TAR Ancona, sez. I, sentenza 2016-03-04, n. 201600122

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Ancona, sez. I, sentenza 2016-03-04, n. 201600122
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Ancona
Numero : 201600122
Data del deposito : 4 marzo 2016
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 00704/2013 REG.RIC.

N. 00122/2016 REG.PROV.COLL.

N. 00704/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 704 del 2013, proposto da:
Società Bigoni Marino e Domenico S.n.c., rappresentata e difesa dagli avv. M P, C C, con domicilio eletto presso Avv. Annalisa Cecchetti in Ancona, Via Marsala, 10;

contro

Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distr. dello Stato, domiciliata in Ancona, piazza Cavour, 29;

per la condanna

del Ministero intimato al risarcimento dei danni causati e causandi:

- dal provvedimento D.M. 2/10/2002 nonché dai provvedimenti successivi D.M. 19/3/2003, D.M. 28/4/2004, D.M. 1/7/2004, D.M. 26/7/2007, D.M. 19/12/2007, D.M. 22/12/2008, provvedimenti tutti relativi all'esercizio dell'attività di pesca dei molluschi bivalvi con draga idraulica nei Compartimenti Marittimi di Ancona, Civitanova Marche e San Benedetto del Tronto, emanati dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, impugnati con ricorso notificato in data 4/11/2002 e successivi motivi aggiunti, ed annullati dal TAR Marche con sentenza n. 855/2009, depositata in data 5/8/2009;

- da ogni altro atto comunque presupposto, connesso e conseguente.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 febbraio 2016 il dott. G M e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO



1. Con la recente sentenza n. 72/2016, pubblicata in data 13 gennaio 2016, la Sez. III del Consiglio di Stato ha confermato la sentenza di questo Tribunale n. 19/2015, pronunciata su un ricorso del tutto analogo a quello in esame.

Si riportano di seguito i passi della sentenza n. 19/2015 rilevanti ai fini della presente decisione:

“1. Con sentenza n. 855/2009, passata in giudicato, questo Tribunale aveva annullato una serie di decreti che il Ministero odierno resistente aveva adottato a far tempo dal 2002 per regolamentare la pesca dei molluschi bivalvi nel tratto di mare di competenza del Compartimento Marittimo di Ancona. In particolare, per venire incontro alle esigenze della marineria di San Benedetto del Tronto e prevenire sconfinamenti nel tratto di mare di competenza del compartimento anconetano, il Ministero, su parere della Conferenza Permanente di Coordinamento Nazionale Gestione Molluschi Bivalvi, aveva suddiviso il tratto di mare nel quale erano abilitate a pescare le imbarcazioni iscritte ad Ancona in due sub-settori (Area A e Area B), prevedendo che:

- nell’Area A potessero pescare le imbarcazioni iscritte al Compartimento di Ancona e stanziate nel capoluogo marchigiano (per un totale di 54 imbarcazioni);

- nell’Area B potessero pescare le 19 imbarcazioni iscritte al Compartimento di Ancona ma stanziate nel porto di Civitanova Marche e 25 imbarcazioni iscritte al Compartimento di San Benedetto del Tronto, individuate nominativamente nei decreti in argomento.

I proprietari delle 19 imbarcazioni civitanovesi avevano censurato i decreti ministeriali sul presupposto che le misure adottate restringevano di molto il tratto di mare nel quale potevano in precedenza pescare (anche in ragione del fatto che questo tratto di mare ridotto doveva essere per di più condiviso con le imbarcazioni sanbenedettesi).

Oltre a contestare il merito della misura, i ricorrenti avevano dedotto il vizio di incompetenza dello Stato a disciplinare con provvedimenti di dettaglio una materia come la pesca, la quale, a seguito della riforma costituzionale del 2001, appartiene alla competenza legislativa concorrente, per cui le funzioni amministrative di dettaglio competono sicuramente alle Regioni.



2. Il Tribunale, superate alcune eccezioni preliminari, ha accolto il ricorso affermando proprio l’incompetenza dello Stato a disciplinare nel dettaglio una problematica di respiro esclusivamente sub-regionale.

In applicazione, seppure implicita, del principio di diritto desumibile dall’allora vigente art. 26, comma 2, L. n. 1034/1971, il Tribunale non ha esaminato nel merito le altre censure, rivestendo valenza assorbente il dedotto vizio di incompetenza.

