TAR Roma, sez. 5B, sentenza 2024-07-15, n. 202414301
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Pubblicato il 15/07/2024
N. 14301/2024 REG.PROV.COLL.
N. 00502/2021 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Quinta Bis)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 502 del 2021, proposto da
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato M M, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per l'annullamento
del diniego di cittadinanza italiana n. -OMISSIS-;
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 giugno 2024 il dott. Gianluca Verico e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1.- In data 4.12.2015 il ricorrente ha presentato istanza per la concessione della cittadinanza italiana ai sensi dell'art. 9, comma primo, lettera f) della legge 5 febbraio 1992, n. 91.
Il Ministero dell’Interno, previa comunicazione del preavviso di diniego ex art. 10- bis Legge n. 241/1990, con decreto n. -OMISSIS- del 14.09.2020 ha respinto la domanda dell’interessato ritenendo che non vi fosse coincidenza tra l’interesse pubblico e quello del richiedente alla concessione della cittadinanza, ponendo in particolare a fondamento del diniego le seguenti vicende penali emerse a suo carico:
- in data 08.07.2005: sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti pronunciata dal Tribunale di Livorno per violazione degli artt. 110 e 610 c.p. (violenza privata in concorso) e degli artt. 582 e 110 c.p. (lesione personale in concorso);
- in data 28.03.2006: decreto penale di condanna del GIP presso il Tribunale di Livorno per violazione dell’art. 4 legge n. 110/1975 (porto d’armi), con applicazione dell’indulto in data 17.7.2007.
Avverso il predetto decreto di rigetto ha quindi proposto ricorso l’interessato, deducendone l’illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere, lamentando in particolare che, innanzitutto, la sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p. del 2005, sebbene equiparata alla sentenza di condanna, manca di qualsiasi approfondimento in merito alla colpevolezza dell’imputato e, in ogni caso, rispetto a tali reati è stata dichiarata l’estinzione degli effetti penali della condanna da parte del Tribunale di Livorno in data 13.02.2018. Quanto al decreto penale di condanna del 2006, rileva che anche in tal caso non vi è stato alcun approfondimento in merito alla colpevolezza dell’imputato e, comunque, il decreto penale di condanna viene emesso inaudita altera parte ;peraltro, è stato applicato l’indulto ai sensi della legge n. 241/2006. Assume, pertanto, che il diniego impugnato è dunque affetto anche da un grave difetto di istruttoria, in quanto l’Amministrazione avrebbe dovuto tenere conto in concreto della complessiva condotta del richiedente nell'arco dell'intero periodo di permanenza sul territorio nazionale, essendosi ormai compiutamente integrato nel tessuto economico e sociale.
In data 18.01.2021 si è costituito il Ministero dell’Interno intimato per resistere al ricorso.
Con ordinanza collegiale n. 1765/2021 è stata respinta l’istanza cautelare.
In data 14.10.2022 il ricorrente ha depositato in atti il provvedimento di riabilitazione emesso dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze in data 27.09.2022 in relazione alla predetta sentenza di patteggiamento dell’8.7.2005.
Alla pubblica udienza del 12 giugno 2024, in vista della quale le parti hanno depositato memorie e documenti, la causa è stata trattenuta per la decisione.
2.- Il ricorso è infondato e va, pertanto, respinto.
Giova premettere un richiamo alla giurisprudenza formatasi in questa materia, ricostruita dalla Sezione in recenti pronunce (cfr., ex multis , TAR Lazio, Roma, Sez. V bis, n. 2943, 2944, 2945, 3018, 3471, 4280 e 5130 del 2022 e 20023 del 2023).
Ebbene, è appena il caso di ricordare che, ai sensi del menzionato articolo 9 comma 1 lettera f), la cittadinanza italiana " può " essere concessa allo straniero che risieda legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.
L'utilizzo dell'espressione evidenziata sta ad indicare che la residenza nel territorio per il periodo minimo indicato è solo un presupposto per proporre la domanda a cui segue "una valutazione ampiamente discrezionale sulle ragioni che inducono lo straniero a chiedere la nazionalità italiana e delle sue possibilità di rispettare i doveri che derivano dall'appartenenza alla comunità nazionale" (cfr., tra le tante, Consiglio di Stato sez. III, 23/07/2018 n. 4447).
