TAR Roma, sez. I, sentenza 2024-06-24, n. 202412717

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Roma, sez. I, sentenza 2024-06-24, n. 202412717
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Roma
Numero : 202412717
Data del deposito : 24 giugno 2024
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 24/06/2024

N. 12717/2024 REG.PROV.COLL.

N. 09615/2023 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9615 del 2023, proposto da
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato V D M, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Ministero della Giustizia e Csm Consiglio Superiore della Magistratura, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore , rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per l'annullamento

- del decreto del Ministro della Giustizia del 20 aprile 2023 di revoca dall'incarico di giudice onorario di pace;

per l’accertamento,

- del diritto del ricorrente, quale Giudice di Pace in servizio dall’11 aprile 2003 e ininterrottamente fino al 26 aprile 2023, ad ottenere le stesse condizioni di lavoro del magistrato ordinario equiparabile di ex magistrato di tribunale livello HH03 dal 11 aprile 2003 fino al 31.5.2024 o fino al raggiungimento del 70° anno di età nel caso di superamento della seconda procedura di valutazione per magistrati onorari di cui al D.M. 8 giugno 2023, ripristinando il rapporto di lavoro e l’incarico di Giudice di pace illegittimamente interrotto in data 26 aprile 2023;

e per la condanna

- del Ministero della giustizia al pagamento delle differenze retributive maturate e maturande, con la regolarizzazione della posizione contributiva e previdenziale.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia e del Csm Consiglio Superiore della Magistratura;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 24 aprile 2024 il dott. Alberto Ugo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. – Con delibera assunta in data 12 aprile 2023, il Consiglio Superiore della Magistratura ha disposto la revoca del ricorrente dall’incarico di giudice onorario di pace, ritenendo che lo stesso non fosse idoneo ad esercitare le funzioni giudiziarie, per aver adottato “ provvedimenti non previsti dalla legge o fondati su grave violazione di legge o travisamento del fatto, determinati da ignoranza o negligenza ”, ai sensi dell’art. 21, comma 4, lett. a), D.Lgs. 13 luglio 2017, n. 116.

1.1. – Ad avviso del CSM, il ricorrente ha emesso almeno tre provvedimenti giurisdizionali fondati su grave violazione di legge.

Più in particolare, in tre giudizi, il ricorrente ha fissato l’udienza in modalità cartolare e ha, poi, trattenuto la causa in decisione emettendo la relativa sentenza, nonostante le parti non avessero depositato le note di trattazione scritta e dovessero, dunque, essere considerate assenti in forza dell’art. 221, comma 4, D.L. n. 34 del 2020.

Secondo il CSM, ai sensi della norma citata il deposito delle note scritte costituisce ineludibile premessa logico-giuridica dell’assunzione della causa in decisione, come risulta anche dal “ Protocollo per la trattazione cartolare delle udienze avanti al Giudice di Pace di Palermo per il periodo emergenziale ”.

L’assenza delle note, dunque, è ritenuta circostanza equiparabile alla mancata comparizione delle parti ai sensi degli artt. 181 e 309 c.p.c.

Il ricorrente, quindi, a fronte del mancato deposito delle note, avrebbe dovuto fissare una nuova udienza e, successivamente, dichiarare estinto il giudizio, non emettere la sentenza.

1.2. – In più, nella sentenza definitoria di uno dei predetti giudizi, il ricorrente ha rigettato la domanda dell’attore, condannandolo alla refusione delle spese di lite (euro 1.800,00, oltre accessori di legge), e ha, contestualmente, condannato uno dei convenuti vittoriosi al pagamento di una somma a titolo di responsabilità processuale aggravata ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., peraltro in un importo sproporzionato (euro 6.400,00), per non aver ottemperato ad un ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c.

A giudizio del CSM, il ricorrente non avrebbe potuto condannare la parte vittoriosa ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c. perché tale forma di responsabilità presuppone necessariamente la soccombenza della parte destinataria della misura.

2. – Con l’introduzione del presente giudizio, il ricorrente ha chiesto (a) l’annullamento del predetto provvedimento di revoca, nonché (b) l’accertamento del suo preteso diritto ad ottenere, quale pubblico dipendente, le stesse condizioni di lavoro del magistrato ordinario equiparabile di ex magistrato di tribunale livello HH03 dal 11 aprile 2003 fino al raggiungimento del 70° anno di età, ripristinando il rapporto di lavoro e l’incarico di giudice di pace interrotto con il provvedimento di revoca, con conseguente condanna del datore di lavoro, Ministero della giustizia, al pagamento delle differenze retributive maturate e maturande , con la regolarizzazione della posizione contributiva e previdenziale.

3. – Si sono costituiti in giudizio il Ministero della Giustizia e il CSM, insistendo per il rigetto del ricorso.

4. – A seguito della camera di consiglio del 19 luglio 2023, questo Tribunale ha emesso l’ordinanza n. -OMISSIS-del 2023, con la quale ha rigettato l’istanza di tutela cautelare proposta dal ricorrente.

