TAR Bari, sez. I, sentenza 2018-07-16, n. 201801080

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Bari, sez. I, sentenza 2018-07-16, n. 201801080
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Bari
Numero : 201801080
Data del deposito : 16 luglio 2018
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 16/07/2018

N. 01080/2018 REG.PROV.COLL.

N. 01107/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1107 del 2013, proposto da
G P, C P, A P, G P, R P, M P, A P e L P, rappresentati e difesi dagli avvocati A C e R M, con domicilio eletto presso A C, in Bari, via Roberto Da Bari, n. 108;

contro

Ministero dell'Interno, U.T.G. - Prefettura di Bari, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentati e difesi ex lege dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Bari, domiciliataria in Bari, via Melo, n. 97;

nei confronti

P P, non costituito in giudizio;

per l'annullamento

del decreto del Ministero dell’Interno - Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione - Direzione Centrale per i Diritti per la Cittadinanza e le Minoranze - Area I - Speciale Elargizioni alle vittime del terrorismo e della criminalità di tipo mafioso del 7 novembre 2012, prot. n. 0010950, UOR AI - T. 0181/01/78/0022, notificato in data 27 maggio 2013, recante diniego dei benefici previsti dalla l. n. 302/1990 (vittime del terrorismo e della criminalità organizzata).

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno e dell’U.T.G. - Prefettura di Bari;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20 giugno 2018 il dott. Alfredo Giuseppe Allegretta e uditi per le parti i difensori come specificato nel medesimo verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

Con ricorso notificato in data 10.8.2013 e depositato in Segreteria in data 21.8.2013, G P, C P, A P, G P, R P, M P, A P e L P adivano il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Sede di Bari, al fine di ottenere la pronuncia meglio indicata in oggetto.

Esponevano in fatto i ricorrenti che, in data 7.6.2000, in Bari, in via delle Regioni (quartiere “San Paolo”), nel corso di un conflitto a fuoco tra esponenti della criminalità organizzata locale, Maria C (nata a Bari il 24.10.1930) - coniuge di G P e madre di tutti gli altri odierni censuranti - veniva attinta ed uccisa da un colpo d’arma da fuoco, mentre si trovava all’interno della veranda della propria abitazione.

A seguito dell’accaduto, G P avanzava istanza al Ministero dell’Interno per ottenere i benefici di cui alla legge n. 302/1990, in materia di benefici per le vittime della criminalità organizzata e di tipo mafioso.

Con decreto n. 1345 B/1749 VT, il Ministero dell’Interno - anche sulla scorta del parere favorevole espresso dal Prefetto di Bari e dalla Commissione Consultiva di cui al D.P.R. n. 210/1999 - concedeva a G P una provvisionale nella misura del 90% della speciale elargizione, nonché l’assegno vitalizio previsto dalla legge n. 470/1998.

Successivamente, entrava in vigore la l. n. 159/2007 (finanziaria 2008) che all’art. 2, commi 105 e 106, estendeva il diritto ad ottenere i benefici di cui alla legge n. 302/1990 (in materia di vittime della criminalità organizzata) anche in favore dei figli superstiti maggiorenni, ancorché non più conviventi con la vittima al momento del decesso.

Sulla base di tale presupposto, i figli della C, in data 23.2.2008, presentavano istanza integrativa di concessione dei benefici de quibus.

Con nota del 13.5.2008, l’Amministrazione resistente, nel prendere atto della richiesta avanzata dai figli della C, comunicava che la pratica sarebbe stata portata al vaglio della Commissione Consultiva di cui al D.P.R. n. 510/1999 per la qualificazione dell’evento criminoso in questione.

Con successiva nota del 9.7.2012, notificata il 13.7.2012, il Ministero dell’Interno comunicava l’impossibilità ad elargire i benefici richiesti, in quanto, a seguito di istruttoria e di acquisizione del parere della Commissione Consultiva, “ non è stata raggiunta la prova obiettiva della sussistenza dei requisiti previsti dall’art. 1, comma 2 della legge n. 302/1990, e che quindi allo stato degli atti non si possa dare corso alla definitiva elargizione dei benefici per mancanza del requisito oggettivo, in quanto dagli ulteriori atti giudiziari collegati alla vicenda criminosa non emerge alcuna matrice mafiosa, né risultano a carico degli originali indagati palesi collegamenti con organizzazione criminose riconducibili al perseguimento delle associazioni di tipo mafioso” .