Il conferimento dello status civitatis , cui è collegata una capacità giuridica speciale, si traduce in un apprezzamento di opportunità sulla base di un complesso di circostanze, atte a dimostrare l'integrazione del richiedente nel tessuto sociale, sotto il profilo delle condizioni lavorative, economiche, familiari e di irreprensibilità della condotta (Consiglio di Stato sez. VI, 9 novembre 2011, n. 5913;n. 52 del 10 gennaio 2011;Tar Lazio, sez. II quater, n. 3547 del 18 aprile 2012).
L'interesse pubblico sotteso al provvedimento di concessione della particolare capacità giuridica, connessa allo status di cittadino, impone che si valutino, anche sotto il profilo indiziario, le prospettive di ottimale inserimento del soggetto interessato nel contesto sociale del Paese ospitante (Tar Lazio, sez. II quater, n. 5565 del 4 giugno 2013), atteso che, lungi dal costituire per il richiedente una sorta di diritto che il Paese deve necessariamente e automaticamente riconoscergli ove riscontri la sussistenza di determinati requisiti e l'assenza di fattori ostativi, rappresenta il frutto di una meticolosa ponderazione di ogni elemento utile al fine di valutare la sussistenza di un concreto interesse pubblico ad accogliere stabilmente all'interno dello Stato comunità un nuovo componente e dell'attitudine dello stesso ad assumersene anche tutti i doveri ed oneri.
In altri termini, il provvedimento di concessione della cittadinanza in esame “ è atto squisitamente discrezionale di ‘alta amministrazione’, condizionato all'esistenza di un interesse pubblico che con lo stesso atto si intende raggiungere e da uno ‘ status illesae dignitatis’ (morale e civile) di colui che lo richiede ” (Consiglio di Stato, sez. III, 07/01/2022, n. 104).
Pertanto, l’anzidetta valutazione discrezionale può essere sindacata in questa sede nei ristretti ambiti del controllo estrinseco e formale;il sindacato del giudice, infatti, non si estende al merito della valutazione compiuta dall'Amministrazione, non potendo dunque spingersi al di là della verifica della ricorrenza di un sufficiente supporto istruttorio, della veridicità dei fatti posti a fondamento della decisione e dell'esistenza di una giustificazione motivazionale che appaia logica, coerente e ragionevole (cfr., ex multis , Consiglio di Stato sez. III, 16 novembre 2020, n. 7036;nonché, TAR Lazio, sez. V bis, n. 2944/2022 su prospettive e limiti dell’applicazione del principio di proporzionalità in tale materia).
Quanto, in particolare, all’onere motivazionale, la giurisprudenza ha più volte precisato che l'ampiezza e la profondità dell'obbligo di motivazione del provvedimento di diniego della concessione della cittadinanza devono correlarsi allo stadio del procedimento penale, alla natura del reato commesso, nonché alla circostanza che esso sia stato commesso a distanza di tempo dal momento in cui l'istanza di concessione della cittadinanza viene proposta. Questi profili incidono anche sul livello di discrezionalità dell'amministrazione per la quale la valutazione della condotta penalmente rilevante deve costituire, a norma di legge, uno degli elementi rilevanti ai fini della decisione sulla concessione della cittadinanza, con la conseguenza che, “ nel caso di sentenza penale e, a fortiori , di sentenza passata in giudicato l'ampiezza e l'intensità dell'obbligo motivazionale relativo al diniego di concessione di cittadinanza può essere minore rispetto a quello che deve, invece, caratterizzare un diniego in presenza di una mera comunicazione di notizia di reato o di una denuncia, della quale il ricorrente potrebbe non essere al corrente ” (Consiglio di Stato sez. I, 04/04/2022, n.713;cfr., in senso conforme, Cons. Stato, Sez. II, 31 maggio 2021, n. 4151).
