TAR Genova, sez. II, sentenza 2012-10-15, n. 201201203

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Genova, sez. II, sentenza 2012-10-15, n. 201201203
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Genova
Numero : 201201203
Data del deposito : 15 ottobre 2012
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 01262/2011 REG.RIC.

N. 01203/2012 REG.PROV.COLL.

N. 01262/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria

(Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1262 del 2011, proposto da:
G D, rappresentato e difeso dall'avv. A T, con domicilio eletto presso Micaela Rossi in Genova, via Nino Bixio 3/2a;

contro

Ministero dell'Economia e delle Finanze, Comando Generale Guardia di Finanza, Comando Interregionale Guardia di Finanza dell'Italia Nord Occidentale, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura dello Stato, domiciliata in Genova, V.le B. Partigiane, 2;

per l'annullamento

provvedimento di perdita grado per rimozione


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell'Economia e delle Finanze e di Comando Generale Guardia di Finanza e di Comando Interregionale Guardia di Finanza dell'Italia Nord Occidentale;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 27 aprile 2012 il dott. Alberto Pasi e uditi per le parti i difensori Rossi, per delega di Tartaglia, (con la praticante Zito), per il ricorrente, e De Napoli, per le amministrazioni resistenti;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

Ricorre G D, maresciallo aiutante della Guardia di Finanza, rimosso dal grado con provvedimento 08/09/2011 del Comandante Interregionale, a seguito di condanna patteggiata il 18/11/2010 per il reato di cui agli artt. 81, 600 ter, commi 3 e 5, 600 quater, commi 1 e 2, codice penale.

Resiste l’Amministrazione.

Il provvedimento impugnato è stato adottato il giorno 08/09/2011 dal Comandante Interregionale per l’Italia nordoccidentale su delega (del Comandante Generale) risalente al 2008. A nulla rileva che la competenza di quest’ultimo (in luogo del ministro) sarebbe stata introdotta soltanto dal D.Lgs. 15/03/2010, n. 66, essendo ciò sufficiente, anche seguendo la prospettazione ricorrente, a conferire efficacia, a partire dall’ottobre 2010 (data di entrata in vigore del D.Lgs. 66/10), alla preesistente delega (non mai impugnata).

Peraltro, già per effetto degli artt. 16 e ss. del T.U. 165/2001, “la competenza per tutti gli atti di amministrazione si è trasferita dai ministeri competenti ai dirigenti generali e, per quanto riguarda le amministrazioni ad ordinamento militare, in capo ai comandanti generali, che possono delegare i compiti loro assegnati ai comandanti………….. sotto ordinati” (TAR Napoli, VI^ 28/07/2010 n. 162).

Pertanto, è respinto il primo motivo (Incompetenza).

La giurisprudenza è costante (es. Cons. Stato, III^, n. 3298/02 del 18/03/2003) nell’affermare che ai fini dell’osservanza del termine di perenzione del procedimento disciplinare (270 gg.) di cui all’art. 1392 del D.Lgs. 66/10, il procedimento è concluso con l’adozione del provvedimento finale, rilevando la notifica ai soli fini dell’efficacia.

Pertanto il provvedimento impugnato è stato tempestivamente adottato l’08/09/2011, dopo 269 giorni dal passaggio in giudicato (13/12/2010) della sentenza ex art. 444 c.p.p., a nulla rilevando la notifica del 22/09/2011.

Nemmeno risulta violato il termine di 90 gg. (art. 392, quarto comma, del D.Lgs. 66/10) dall’ultimo atto del procedimento, in quanto dopo la contestazione (08/03/2011) e prima del parere dell’organo disciplinare (05/07/2011) risultano intervenuti diversi atti ad effetto interruttivo, quali scritti difensivi (assunti a protocollo il 29/03/2011, docc. 6 e 7 del ricorrente), ordine di deferimento e nomina della Commissione di disciplina in data 18/05/2011 (doc. 8 del ricorrente), conclusioni dell’ufficiale inquirente in data 09/05/2011 (doc. 5 dell’amministrazione), e altri depositati in atti dal ricorrente.

Anche tra il parere della Commissione Disciplinare (05/07/2011), la adozione del provvedimento (08/09/2011), e la sua notifica (22/09/2011) intercorrono meno di 90 giorni, a differenza che nella fattispecie decisa dal TAR Lazio, Sezione II^, con sentenza n. 3836/11 impropriamente invocata in ricorso.

Pertanto, anche il secondo motivo và respinto.

Il terzo motivo deduce difetto di motivazione sulla scelta della sanzione, violazione del principio di proporzionalità, difetto di istruttoria e di autonoma valutazione del fatto.

Al riguardo il collegio rileva quanto segue.

La Legge 27 marzo 2001 n. 97 (“Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche”), modificando il primo comma dell’art. 445 c.p.p. (“Effetti dell’applicazione della pena su richiesta”), ha attribuito alla pronuncia, ai soli fini dell’art. 653 c.p.p., il valore di sentenza di condanna.

Anche a questo tipo di decisione, pertanto, l’Amministrazione può legittimamente far riferimento per ritenere accertati i fatti emersi nel corso del procedimento penale.

Come esplicitato nel provvedimento impugnato, alla luce del combinato disposto degli arttt. 445 e 653 c.p.p., la sentenza di applicazione della pena su richiesta fa stato anche nel giudizio per responsabilità disciplinare quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso.