In riscontro alla nota de qua , seguiva risposta del difensore di parte ricorrente, inviata in data 23.7.2012, a mezzo p.e.c., con cui si insisteva per l’elargizione dei benefici richiesti in quanto, in tesi, dovuti.

Con decreto del 7.10.2012, prot. n. 0010950, UOR A1 - T. 0181/01/78/0022, notificato in data 27.5.2013, il Ministero dell’Interno respingeva l’istanza presentata, confermando le conclusioni di cui alla nota del 9.7.2012.

Avverso tali esiti procedimentali, insorgevano gli odierni ricorrenti, impugnando il provvedimento in epigrafe .

Con un primo motivo di ricorso, gli istanti si dolevano della illegittimità del provvedimento impugnato per «eccesso di potere in relazione all’individuazione dei requisiti necessari per la concessione dei benefici di cui all’art. 2 della legge n. 302/1990».

In tesi, gli istanti sostenevano che, nel caso di specie, ricorressero entrambi i requisiti (uno di carattere soggettivo, l’altro oggettivo) previsti dall’art. 1, comma 2, della legge n. 302/1990, per la concessione del beneficio in questione.

Nello specifico, nessun dubbio era mai sorto circa la sussistenza del requisito soggettivo, costituito dalla assenza di qualsiasi legame tra la defunta C e gli autori del fatto criminoso.

Cionondimeno, nella prospettazione dei ricorrenti, l’Amministrazione resistente incorreva in errore laddove non riteneva sussistente anche il requisito di carattere oggettivo, individuabile nella matrice mafiosa della vicenda criminosa da cui era derivato il decesso della C.

Ciò posto, parte ricorrente, dopo aver richiamato il disposto dell’art. 416-bis del c.p. (che fornisce la definizione di associazione di tipo mafioso), sosteneva che la decisione adottata dalla P.A. competente fosse viziata per eccesso di potere, considerato che vari articoli di giornali, pubblicati sulla vicenda in questione, definivano il decesso della C come l’ennesimo capitolo di una faida riesplosa, all’inizio degli anni 2000, tra vari clan baresi per il controllo di traffici illeciti.

Inoltre, nella ricostruzione fattuale dell’evento, si sottolineava come fosse “quantomeno inverosimile che un gruppo di uomini, tra loro non legati da alcuna affiliazione, decida all’improvviso di dar vita ad una sparatoria con armi automatiche senza avere alla base motivazioni di carattere economico o di potere sul territorio”, concludendosi che l’Amministrazione procedente fosse incorsa in errore nel non rilevare la presenza del requisito oggettivo, necessario per la concessione del beneficio richiesto.

Con un secondo motivo di gravame, parte istante lamentava la «violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 302/1990»

In tesi di parte ricorrente, il provvedimento di diniego sarebbe stato adottato in violazione dell’art. 7 della legge n. 302/1990.

Difatti, da una lettura del provvedimento di archiviazione - conclusivo del procedimento penale avviato a seguito dell’omicidio della C - non era possibile desumere il mancato coinvolgimento nella vicenda in esame di esponenti della criminalità organizzata locale.

Con un ultimo motivo di censura, i ricorrenti si dolevano della «violazione e falsa applicazione della Direttiva Comunitaria 2004/80/CE».

In tesi, la direttiva summenzionata sarebbe stata disattesa dallo Stato italiano, considerato che non era stato predisposto, a livello normativo interno, alcun sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti, come stabilito, invece, dalla normativa sovranazionale.

In data 29.8.2013, si costituivano in giudizio il Ministero dell’Interno e la Prefettura di Bari, in persona dei legali rappresentanti p.t., instando per il rigetto della avversa domanda.