3.- Tanto premesso, il Collegio ritiene che, nel caso concreto, il Ministero abbia legittimamente esercitato il potere discrezionale di cui dispone, assolvendo all’onere di motivazione e senza venir meno ai criteri di ragionevolezza e proporzionalità nel bilanciamento degli interessi.
3.1- Innanzitutto, quanto alla sentenza di patteggiamento del 2005, è appena il caso di richiamare anche il recente parere del Consiglio di Stato, sez. I, 7 novembre 2018, n. 2678, che ha avuto modo di ribadire il costante orientamento giurisprudenziale in virtù del quale “ la sentenza di patteggiamento pronunciata ai sensi dell’art. 444 c. p. p. (…) è equiparata quoad effectum , per la natura della cognizione del giudice in materia, per il valore dell’accordo negoziale, per la formazione della prova, ad una pronuncia di condanna ”.
Ciò posto in ordine alla attitudine della sentenza di patteggiamento ad assurgere validamente ad indice di inaffidabilità del richiedente alla stessa stregua di una pronuncia di condanna, occorre considerare che i richiamati reati di violenza privata e lesione personale commessi in concorso di persone ex art. 110 c.p. – posti a fondamento del diniego – presentano un notevole disvalore in quanto lesivi di beni costituzionalmente tutelati della persona, quale il diritto all’integrità fisica altrui, sicché detti comportamenti criminosi sono stati valutati dall’Amministrazione come indice di non compiuta integrazione del ricorrente nella comunità nazionale all’esito di un giudizio prognostico che non appare irragionevole o sproporzionato, in quanto volto ad assicurare preminente tutela ai principi fondamentali della convivenza sociale e dell’ordine pubblico.
Peraltro, occorre evidenziare che già il solo reato di lesione personale è punito dall’art. 582 c.p. con la reclusione fino a tre anni. Pertanto, considerato che tra le ipotesi ostative all’acquisto della cittadinanza “di diritto” per matrimonio previste dall’art. 6 della legge n. 91 del 1992 è contemplata anche “ la condanna per un delitto non colposo per il quale la legge preveda una pena edittale non inferiore nel massimo a tre anni di reclusione ”, è evidente che tale fattispecie di reato – che appunto stabilisce una pena edittale massima pari a tre anni - rientri tra quelle preclusive all’acquisto della cittadinanza per matrimonio e, a fortiori , ben possa costituire circostanza ostativa alla richiesta cittadinanza per naturalizzazione (Cons. Stato, sez. III, n. 52/2011, 1726/2019, 8734/2019, 4151/2021;TAR Lazio, sez. II quater, n. 1833/15;3582/14;n. 9947/2016, 324/2017;TAR Lazio, sez. I ter, n. 11734/2019, 4632/2020;TAR Lazio, sez. V bis, n. 2944/2022;n. 4236/22;n. 4295/2022;4941/2022;n. 5130/2022;n. 5131/2022;n. 6254/2022).
Inoltre, la circostanza che tali reati siano stati commessi in concorso di persone ex art. 110 c.p. è anche sintomatica del contesto di illegalità in cui il ricorrente risultava inserito.
Ed ancora, ad ulteriore supporto del giudizio prognostico sull’inaffidabilità del ricorrente depone senz’altro il richiamato decreto penale di condanna del 2006 per il reato di cui all’art. 4 della L. n. 110/1975 (Porto di armi od oggetti atti ad offendere), atteso che anche tale condotta criminosa, volta ad esporre a pericolo l’incolumità altrui, vale a suffragare la valutazione cui è pervenuta l’Amministrazione sulla personalità dell’autore e sulla possibilità che l’istante possa successivamente creare inconvenienti o, addirittura, commettere fatti di rilievo penale, con conseguente inopportunità della concessione dello status civitatis .
Quanto all’istituto del decreto penale di condanna, appare destituita di fondamento l’argomentazione difensiva del ricorrente secondo cui tale decreto, in quanto emesso inaudita altera parte , non sarebbe equiparabile ad una condanna.