L’Amministrazione, quindi, a seguito di un “patteggiamento”, non ha l’obbligo di svolgere, in ambito disciplinare, alcuna particolare istruttoria al fine di acquisire ulteriori mezzi di prova, potendo disporre degli elementi emersi dal giudizio penale. Permane in capo all’organo disciplinare, invece, la potestà di sottoporre i medesimi fatti ad un’autonoma valutazione.

La Corte di Cassazione, con ordinanza nr. 12295/2010 R.G. in data 12 ottobre 2010 ha ribadito che “l’applicazione della pena su richiesta delle parti è un meccanismo processuale in virtù del quale l’imputato ed il pubblico ministero si accordano sulla qualificazione giuridica della condotta contestata, sulla concorrenza di circostanze, sulla comparazione fra le stesse e sull’entità della pena. Da parte sua il giudice ha il potere-dovere di controllare l’esattezza dei menzionati aspetti giuridici e la congruità della pena richiesta e di applicarla, dopo avere accertato che non emerga in modo evidente una delle cause di non punibilità previste dall’art. 129 c.p.p.”.

Nella fattispecie il G.I.P. del Tribunale di Genova, con la citata sentenza n. 1266/10, ha evidenziato che “non deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento, a norma dell’art. 129 c.p.p. non versandosi nelle condizioni di cui a tale norma, ma per contro, emergendo le prove della responsabilità dell’imputato dal verbale di sequestro e dagli accertamenti di P.G.”.

L’Amministrazione in coerenza con il combinato disposto degli artt. 445 e 653 c.p.p., ha adottato tale sentenza come mero presupposto dell’accertamento materiale dei fatti addebitati all’interessato, ha effettuato ulteriori accertamenti e ha dato conto sia delle risultanze processuali emerse nel corso dell’istruttoria penale, sia delle risultanze dell’inchiesta disciplinare;
in modo logicamente successivo e congruo, ha proceduto con la valutazione autonoma dei fatti sotto il profilo disciplinare, verificandone la sussumibilità ai fini sanzionatori.

Non è vero, quindi, l’assunto attoreo secondo il quale l’Amministrazione ha considerato il ricorrente colpevole “non sulla base di un’autonoma valutazione dei fatti bensì sulla base della mera sentenza patteggiata”.

L’Amministrazione ha dato contezza delle responsabilità del ricorrente in ordine ai reati ed agli addebiti contestati (anche in relazione a quanto da lui dichiarato nella stessa sede disciplinare), delle giustificazioni addotte, dell’entità della condotta illecita, della negativa incidenza sull’interesse pubblico alla prosecuzione del rapporto d’impiego, e della congruenza della sanzione irrogata rispetto alla gravità degli addebiti. Tutti i passaggi argomentativi si appalesano facilmente comprensibili secondo l’ordinaria diligenza, logicamente congrui e consequenziali.

Priva di fondamento è anche la censura di sproporzione tra fatto disciplinare contestato e sanzione irrogata: “è jus receptum , invero, che i comportamenti disciplinari più gravi non sono sanzionati con misure d’intensità crescenti, ma si confrontano con il superamento di una soglia giuridica, contraddistinta dalla violazione del giuramento ed oltrepassata la quale non v’è altro rimedio legittimo, per la tutela dell’integrità dell’ordinamento generale e della posizione del Corpo nel sistema, che la definitiva risoluzione del rapporto con il militare sanzionato” (TAR Lazio – Roma, Sezione II^, 7 gennaio 2011, sentenza n. 55/11).

“La perdita del grado, è, infatti, sanzione unica ed indivisibile, non essendo stata stabilita con la caratteristica di regolarne un minimo ed un massimo, entro i quali l’Amministrazione deve esercitare il potere sanzionatorio” (Consiglio di Stato, Sezione IV, decisione n. 5622/2005).

Comunque, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale (Es. TAR Lazio – Latina, Sezione I^, 7 dicembre 2007, n. 29108), nel procedimento disciplinare a carico del pubblico dipendente l’apprezzamento dei fatti e la valutazione delle prove integrano giudizi di pieno merito e si sottraggono dunque al sindacato di legittimità, salva l’ipotesi della manifesta irragionevolezza che, nel caso dell’esame, per quanto sopra esposto, non sussiste.

Anche il terzo motivo, quindi, è respinto.

Residua l’esame del quarto ed ultimo, secondo il quale, ai sensi dell’art. 1389 del citato D.Lgs. n. 66/10, la sanzione della perdita del grado, benché già decisa dalla Commissione disciplinare, dovrebbe in ogni caso essere preceduta dalla riconvocazione di una diversa Commissione che la confermi.

Al contrario, l’art. 1389 è evidentemente inteso, nel suo complesso, a regolare i poteri di dissenso del ministro (ora Comandante Generale o suo delegato) rispetto al parere della Commissione disciplinare, e la sua interpretazione sistematica vuole che la sanzione possa essere da questo ridotta senza aggravare il procedimento per ragioni umanitarie (punto A comma 1), e che invece la “ reformatio in peius ” sia possibile solo previa riconvocazione e giudizio di una diversa commissione (punto B comma 1), ove essa comporti perdita del grado.

La norma si sottrae ai dedotti profili di incostituzionalità, in considerazione della natura e peculiarità dell’ordinamento militare.

Peraltro la questione di costituzionalità di un tale potere di dissenso “ in pejus ” non ha rilevanza nella odierna fattispecie in cui esso non è stato esercitato, confermandosi la stessa sanzione decisa dalla Commissione Disciplinare.

Il ricorso è respinto.

Le spese vanno compensate attesa la natura della controversia.

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