All’udienza pubblica del 20.6.2018 il ricorso veniva definitivamente trattenuto in decisione.

Tutto ciò premesso in fatto, il ricorso è infondato e, pertanto, non può essere accolto.

Quanto al primo motivo di doglianza proposto dagli istanti, il Collegio ritiene di prendere le mosse direttamente dalla lettura del dato normativo, più volte richiamato dagli stessi ricorrenti, ossia dal comma 2, dell’art. 1 legge n. 302/1990.

Ebbene, la disposizione in questione, expressis verbis recita: « L'elargizione di cui al comma 1 è altresì corrisposta a chiunque subisca un’invalidità permanente, per effetto di ferite o lesioni riportate in conseguenza dello svolgersi nel territorio dello Stato di fatti delittuosi commessi per il perseguimento delle finalità delle associazioni di cui all'articolo 416-bis del codice penale, a condizione che: a) il soggetto leso non abbia concorso alla commissione del fatto delittuoso lesivo ovvero di reati che con il medesimo siano connessi ai sensi dell'articolo 12 del codice di procedura penale;
b) il soggetto leso risulti essere ( … ) del tutto estraneo ad ambienti e rapporti delinquenziali, salvo che si dimostri l’accidentalità del suo coinvolgimento passivo nell'azione criminosa lesiva, ovvero risulti che il medesimo, al tempo dell'evento, si era già dissociato o comunque estraniato dagli ambienti e dai rapporti delinquenziali cui partecipava».

I requisiti espressamente previsti dal legislatore per poter usufruire del beneficio richiesto degli istanti sono, all’evidenza, due.

Il primo, di carattere “soggettivo”, che si integra in caso di totale estraneità della vittima tanto alla commissione del fatto, quanto agli ambienti e ai rapporti delinquenziali.

Il secondo requisito, invece, di natura “oggettiva”, che si configura solo qualora il fatto delittuoso, che costituisce il presupposto eziologico del verificarsi dell’evento dannoso, sia commesso per il perseguimento delle finalità tipiche e proprie delle associazioni mafiose.

Ciò posto, va rilevato che, se nel caso di specie era ravvisabile la sussistenza del requisito soggettivo, non altrettanto poteva affermarsi in merito alla presenza di quello di carattere oggettivo.

Difatti, nonostante la suggestiva ricostruzione dei ricorrenti, è innegabile che non sia stato accertato, in nessun modo, che l’uccisione della C fosse stato il risultato di un’azione diretta a conseguire una delle finalità di cui all’art. 416-bis c.p.

Innanzitutto, come è possibile evincere dagli atti versati in causa, non risultavano a carico degli originali indagati palesi collegamenti con organizzazioni criminali, né, come risulta dai rapporti dei Carabinieri, nei confronti di questi erano state formulate imputazioni dalle quali si potesse desumere in maniera inequivocabile, così come richiesto dal dettato normativo, la finalità mafiosa.

Inoltre, nel corso delle indagini, prima, e dell’istruttoria posta in essere dall’Amministrazione, poi, non risultava in maniera inequivocabile che il fatto criminoso fosse finalizzato a perseguire le finalità tipiche delle associazioni di tipo mafioso.

Difatti, gli organi inquirenti avevano attribuito il movente a semplici contrasti tra pregiudicati del quartiere S. Paolo di Bari, disponendo, successivamente, l’archiviazione del caso, per non essere riusciti ad individuare i soggetti che esplosero i colpi di arma da fuoco che avevano cagionato la morte della C.

Ciò rende coerenti e razionali le valutazioni compiute sull’argomento dall’Amministrazione resistente.

Peraltro, e anche prescindendo da queste, basterebbe analizzare l’architrave logica su cui è costruito il primo motivo di gravame.

I ricorrenti ritengono che la sussistenza del requisito oggettivo possa essere dimostrata sulla base di articoli di stampa pubblicati su varie testate giornalistiche e in diversi periodici locali.

