del Consiglio di Stato n. 3811 del 15.6.2009, in tutto analoga a quella citata dalla difesa erariale, resa nei confronti di altra società facente parte, all’epoca, del gruppo RAI.

Al riguardo, valga quanto segue.

2.1. In primo luogo è agevole rilevare che, sebbene la società RAI SAT sia stata incorporata nella società RAI, in corso di causa, non per questo è venuta meno l’identità con le parti nei cui confronti è stata resa la sentenza n. 3811/2009 (ovvero, la medesima RAI SAT, il MEF e l’AGCOM).

Al riguardo, è sufficiente richiamare le molteplici statuizioni giurisprudenziali in ordine alla continuità tra società incorporante e società incorporata, quale configurata dal vigente art. 2504 – bis del codice civile (cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. IV, sentenza n. 18 del 5.1.2011).

Peraltro, le trasformazioni che hanno interessato le società del gruppo RAI confermano quanto il giudice amministrativo aveva già avuto modo di rilevare, sia in primo grado che in appello, ovvero che il fatto che la società RAI, concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo, avesse, ora come allora, «inteso strutturare la propria compagine organizzativa con società collegate, strumentali alla finalità di pubblica utilità della RAI», non era scelta idonea a spostare «i termini giuridici della soggezione di tali società a contributo, a meno di non ipotizzare una sostanziale elusione della normativa di settore. Infatti la RAI, progressivamente svuotata di numerose competenze e funzioni, e dunque di ricavi (art. 2, comma 38, l. .481/95), pur svolgendo il medesimo servizio pubblico, potrebbe avvantaggiarsi della frammentazione societaria, versando un contributo esiguo rispetto a quello cui era precedentemente tenuta» (TAR Lazio, sez. II^, sentenza n. 13717 del 31.12.2003).

La Sezione ha già spiegato, al riguardo, che «La normativa cui ha dato applicazione il decreto impugnato […] individua i soggetti esercenti il servizio di pubblica utilità obbligati al versamento del contributo, non da un punto di vista soggettivo, bensì oggettivo, cioè in considerazione dello svolgimento di una attività, non soggetta ad autorizzazione o concessione, ma comunque sottoposta a regolazione e controllo da parte dell’Autorità in relazione al collegamento diretto o indiretto con il servizio pubblico radiotelevisivo».

In secondo luogo, sul piano oggettivo, sebbene la sentenza del Consiglio di Stato n. 3811/2009 riguardi il decreto 17 maggio 2002, precedente a quello per cui è causa, tuttavia, ai fini dell’individuazione dei soggetti tenuti al contributo, quest’ultimo si limita a richiamare il contenuto del precedente decreto («Restano ferme le disposizioni del decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze 17 maggio 2002»).

Ne deriva che quelli che parte ricorrente configura come vizi propri del decreto impugnato, sono in realtà vizi di illegittimità derivata dal decreto 17 maggio 2002.

Ad ogni buon conto, sul piano sostanziale, il Collegio reputa che, oggi, sia preclusa ogni ulteriore e/o diversa statuizione rispetto a quelle contenute nella richiamata sentenza del Consiglio di Stato, la quale, nella parte in cui reca l’ “accertamento” della legittimità dell’assoggettamento all’obbligo di contribuzione della società originariamente ricorrente (e delle altre società facenti parte del gruppo RAI, operanti nel mercato di competenza di AGCOM) fa ormai stato “tra le parti, i loro eredi ed aventi causa” (art. 2909 c.c.;
sulla formazione del giudicato, anche in ordine alle sentenze di rigetto, cfr., in particolare, Cons. St., sez. V, sentenza n. 1669 dell’8.4.2014).

L’ampiezza dell’“accertamento” recato dalla sentenza n. 3811/2009 appare poi idonea a coprire tutte le questioni controverse nel presente ricorso (sia pure, come detto, sub specie di illegittimità derivata dal decreto 17 maggio 2002).

In particolare, in alcun modo è possibile rinvenire nell’atto introduttivo che si è in precedenza sintetizzato, la questione della concreta determinazione del contributo dovuto dalla parte ricorrente, che solo oggi, con la memoria conclusionale, deduce che esso non fosse commisurato agli oneri amministrativi effettivamente sostenuti dall’Autorità di regolazione per la vigilanza sul mercato di competenza.

Va infine soggiunto che non vale a superare la preclusione derivante dal giudicato la pretesa sussistenza, nel caso di specie, di norme europee vincolanti (come noto, secondo quanto statuito dalla Corte di Giustizia, a partire dalla sentenza 18 luglio 2007 in causa C-119/05, Lucchini, l’avvenuta formazione del giudicato non può tradursi in una violazione dell’effettività del diritto eurounitario).

Infatti, come correttamente rilevato dalla difesa erariale, il parametro invocato (ovvero l’art. 12, della direttiva autorizzazioni 2002/20/CE nell’interpretazione datante dalla Corte UE) riguarda il settore delle comunicazioni elettroniche, e non quello in cui opera la ricorrente, regolato da un distinto apparato di disposizioni, attualmente compendiate nel Testo Unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici.

Ad ogni buon conto, è agevole osservare che, all’epoca dell’adozione del decreto impugnato, la direttiva “autorizzazioni”, sebbene già adottata, non era nemmeno scaduta, posto che il termine di recepimento era stato fissato al 24 luglio 2003.

Pertanto, anche a volerne ipotizzare una possibile traslazione nel settore in esame, in alcun modo tale disposizione avrebbe potuto costituire parametro di legittimità del decreto impugnato.

3. In definitiva, per quanto appena argomentato, il ricorso deve essere respinto.

Le spese seguono come di regola la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

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