L’ordinanza non è stata impugnata in appello.

5. – La causa è stata trattenuta in decisione all’udienza pubblica del 24 aprile 2024.

DIRITTO

6. – Il ricorso non è fondato.

7. – Sotto un primo profilo, il ricorrente ha contestato la legittimità del provvedimento di revoca dall’incarico di giudice onorario, sostenendo che nei tre provvedimenti giurisdizionali presi in esame dalla delibera del CSM non sarebbe ravvisabile alcuna “grave violazione di legge”.

Innanzitutto, con riguardo alle sentenze emesse nonostante le parti non avessero depositato le note scritte, il ricorrente ha evidenziato che nel “ Protocollo per la trattazione cartolare delle udienze avanti al Giudice di pace di Palermo per il periodo emergenziale ” non vi sarebbero indicazioni specifiche afferenti all’ipotesi di mancato deposito di note.

Inoltre, le disposizioni di cui all’art. 221, commi 3 e 4 del D.L. n. 34 del 2020 farebbero unicamente riferimento al Processo Civile Telematico, il quale non sarebbe stato, al tempo, nella disponibilità del Giudice di pace. Quest’ultimo, dunque, non sarebbe stato autorizzato ad attribuire rilievo al mancato deposito delle note scritte.

Con riferimento, invece, alla disposta condanna della convenuta al pagamento di una somma a titolo di responsabilità processuale aggravata, il ricorrente afferma di aver ritenuto sussistere, nel caso di specie, una reciproca soccombenza delle parti, stante il comportamento ostativo mantenuto dalla convenuta in ordine all’adempimento di cui all’art. 210 c.p.c.

Il ricorrente richiama sul punto alcune pronunce della Corte di Cassazione che avrebbero sanzionato la violazione dell’art. 88 c.p.c. (“ Dovere di lealtà e probità ”) in termini di abuso del processo.

Quanto alla sproporzione del quantum della condanna, si evidenzia come fosse necessario preservare la natura afflittiva della sanzione, anche considerate le caratteristiche del suo destinatario (una compagnia di assicurazione).

Da ultimo, sarebbe rinvenibile una contraddizione tra il provvedimento di revoca qui impugnato e la precedente delibera del 9 dicembre 2020 del CSM che ha confermato il ricorrente nelle sue funzioni di Giudice di pace fino al 31 maggio 2024.

7.1. – Le censure non sono fondate.

7.2. – Deve convenirsi, innanzitutto, con le argomentazioni svolte dal CSM in merito al fatto che la conseguenza processuale del mancato deposito delle note scritte ad opera delle parti fosse inequivocabilmente stabilita dall’art. 221, comma 4, del D.L. 34 del 2020, che così disponeva “ Il giudice può disporre che le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti siano sostituite dal deposito telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni. […] Se nessuna delle parti effettua il deposito telematico di note scritte, il giudice provvede ai sensi del primo comma dell'articolo 181 del codice di procedura civile ”.

Nessun dubbio poteva, inoltre, sussistere in merito all’applicabilità di tale disposizione di carattere emergenziale anche ai procedimenti avanti al Giudice di Pace di Palermo, posto che il “ Protocollo per la trattazione cartolare delle udienze avanti il Giudice di pace di Palermo per il periodo emergenziale ”, sottoscritto in data 1° aprile 2021 dal Presidente del Tribunale di Palermo, dal Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, dal Magistrato ausiliario e dalla Dirigente amministrativa, specificava che “ il giudice nel verbale di udienza, darà atto del deposito di “note scritte”, ed adotterà i conseguenti provvedimenti di carattere decisorio ovvero volti all’ulteriore corso del giudizio ”.

Il Protocollo prevedeva, dunque, che il deposito delle note scritte costituisse presupposto necessario per l’adozione di provvedimenti a carattere decisorio, ovvero finalizzati all’ulteriore corso del giudizio, rinviando alle previsioni degli artt. 181 e 309 c.p.c.

A nulla rileva la circostanza (peraltro contestata, in punto di fatto, dalle Amministrazioni resistenti) che nell’ufficio del Giudice di Pace di Palermo non fosse attivo il sistema di deposito telematico degli atti.

Il citato Protocollo per la trattazione cartolare dell’udienza si riferiva, infatti, al “deposito delle note scritte”, senza distinguere in base alle modalità di deposito.

Alla luce di tutto ciò, nei giudizi menzionati, il ricorrente non avrebbe dovuto emettere sentenza, ma piuttosto disporre un rinvio della trattazione della causa e, successivamente, dichiarare estinto il giudizio.

La condotta tenuta dal ricorrente integra, di conseguenza, la fattispecie dell’adozione di provvedimenti “ fondati su grave violazione di legge … determinati da ignoranza o negligenza ”, di cui all’art. 21, comma 4, D.Lgs. n. 117 del 2016, come ritenuto dal CSM nel provvedimento impugnato.