In punto di fatto va aggiunto che successivamente la Regione Marche, anche in attuazione del decisum del TAR, ha finalmente posto mano alla materia, adottando misure sostanzialmente sovrapponibili a quelle assunte nel corso degli anni dal Ministero. In applicazione della sentenza n. 855/2009 e dell’art. 13, comma 2, della L.R. n. 11/2004, la Regione ha infatti adottato il Reg. n. 6/2009, il cui art. 10 contiene la normativa transitoria, inizialmente valida fino al 30 giugno 2011, ed in particolare l’articolazione delle aree di pesca. Questa articolazione, come detto, è del tutto analoga a quella adottata dal Ministero, prevedendosi un restringimento del tratto di mare riservato alle imbarcazioni anconetane (nel quale però sono nuovamente ammesse a pescare le imbarcazioni di Civitanova Marche) e uno sdoppiamento del tratto di mare riservato alle imbarcazioni sanbenedettesi (le quali vengono divise in due gruppi, a ciascuno dei quali è riservato un areale di pesca). Tale atto regolamentare è stato impugnato davanti a questo Tribunale sia dal Co.Ge.Vo. di Ancona che dal Co.Ge.Mo. di Pesaro, ma tali ricorsi sono stati, rispettivamente, respinto e dichiarato inammissibile (vedasi le sentenze nn. 455/2011 e 594/2011).

Il termine di vigenza della misura transitoria, già posticipato al 31/1/2012, è stato poi ulteriormente prorogato fino al 30 giugno 2016 dall’art. 6, comma 1, del Reg. n. 5/2013.



3. Con il presente ricorso alcuni dei proprietari delle imbarcazioni stanziali nel porto di Civitanova Marche che erano state interessate dai provvedimenti ministeriali annullati con la sentenza n. 855/2009 propongono una domanda risarcitoria onde essere ristorati dei danni asseritamente subiti per effetto dei provvedimenti medesimi.

Quanto agli elementi costitutivi dell’illecito civile della P.A. i ricorrenti evidenziano che:

- le misure annullate dal TAR erano illegittime perché adottate senza tenere conto delle diverse potenzialità di pesca oggettivamente esistenti nell’Area A e nell’Area B e quindi degli interessi delle imbarcazioni iscritte nel compartimento di Ancona che venivano dirottate nell’Area B (le quali sono venute a subire un pregiudizio ingiusto, mentre per converso la flotta sanbenedettese si è giovata di un diradamento del numero di barche abilitate a pescare nel tratto di mare di specifica competenza del compartimento di San Benedetto del Tronto);

- la sentenza n. 855/2009 ha già qualificato come ingiusto il danno subito dalle imprese di pesca civitanovesi.

Quanto alla individuazione delle voci di danno di cui si chiede il ristoro i ricorrenti hanno prodotto sei perizie di parte redatte dal commercialista dott. T, nelle quali si asserisce che le imprese istanti hanno diritto al ristoro dei seguenti danni:

- lucro cessante (mancati guadagni discendenti dal fatto che imprese medesime sono state obbligate a pescare in un tratto di mare più povero di risorse ittiche);

- danno emergente (inteso come reintegrazione del patrimonio depauperato dai risultati negativi della gestione aziendale);

- spese sostenute per il pregresso contenzioso svoltosi davanti a questo Tribunale (in sede di conteggio, tale voce di danno viene inclusa nel danno emergente).

All’esito di tali perizie, i danni vengono così quantificati per ciascuna delle imprese ricorrenti:

[…]



4. Si è costituito l’intimato Ministero, il quale ha ribadito nel merito la correttezza della soluzione adottata all’epoca dei fatti (esponendo le ragioni storiche che avevano portato all’adozione delle misure poi annullate dal TAR) ed ha eccepito pregiudizialmente la decadenza della presente azione risarcitoria, atteso che:

- l’art. 30 cod. proc. amm., pur prevedendo che l'azione risarcitoria sia proponibile anche in via autonoma, dispone al comma 3 che essa sia soggetta ad un termine decadenziale di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento, se il danno deriva direttamente da questo;

- sotto il profilo processuale l'azione di risarcimento per lesione di interessi legittimi è soggetta al termine di decadenza sopra detto e quindi ha per oggetto un atto che per effetto di essa non può più essere compiuto;
mentre l'azione di risarcimento del danno per lesione di diritti soggettivi non è soggetta al termine di prescrizione di 120 giorni bensì al termine prescrizionale quinquennale ex art. 2935 c.c. La previsione del termine decadenziale per l'esercizio dell'azione ex art. 30 D.lgs. n. 104/2010 è dettata da evidenti esigenze di stabilizzazione delle vicende che coinvolgono la pubblica amministrazione;