Al riguardo, infatti, valga precisare che gli artt. 460 e 461 c.p.p. dispongono che il decreto penale deve essere notificato personalmente al condannato onde consentirgli di proporre opposizione nei termini di legge, atteso che, decorso tale termine, il decreto diventa definitivamente esecutivo. Proprio al fine di garantire l’effettiva conoscenza da parte del suo destinatario, il comma 4 dell’art. 460 c.p.c. prevede che “ se non è possibile eseguire la notificazione per irreperibilità dell'imputato, il giudice revoca il decreto penale di condanna e restituisce gli atti al pubblico ministero ”. Peraltro, nella remota ipotesi in cui il decreto sia divenuto esecutivo senza essere stato ritualmente notificato al condannato, l’ordinamento prevede anche la possibilità di esperire il rimedio straordinario della revisione ex art. 630 c.p.c. (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. V stralcio, 8.8.2022, n. 11090).
Ne consegue, dunque, che il decreto penale è certamente equiparabile ad una pronuncia di condanna, considerato che, anche se emesso inaudita altera parte nella prima fase, questo diventa definitivamente esecutivo soltanto in caso di mancata opposizione da parte del destinatario, che ha quindi facoltà ( recte l’onere) di impugnarlo tempestivamente in modo da introdurre un ordinario giudizio di cognizione nel contraddittorio delle parti.
3.2- Inoltre, per quanto riguarda la dedotta risalenza dei fatti di reato, il Collegio osserva che essi ricadono in quell’arco temporale (il decennio anteriore all’istanza) che costituisce il “periodo di osservazione” in cui devono essere maturati i requisiti per la cittadinanza, ai sensi dell'art. 9 legge n. 91 del 1992, inclusi quelli dell’irreprensibilità della condotta (cfr. TAR Lazio, sez. V bis, n. 2643/2022;2944, 2945 del 2022), salvi i fatti di particolare gravità – come nel caso di specie - che possono essere apprezzati nel loro particolare valore “sintomatico” (violenza e maltrattamenti) in quanto anche indicativi di tendenze caratteriali, potendo in tal caso essere considerati anche oltre il decennio (Consiglio di Stato sez. VI n. 52/2011, Consiglio di Stato sez. III n. 1726/2019, 5271/2019, 7122/2019, 4122/2021;TAR Lazio, sez. II quater, n. 10678/13, 5615/2015, 5917/21;cfr., da ultimo, TAR Lazio, sez. V bis, n. 2643, 2945, 2946, 4469 del 2022;cfr. con specifico riferimento al reato di resistenza a pubblico ufficiale;nonché TAR Lazio, sez. II quater, 1833/2015, TAR Lazio, sez. V bis, n. 2644/2022).
In altri termini, il mero decorso del tempo, anche ove fosse stato superiore al decennio, non può condurre, di per sé, ad escludere la loro portata offensiva nell’ambito del giudizio comparativo compiuto dall’Amministrazione che, nell’esercizio del suo potere valutativo circa l'avvenuta integrazione dello straniero nella comunità nazionale, può tener conto di un complesso di circostanze atte a dimostrare la suddetta integrazione. Tale potere si estende anche alla delibazione di comportamenti riprovevoli – quali quelli in esame – anche qualora risalenti e non certificati da pronunce giurisdizionali, poiché simile scrutinio si pone su un piano differente ed autonomo rispetto alla valutazione dello stesso fatto ai fini dell'accertamento di una responsabilità penale (Consiglio di Stato sez. III, 15/02/2019, n.802).
3.3- Valga ancora aggiungere che, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, non pare assumere alcuna portata dirimente né l’applicazione dell’indulto (relativo alla pena irrogata con il decreto penale del 2006) né l’intervenuta estinzione del reato per effetto della ridetta ordinanza emessa il 13.02.2018 dal Tribunale di Livorno.