In questi si definiva l’omicidio della C come l’ennesimo atto criminale inquadrato nella faida tra le famiglie mafiose che, all’epoca, si contendevano il controllo dello spaccio delle sostanze stupefacenti.

Al di là della ricostruzione posta in essere dai ricorrenti, la documentazione da questi allegata non riesce a fornire una prova obiettivamente in grado di dimostrare che il perseguimento delle finalità di cui all’art. 416 bis c.p. fosse il precipuo scopo di chi aveva posto in essere l’azione che aveva causato la morte della C.

Si tratta di un elemento assolutamente non trascurabile, in quanto, sulla base di tale impostazione metodologica, nel ricorso introduttivo è assente qualsivoglia critica nei confronti dell’operato degli inquirenti, oltreché nei confronti dell’attiva istruttoria, strictu sensu intesa, posta in essere dal Ministero degli Interni per il tramite del Comitato Consultivo.

In sostanza, deve ritenersi che i ricorrenti, su cui gravava l’onere della prova in materia, avrebbero dovuto dimostrare che gli accertamenti compiuti dagli inquirenti, prima, e dall’Amministrazione, poi, erano stati carenti o irragionevoli, in quanto, in tesi, avrebbero mancato di prendere in considerazione, o comunque di valutare in maniera razionale, la presenza di elementi di carattere oggettivo da cui fosse possibile riscontrare la finalità mafiosa, che avrebbe in concreto caratterizzato la condotta degli assassini della C.

Quanto meno, si sarebbero dovuti fornire adeguati elementi probatori, affinché potesse sorgere un ragionevole dubbio in tal senso.

Né, del resto, può ritenersi che l’allegazione di taluni articoli di giornali possa essere in grado di scalfire l’attendibilità dell’attività istruttoria delle Amministrazioni coinvolte nella odierna vicenda, considerato che detti articoli non costituiscono assolutamente mezzo probatorio idoneo a dimostrare che fosse verosimile - recte più probabile che non - che il movente dell’omicidio della C fosse proprio il perseguimento delle più volte menzionate finalità.

In sostanza, e per i motivi suesposti, i deducenti non riescono a dimostrare la fondatezza delle censure prospettate, in quanto l’Amministrazione resistente, a parere di questo Collegio, ha correttamente impostato la propria attività provvedimentale nel compiere le sue valutazioni.

Queste, infatti, oltre ad essere in linea con le risultanze processuali della vicenda della C (conclusasi con un provvedimento di archiviazione), risultavano ex se coerenti e razionali.

L’istruttoria compiuta dal Ministero resistente, infatti, dimostrava, nei provvedimenti censurati, di aver scrupolosamente preso atto e valutato - in modo completo ed approfondito - i risultati cui erano giunti gli inquirenti nel corso delle indagini penali e ciò senza, tuttavia, appiattirsi completamente sugli stessi e senza escludere aprioristicamente la valutazione di elementi che fossero in grado di rendere altamente probabile la sussistenza del requisito oggettivo.

Peraltro, va rilevato che l’onere della prova di dimostrare la sussistenza di tutti i requisiti prescritti dalla normativa per il conseguimento dei benefici richiesti non gravava sull’Amministrazione, bensì sugli istanti che, per quanto su ampiamente esposto, non sono riusciti a soddisfarlo.

Pertanto, non si ritiene possibile affermare che nel caso di specie sussistesse il requisito oggettivo della riconducibilità dell’evento criminoso ad atti di criminalità commessi per il perseguimento delle finalità di cui all’art. 416 bis c.p.

Per completezza, va rilevato che seppur la mancanza del requisito oggettivo sia stata ritenuto sufficiente per rigettare l’istanza proposta dai ricorrenti, nei confronti di alcuni di questi difettava anche il requisito soggettivo contemplato dall’art. 9 bis della legge n. 302/1990, il quale prevedeva che «le condizioni di estraneità della commissione degli atti terroristici o criminali e agli ambienti delinquenziali di cui all’art. 1, commi 1 e 2, sono richieste, per la concessione dei benefici previsti dalla presente legge, nei confronti di tutti i soggetti beneficiari» .