- nel caso in esame il termine risulta superato sia che si assuma come dies a quo il passaggio in giudicato della sentenza n. 855/2009, sia che si faccia decorrere il medesimo termine dalla data di entrata in vigore del codice del processo amministrativo (16 settembre 2010);

- la tesi prospettata dai ricorrenti sul termine decadenziale applicabile nella specie appare quindi del tutto errata, perché la ratio posta alla base dei termini di decadenza previsti in materia di annullamento di atti giuridici emanati da poteri pubblici risponde all'esigenza di certezza del diritto e di stabilità dei rapporti giuridici, connessa al rilievo che l'atto pone un assetto di interessi rilevante sul piano superindividuale. L'individuazione di un termine di decadenza di 120 giorni consente un soddisfacente punto di equilibrio del sistema, essendo tale termine sicuramente ragionevole. L'azione risarcitoria non incide, inoltre, sulla dinamica dei rapporti giuridici di cui lo stesso soggetto è titolare. Può dunque affermarsi che il legislatore ha coerentemente disciplinato l'esercizio dell'azione risarcitoria con l'istituto della decadenza e non già della prescrizione;

- nella presente vicenda, l’Amministrazione non solo ha agito per la tutela della risorsa ittica, ma soprattutto, in assenza di determinazioni regionali, ha emanato i decreti impugnati per evitare situazioni di forte tensione fra le diverse marinerie;

- alle imprese ricorrenti, poi, non è stato inibito in assoluto il diritto di pescare, ma è solo stata delimitata diversamente l'area nella quale hanno potuto esercitare la pesca. I decreti impugnati non hanno cioè compresso il diritto alla pesca dei molluschi bivalvi, disciplinando invece una diversa operatività delle imbarcazioni a tutela dell'ordine pubblico;

- relativamente al presunto nesso di causalità (che i ricorrenti affermano sussistere tra la condotta illegittima dell'Amministrazione e il danno sofferto), esso è quella relazione tra due eventi che identifica l'uno come conseguenza dell'altro. Se il danno consiste nel mancato conseguimento di un risultato vantaggioso, è necessaria anche la ragionevole certezza che detto risultato si sarebbe verificato in assenza dell'atto illegittimo. In materia di pesca, però, la necessità del contingentamento della risorsa è dettata dalla politica di gestione e conservazione per lo sfruttamento sostenibile delle risorse in ottemperanza al Reg. CE n. 1967/2006. Nella cura del predetto interesso pubblico l'Amministrazione può addivenire alla limitazione dello sforzo di pesca anche attraverso la riduzione delle licenze rilasciate (art. 4 della L. n. 41/1982), e questa politica è stata costantemente seguita dal Ministero, che ha infatti sempre rilasciato le autorizzazioni alla pesca dei molluschi bivalvi dopo l'acquisizione, da parte degli organismi legittimati, dei dati scientifici sulla disponibilità della risorsa.

L’Avvocatura dello Stato evidenzia inoltre che nella fattispecie in esame sono coinvolti diversi interessi pubblici (tutela dell'ambiente, libertà di esercizio dell'impresa e ordine pubblico) che solo apparentemente confliggono tra loro, essendo in realtà coincidenti e tutelati insieme dalla normativa applicata che è intesa a difendere al tempo stesso l'ambiente, bene di rilievo costituzionale ex art. 9 Cost., come bene comprensivo della razionale gestione e del miglioramento delle condizioni naturali, nonché dell'esistenza e preservazione dei patrimoni genetici terrestri e marini (viene al riguardo richiamata la sentenza n. 210/1987 della Consulta) ed altresì il lavoro e l'iniziativa economica privata, protetti dagli artt. 35 e 41 Cost., beni tutti, che la normativa restrittiva sull'indiscriminato sfruttamento delle risorse marine tiene presente e contempera, in quanto le possibilità lavorative nel settore sarebbero irrimediabilmente compromesse, nel medio e nel lungo periodo, in mancanza di adeguate misure razionalizzatici che lascerebbero l'attività in parola libera al punto tale da compromettere in modo non reversibile le risorse.

Si è dunque operato procedendo ad una valutazione comparativa dei contrapposti interessi pubblici e privati, alla luce dei principi della legge n. 41/1982 e s.m.i., il che già dovrebbe far ritenere assente nella specie la c.d. colpa d’apparato. In base alla giurisprudenza prevalente della Cassazione e del Consiglio di Stato non è infatti sufficiente accertare la illegittimità di un provvedimento per poter affermare la responsabilità patrimoniale della P.A. per i danni prodotti dall’esecuzione dell’atto, dovendosi invece procedere ad un giudizio sulla “spettanza” del bene della vita sottostante.

[…].

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