Infatti, per espressa ammissione dell’istante, tale provvedimento di estinzione non è neanche stato prodotto nell’ambito del procedimento amministrativo, poiché il ricorrente “ non ha potuto presentare memorie ex art. 10 bis L. 241/90 in quanto all’epoca era in Albania, impossibilitato al rientro causa emergenza COVID ” (pag. 1 ricorso). Ne consegue, evidentemente, che tale circostanza di fatto, proprio perché non dedotta prontamente dal richiedente, non poteva essere conosciuta e, dunque, presa in considerazione dall’Amministrazione (cfr., sul principio secondo cui la legittimità dell’atto impugnato deve essere valutata alla stregua delle circostanze di fatto esistenti e note al momento della sua adozione, T.A.R. Roma, (Lazio) sez. I, 12/10/2020, n.10317;Consiglio di Stato, sez. III, n. 1705/2021;n. 2511/2016).
In ogni caso, come costantemente affermato dalla giurisprudenza, il comportamento dell'istante, nonostante l’estinzione del reato (ovvero, e a maggior ragione, l’indulto della pena), rimane valutabile come fatto storico e, pertanto, può essere, come accaduto nel caso in esame, ragionevolmente considerato come indicativo di una personalità non incline al rispetto delle norme penali e delle regole di civile convivenza, e tale da giustificare il diniego di riconoscimento della cittadinanza italiana. Infatti, “ le valutazioni volte all'accertamento di una responsabilità penale si pongono su di un piano assolutamente differente ed autonomo rispetto alla valutazione del medesimo fatto ai fini dell'adozione di un provvedimento amministrativo, sicché può darsi la possibilità che le risultanze fattuali oggetto della vicenda penale vengano valutate negativamente, sul piano amministrativo, anche a prescindere dagli esiti del parallelo iter giudiziale ” (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato sez. III, 14/02/2022, n.1057).
D’altronde, tale conclusione rappresenta il precipitato applicativo del più generale principio della c.d. pluriqualificazione dei fatti giuridici, invocato dalla giurisprudenza amministrativa anche in relazione alla circostanza della riabilitazione pronunciata dal giudice penale (riabilitazione che, nel caso di specie, è intervenuta, in relazione alla sentenza di patteggiamento del 2005, con provvedimento del Tribunale di Sorveglianza di Firenze del 27.09.2022, dunque successivamente all’impugnato diniego).
Difatti, mentre sul piano penale gli effetti della riabilitazione sono chiaramente diretti ad agevolare il reinserimento nella società del reo, in quanto eliminano le conseguenze penali residue e fanno riacquistare all’interessato la capacità giuridica persa in seguito alla condanna, viceversa, sul piano amministrativo, la valutazione che l’Amministrazione è chiamata a compiere per concedere lo status di cittadino ha riguardo principalmente all’interesse pubblico alla tutela dell’ordinamento.
Ne consegue che, nel riconoscere la cittadinanza ai sensi dell'art. 9 della l. n. 91 del 1992, pur se intervenuta la riabilitazione, l’Amministrazione è chiamata, comunque, a prendere in considerazione il “fatto storico” per il particolare valore sintomatico che può assumere in quel procedimento (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 1788/2009, n. 4862/2010;sez. III, n. 7022/2019;T.A.R. Lazio sez. II quater, n. 10590/12;10678/2013).
In altre parole, nell’esaminare la domanda di cittadinanza di chi ha commesso un reato, l’Amministrazione è chiamata ad effettuare la delicata valutazione discrezionale in ordine alla effettiva e complessiva integrazione dello straniero nella società e l’interesse del richiedente deve essere comparato con l’interesse pubblico, al pari di quando deve decidere se revocare la cittadinanza già concessa, dovendo tener conto dell’interesse della collettività sotto il profilo più generale della tutela dell’ordinamento, ovvero con lo scopo di “ proteggere il particolare rapporto di solidarietà e di lealtà tra esso e i propri cittadini nonché la reciprocità di diritti e di doveri, che stanno alla base del vincolo di cittadinanza” (Corte di giustizia UE, causa Rotmann, punto 51).
