TAR Roma, sez. 1T, sentenza 2020-08-31, n. 202009289
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Pubblicato il 31/08/2020
N. 09289/2020 REG.PROV.COLL.
N. 10101/2015 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Ter)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 10101 del 2015, proposto dalla sig.ra -OMISSIS-, rappresentata e difesa dall'avvocato C F, domiciliata presso la Segreteria del TAR Lazio in Roma, via Flaminia, 189;
contro
Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato
ex lege
in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per l'annullamento
del decreto n. -OMISSIS-, emesso dal ministero dell'interno in data 26.05.2015, recante rigetto della istanza del 21.11. 2012 di concessione della cittadinanza italiana, ai sensi dell'art. 9, comma 1, lett. f), della l. 5 febbraio 1992, n. 91 presentata dalla sig.ra -OMISSIS-;
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 28 gennaio 2020 il cons. Anna Maria Verlengia e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con ricorso, spedito per la notifica l’11 luglio 2015 e depositato il successivo 10 agosto, la sig.ra -OMISSIS- impugna il decreto con cui il Ministro dell’Interno ha respinto la richiesta di concessione della cittadinanza richiesta ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett. f) della legge 91/1992.
Avverso il predetto diniego la ricorrente deduce la violazione dell’art. 6 della legge 91/92, degli artt. 3, 10 e 10 bis della legge 241/90, l’eccesso di potere per travisamento dei fatti e per falsa rappresentazione della realtà, per carenza di istruttoria e di motivazione.
La difesa della ricorrente lamenta che per il reato posto a base del diniego il Tribunale di Cremona avrebbe dichiarato l’estinzione, pronuncia che dovrebbe equipararsi alla riabilitazione e che non darebbe all’Amministrazione alcun margine di discrezionalità, vincolandola alla concessione della cittadinanza.
Il provvedimento, ad avviso della ricorrente, sarebbe inoltre carente di motivazione con riguardo alla asserita pericolosità della ricorrente ed alla sua mancata integrazione in quanto non avrebbe considerato la complessiva condotta della stessa.
Quanto alla mancata dichiarazione in sede di domanda della condanna penale, essa è da imputarsi alla circostanza che all’epoca della presentazione della domanda il Tribunale aveva dichiarato completamente condonata la pena inflitta.
I fatti di reato peraltro risalirebbero al 2002 e da soli non giustificherebbero, ad avviso della difesa attorea, il gravato diniego.
Il 3 dicembre 2015 il Ministero dell’Interno si è costituito con memoria di rito.
Il 22 gennaio 2020 il Ministero ha depositato documenti.
DIRITTO
Il ricorso è infondato.
Oggetto del gravame è il decreto con il quale, in data 26 maggio 2015, è stata negata alla ricorrente la concessione della cittadinanza italiana sulla scorta di una condanna del 24 ottobre 2006, divenuta irrevocabile il 27/1/2007 per il -OMISSIS-, a cui si aggiunge la mancata menzione della suddetta condanna in sede di domanda, circostanze che hanno condotto l’Amministrazione a ritenere che la ricorrente non dimostrasse una piena idoneità ad essere inserita nella comunità nazionale e a non ravvisare la coincidenza dell’interesse pubblico con quello della richiedente.
Ai sensi dell’articolo 9 comma 1 lettera f) della legge n. 91 del 1992, la cittadinanza italiana “può” essere concessa allo straniero che risieda legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.
L’utilizzo dell’espressione evidenziata sta ad indicare che la residenza nel territorio per il periodo minimo indicato è solo un presupposto per proporre la domanda a cui segue “una valutazione ampiamente discrezionale sulle ragioni che inducono lo straniero a chiedere la nazionalità italiana e delle sue possibilità di rispettare i doveri che derivano dall'appartenenza alla comunità nazionale” (v. Consiglio di Stato, sez. IV, 16 settembre 1999, n. 1474 e, tra le tante, da ultimo, CdS sez. III 23/07/2018 n. 4447/2018).
Il conferimento dello status civitatis, cui è collegata una capacità giuridica speciale, si traduce in un apprezzamento di opportunità sulla base di un complesso di circostanze, atte a dimostrare l'integrazione del richiedente nel tessuto sociale, sotto il profilo delle condizioni lavorative, economiche, familiari e di irreprensibilità della condotta (Consiglio di Stato sez. VI, 9 novembre 2011, n. 5913;n. 52 del 10 gennaio 2011;Tar Lazio, sez. II quater, n. 3547 del 18 aprile 2012).