Infatti, sussistevano precedenti penali a carico di due istanti, figli della vittima, Pietro e C P.

Il requisito soggettivo appena richiamato, inoltre, non sussisteva nemmeno in relazione a P M, in considerazione dei precedenti penali gravanti sul conto di R G, affine entro il quarto grado della predetta, per associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti e associazione di tipo mafioso, elementi questi che, ai sensi delle leggi n. 186/2004 e n. 94/2009, impedivano la concessione del beneficio di cui trattasi.

Per tutte le ragioni suesposte il primo motivo di ricorso è infondato.

Parimenti privo di pregio giuridico risulta essere il secondo motivo di gravame.

Con tale censura, i ricorrenti lamentavano la violazione dell’art. 7 l. n. 302/1990, in quanto sarebbe stato, in tesi, ampiamente dimostrabile che l’omicidio della C si inseriva in una guerra tra bande rivali all’interno di un rione barese nel quale risultava da tempo radicata la criminalità organizzata.

Preliminarmente, sul punto, il Collegio ritiene che, in relazione a tale censura possano integralmente richiamarsi le motivazioni già esposte a sostegno dell’infondatezza del primo motivo di gravame, in quanto, anche in questo caso, i deducenti cercano di scalfire la legittimità dell’ agere amministrativo utilizzando solo notizie riportate all’interno di vari articoli di giornale.

Inoltre, deve rilevarsi come la circostanza che il procedimento penale sia stato archiviato per il mancato accertamento dell’autore del reato, sia chiaramente sintomatica della oggettiva impossibilità, allo stato degli atti, di dimostrare la sussistenza del requisito oggettivo;
non potendosi comprendere come dal provvedimento di archiviazione possa essere evincibile il contrario, come, invece, preteso dai ricorrenti.

Peraltro, va rilevato che l’Amministrazione ha svolto la propria valutazione sulla base dei rapporti informativi del Comando Provinciale dei Carabinieri di Bari, dai quali non solo risultava che la morte della C fosse del tutto accidentale, ma che, addirittura, il movente del delitto fosse da individuarsi in un presumibile regolamento di conti tra pregiudicati del quartiere “San Paolo”.

Dunque, anche il secondo motivo di ricorso deve ritenersi del tutto infondato.

Parimenti infondato risulta essere anche il terzo motivo di gravame.

Infatti, del tutto inconferente al caso di specie risulta il richiamo operato dai ricorrenti all’art. 12, 2° paragrafo, della Direttiva n. 2004/80/CE del 29 aprile 2004.

Questa, infatti, come ammesso pacificamente dagli odierni censuranti, statuisce che «Tutti gli stati membri provvedono a che le loro normative nazionali prevedano l’esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisca un indennizzo equo ed adeguato alle vittime».

Da una piana lettura del testo normativo appena richiamato, pare evidente che l’ambito di operatività della disposizione de qua sia esattamente e chiaramente circoscritto a quelle ipotesi in cui ci si trovi dinanzi a vittime di reati intenzionali e violenti.

Nel caso di specie, invece, come è stato appurato dagli inquirenti e dal Ministero degli Interni, la morte della C è stata del tutto accidentale, non sussistendo presupposti fattuali che potessero far ritenere che gli autori dell’omicidio avessero come finalità - recte come intenzione - quella di uccidere la C.

Peraltro, di ciò ne sono pienamente consapevoli anche i ricorrenti, i quali, sia nel ricorso che negli atti versati in sede di istruttoria procedimentale, hanno sempre sottolineato la totale estraneità della defunta rispetto al fatto criminoso, rimarcando, inoltre, il carattere del tutto accidentale dell’evento ex se considerato.

Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, tra le tante, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22 marzo 1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16 maggio 2012 n. 7663;
sez. I, 27 dicembre 2013 n. 28663).

Da ultimo, in considerazione della evidente peculiarità in fatto della presente controversia, oltre che della limitata attività processuale svolta, sussistono i presupposti di legge per compensare integralmente le spese di lite fra le parti.

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