Si tratta di principi comuni a diversi Stati, ai quali spetta in via esclusiva la competenza di determinare le condizioni e le modalità per l’acquisto della cittadinanza (in particolare per naturalizzazione), secondo un principio cardinale del diritto internazionale pubblico consuetudinario, richiamato anche dagli organismi internazionali e comunitari ove, incidentalmente, investono la materia (come nel caso richiamato, in cui la decisione di uno Stato Membro di revocare la cittadinanza concessa ad un cittadino di altro Stato incideva, per conseguenza, sulla cittadinanza comunitaria che da quella dipendeva).
Il richiamo al principio di proporzionalità in quell’occasione è stato determinato dal fatto che il soggetto veniva privato di uno status già acquisito e esposto alle conseguenze sfavorevoli (espulsione) della perdita di una situazione tendenzialmente destinata a durare nel tempo, mentre l’applicazione del medesimo principio risulta meno “giustificata” nel caso in cui invece si tratti di concedere la cittadinanza, in cui il richiedente ha una mera aspettativa all’acquisizione di tale status . Orbene, in tale prospettiva, nella ponderazione dei contrapposti interessi in gioco nel procedimento di naturalizzazione, occorre considerare che il diniego della cittadinanza non preclude all’interessato di ripresentare l’istanza nel futuro (già dopo un anno dal primo rifiuto), per cui le conseguenze discendenti dal provvedimento negativo sono solo temporanee, e, peraltro, non comportano alcuna “interferenza nella vita privata e familiare del richiedente”, dato che l’interessato può comunque continuare a rimanere in Italia e condurre la propria esistenza alle medesime condizioni. Nell’operare il bilanciamento degli interessi pubblici e privati in gioco, va considerato che il sacrificio dell'interesse del privato consiste nel non conseguire immediatamente il pieno riconoscimento di tutti i diritti, consistenti nella sostanza nei diritti politici che consentono di partecipare all’autodeterminazione della vita del Paese mediante l’esercizio del diritto di elettorato (oltre che nel diritto di incolato e limitazione dell’estradizione), essendo il conseguimento di tale posizione differito al momento in cui si possono ritenere maturati in capo ad esso tutti i requisiti richiesti. Mentre, nel caso di accoglimento dell’istanza, le conseguenze sono tendenzialmente irreversibili ed interessano l’intera collettività in quanto il soggetto viene ad essere ammesso stabilmente nella comunità nazionale in via definitiva, con diritto di partecipazione alla determinazione delle scelte politiche. In tale prospettiva non può ritenersi sproporzionato, ove si considerino le gravità delle conseguenze per la generalità dei consociati, il provvedimento che nega la cittadinanza, in via di precauzione adeguatamente avanzata, a quei soggetti di cui si dubita che possano assicurare il rispetto dei valori fondamentali, quali la vita e la incolumità delle persone, la fiducia ed il riguardo per le Istituzioni dello Stato di cui entra a far parte, ed altri beni riconosciuti e tutelati dalla Costituzione (TAR Lazio, sez. V bis, n. 2944/2022).
Pertanto, si richiede che l’istante sia non solo materialmente in condizioni di effettivo inserimento nella società italiana, ma che sul piano dei valori mostri, indefettibilmente, una convinta adesione ai valori fondamentali dell'ordinamento di cui egli chiede di far parte con il riconoscimento della cittadinanza.
Da quanto esposto consegue che, nel caso di specie, anche se la circostanza dell’estinzione del reato fosse stata trasmessa all’Amministrazione prima del gravato diniego – ovvero se la riabilitazione fosse intervenuta prima del diniego -, l’istante non avrebbe comunque potuto beneficiare di alcun automatismo in ragione dei rilievi innanzi descritti, residuando in capo alla P.A. ogni valutazione discrezionale in merito alla richiesta concessione della cittadinanza.
4.- In ultima analisi, considerato che il provvedimento di concessione della cittadinanza rappresenta un atto eminentemente discrezionale di "alta amministrazione” suscettibile di essere sindacato solo nei ristretti ambiti del controllo di legittimità – escluso ogni sindacato sostitutivo - ritiene il Collegio che la valutazione dell’Amministrazione sia esente da vizi di illogicità o irragionevolezza.