L’interesse pubblico sotteso al provvedimento di concessione della particolare capacità giuridica, connessa allo status di cittadino, impone che si valutino, anche sotto il profilo indiziario, le prospettive di ottimale inserimento del soggetto interessato nel contesto sociale del Paese ospitante (Tar Lazio, sez. II quater, n. 5565 del 4 giugno 2013), atteso che, lungi dal costituire per il richiedente una sorta di diritto che il Paese deve necessariamente e automaticamente riconoscergli ove riscontri la sussistenza di determinati requisiti e l'assenza di fattori ostativi – rappresenta il frutto di una meticolosa ponderazione di ogni elemento utile al fine di valutare la sussistenza di un concreto interesse pubblico ad accogliere stabilmente all'interno dello Stato comunità un nuovo componente e dell'attitudine dello stesso ad assumersene anche tutti i doveri ed oneri (cfr., sul principi ex multis, Cons. St. n.798 del 1999).
Tale valutazione discrezionale può essere sindacata in questa sede nei ristretti ambiti del controllo estrinseco e formale;il sindacato del giudice non può dunque spingersi al di là della verifica della ricorrenza di un sufficiente supporto istruttorio, della veridicità dei fatti posti a fondamento della decisione e dell'esistenza di una giustificazione motivazionale che appaia logica, coerente e ragionevole (Consiglio di Stato sez. VI, 9 novembre 2011, n. 5913;Tar Lazio II quater n. 5665 del 19 giugno 2012).
Nel caso di specie, la ricorrente è stata -OMISSIS-, mentre risiedeva sul territorio verosimilmente in forza di un permesso di soggiorno e all’atto della presentazione della domanda ha dichiarato di non avere condanne a carico.
L’intervenuto condono della pena della reclusione e della multa e la successiva estinzione del reato per la mancata commissione di reati nei successivi 5 anni non corrisponde ad incensuratezza e non priva l’Amministrazione della possibilità di valutare la condotta tenuta dalla ricorrente.
L’estinzione della pena non equivale ad assoluzione e la condotta che ha portato al procedimento penale consente all’amministrazione di fondarvi un giudizio prognostico negativo in ordine alla idoneità della ricorrente ad aderire alle norme dell’ordinamento ed a ritenere che il suo stabile inserimento nella comunità nazionale non possa escludere conseguenze negative per quest’ultima.
Il diniego della cittadinanza può fondarsi anche su fatti che non sono stati oggetto di accertamento penale definitivo, e a fronte di comportamenti che integrano violazioni del codice penale, non appare sindacabile sotto i profili della illogicità o del travisamento, il giudizio prognostico negativo che ne è derivato (cfr. Tar Lazio, Sez. I ter, n. 4110/2019), in quanto l’Amministrazione ben può negare lo status sulla base di una insoddisfacente adesione alle regole della comunità.
Il suddetto giudizio prognostico non equivale ad un giudizio di pericolosità dal quale deriverebbero conseguenze di ben altra gravità quali la revoca o il mancato rinnovo del titolo di soggiorno.
Irrilevante appare la giustificazione offerta dalla ricorrente in ordine alla dichiarazione fatta in sede di domanda sulla assenza di condanne.
La richiesta della cittadinanza presuppone una seppur minima conoscenza dei principi dell’ordinamento della comunità alla quale si chiede di far parte ed è significativo di una inadeguata conoscenza, che peraltro avrebbe potuto essere colmata con una maggiore cautela nel fare dichiarazioni di cui non comprendeva il significato, quale quella di ritenere che una pena condonata equivalesse ad incensuratezza.
La non veritiera dichiarazione fatta in sede di domanda è fatto recente, suscettibile di essere perseguito penalmente, e che impedisce di considerare la risalenza della commissione del -OMISSIS-.
Esso è, comunque, in attuazione del principio ricavabile dall’art. 75 del d.p.r. 445/2000, suscettibile di determinare, anche a prescindere dalla sussistenza del reato di falso, la reiezione della domanda ed in ogni caso indicativo di una non compiuta integrazione e conoscenza dei principi che informano anche il procedimento di cui si tratta.
Del pari non fondata è la censura con cui si lamenta la mancata valutazione delle osservazioni presentate ai sensi dell’art. 10 bis, l. 241/1990.
Per quanto osservato non vi sono ragioni per ritenere che l’Amministrazione le abbia ignorate quanto piuttosto averle giudicate tali da non mettere in discussione la sussistenza dei presupposti per il diniego, fondate sulla assenza della irreprensibilità della condotta e di altri requisiti.
Si rileva inoltre che la ricorrente non allega nessun particolare requisito idoneo a suffragare una adeguata e completa integrazione nella comunità nazionale, né meriti speciali.
Inapplicabile al procedimento di concessione della cittadinanza per naturalizzazione è poi l’art. 6 della legge 91/92, in quanto riguarda, come appare evidente dal testo, le diverse ipotesi di acquisto della cittadinanza ai sensi dell’art. 5 della legge citata.
Deve quindi concludersi che il provvedimento appare adeguatamente motivato e scevro dalle dedotte censure, con conseguente reiezione del ricorso.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.