La tesi dell'istante non tiene conto dell'amplissima discrezionalità, informata anche a criteri di precauzione di profilo oggettivo (Cons. St., sez. III, 11 maggio 2016, n. 1874) e di cautela (Cons. St., sez. III, 29 marzo 2019, n. 2102;6 settembre 2018, n. 5262), che - come già osservato - caratterizza il provvedimento di concessione della cittadinanza italiana, in quanto atto che attribuisce definitivamente uno status che comporta rilevanti conseguenze per il patrimonio giuridico del richiedente e sui suoi diritti all'interno dello Stato;tale concessione può però comportare conseguenze altrettanto rilevanti, anche gravemente perniciose per l'interesse nazionale in caso di infelice concessione (T.A.R. Lazio sez. I - Roma, 05/05/2021, n. 5261). Proprio per la rilevanza di tale riconoscimento, l'art. 9, l. n. 91 del 1992 demanda al Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell'interno, la concessione della cittadinanza.
Nel caso di specie, il diniego risulta fondato sui gravi precedenti penali sopra indicati, espressamente menzionati nella motivazione, che appaiono idonei a sorreggere adeguatamente il giudizio di inaffidabilità e non compiuta integrazione del richiedente nel tessuto sociale, con conseguente esito negativo sulla concessione della cittadinanza.
Del resto, la valutazione del Ministero dell'Interno è avvenuta sulla base di accertamenti il cui esito, in termini di prognosi di idoneità allo stabile inserimento nella comunità nazionale con il conferimento della cittadinanza, rientra negli apprezzamenti di merito non sindacabili dinanzi al giudice amministrativo, se non per evidente travisamento dei fatti ed illogicità, vizi che non risultano sussistere nel caso di specie.
Né la natura di alta amministrazione del provvedimento gravato consente a questo giudice di sostituire valutazioni di merito, riservate all'Autorità amministrativa preposta, con altre, attesi i vincoli al sindacato giurisdizionale in questa materia.
Si rende opportuno osservare, inoltre, che la difesa della parte ricorrente non contesta la sussistenza dei fatti sopra indicati, ma si limita ad invocare la sussistenza della residenza in Italia da oltre un decennio e l’asserito inserimento nel contesto sociale, ritenendo che tali circostanze siano sufficienti al rilascio della cittadinanza; tali argomentazioni difensive, tuttavia, non appaiono idonee a scalfire il giudizio svolto dall’Amministrazione.
L’istante, infatti, non offre elementi che possano integrare meriti speciali, atteso che lo stabile inserimento, anche nella realtà economica, se, per un verso, rappresenta una condizione del tutto ordinaria, in quanto costituisce solo il presupposto per conservare il titolo di soggiorno, per altro verso rappresenta soltanto il prerequisito per la concessione della cittadinanza alla stregua di quanto sopra osservato.
Difatti, il conferimento della cittadinanza italiana per naturalizzazione presuppone l'accertamento di un interesse pubblico da valutarsi anche in relazione ai fini propri della società nazionale e non già sul semplice riferimento dell'interesse privato di chi si risolve a domandare la cittadinanza per il soddisfacimento di personali esigenze.
Il riconoscimento della cittadinanza, per sua natura irrevocabile (salvi i casi di revoca normativamente previsti), si fonda su determinazioni che rappresentano un'esplicazione del potere sovrano dello Stato di ampliare il numero dei propri cittadini (Cons. Stato, Sez. III, 7 gennaio 2022, n. 104) e, pertanto, presuppone che " nessun dubbio, nessuna ombra di inaffidabilità del richiedente sussista, anche con valutazione prognostica per il futuro, circa la piena adesione ai valori costituzionali su cui Repubblica Italiana si fonda " (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 14 febbraio 2017, n. 657).
D’altronde, la particolare cautela con cui l'Amministrazione valuta la rilevanza di condotte antigiuridiche è compensata dalla facoltà di reiterazione dell’istanza che l’ordinamento riconosce al richiedente una volta mutate le condizioni oggettive sottese all'esito negativo originario.
In conclusione, il provvedimento appare adeguatamente motivato e scevro dalle dedotte censure, pertanto il ricorso proposto deve essere respinto.
5.- Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.