7.3. – La medesima fattispecie risulta integrata anche dall’aver emesso una sentenza in cui è stata condannata la parte convenuta al pagamento di una somma a titolo di responsabilità processuale aggravata, nonostante la domanda di parte attrice fosse stata integralmente rigettata e la medesima parte attrice condannata al rimborso delle spese di lite in favore dei convenuti.

È noto, infatti, che la responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. integra una particolare forma di responsabilità processuale che può essere posta a carico della parte riconosciuta come “soccombente”, avendo riguardo alle domande proposte dall’attore e alle difese del convenuto.

Condizione, questa, che non può rinvenirsi in capo ad una parte che sia risultata pienamente vittoriosa nel merito (con tanto di liquidazione delle spese di lite anche in suo favore), ma che non abbia ottemperato all’ordine di esibizione di un documento ai sensi dell’art. 210 c.p.c. nel corso del giudizio.

La valutazione del CSM al riguardo appare corretta, in quanto, anche a voler per ipotesi ravvisare, nel mancato adempimento all’ordine ex art. 210 c.p.c., una condotta in violazione del dovere di lealtà e probità processuale ex art. 88 c.p.c., la stessa avrebbe potuto essere eventualmente considerata – secondo l’orientamento più recente della giurisprudenza di legittimità – ai fini della regolamentazione delle spese, in applicazione dell’art. 92 c.p.c., comma 1, ultima parte, ma non ai fini di una condanna ex art. 96 c.p.c. ( cfr ., in termini, Cass. Civ., Sez. II, 13 maggio 2022, n.15319).

E ancora, anche a voler, sempre per ipotesi, accedere alla tesi del ricorrente, secondo cui nel caso di specie si sia verificata una sorta di “soccombenza reciproca” tra le parti del giudizio, non vi sarebbero state comunque le condizioni per disporre una condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c., seguendo l’orientamento consolidato della giurisprudenza che afferma che “ la responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., integra una particolare forma di responsabilità processuale a carico della parte soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, sicché non può farsi luogo all’applicazione della norma quando non sussista il requisito della totale soccombenza per essersi verificata soccombenza reciproca ” ( cfr . Cass. Civ., Sez. II, 19 ottobre 2020, n. 22647).

Il giudizio espresso dal CSM non appare, peraltro, confutato dalle pronunce giurisprudenziali citate dal ricorrente a propria difesa:

i) Cass. Civ., Sez. III, ordinanza, 12 giugno 2018, n. 15209 ha affermato che l’applicazione dell’art. 96, comma 3, c.p.c. “ non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di "abuso del processo", quale l'aver agito o resistito pretestuosamente (Cass. 27623/2017) e cioè nell'evidenza di non poter vantare alcuna plausibile ragione ”;
circostanza evidentemente differente da quella di cui è causa in cui la convenuta è stata riconosciuta pienamente vittoriosa rispetto alla pretesa vantata dall’attore nei suoi confronti;

ii) la nota pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione in tema di riconoscimento di una sentenza estera di condanna al risarcimento dei danni c.d. punitivi (Cass. Civ., Sez. Un., 5 luglio 2017, n. 16601), cita il “ novellato art. 96, comma 3, c.p.c., che consente la condanna della parte soccombente al pagamento di una "somma equitativamente determinata", in funzione sanzionatoria dell'abuso del processo ”, richiamando quindi il concetto di “soccombenza” senza ulteriormente specificare nel senso sostenuto dal ricorrente in atti;

iii) Cass. Civ., 18 maggio 2015, n. 10177 ha cassato con rinvio la sentenza di appello, ritenendo che la stessa avesse “ omesso di considerare che in tanto può essere affermato un abuso dello strumento processuale (con le conseguenze allo stato affermate dalla giurisprudenza di questa Corte che il giudice di appello ha richiamato) in quanto sia in concreto accertato l’abuso che deve consistere nell'illegittimità delle modalità della utilizzazione dello strumento processuale con riferimento, da un lato, all'aspettativa del debitore a non vedere diminuito il suo patrimonio in misura eccedente quanto sia strettamente necessario per la realizzazione del diritto del creditore e, dall'altro con riferimento al diritto, pure riconosciuto dall'ordinamento, alla tutela accelerata mediante decreto ingiuntivo per i crediti provati con documentazione sottoscritta dal debitore che non era invece accordata per il residuo credito ”;
l’abuso del processo, nei termini descritti dalla presente sentenza, non può certamente essere rinvenuto nel caso di specie ove il convenuto è stato destinatario di una domanda giudiziale che è risultata infondata nel merito;

iv) Cass. Civ., Sez. III, 30 marzo 2018, n. 7901 afferma, inter alia , che “ Fin dalla giurisprudenza più remota si è infatti riconosciuta l’incompatibilità tra la condanna per lite temeraria e il difetto di integrale condanna alle spese processuali, vale a dire la compensazione ” e, infatti, riconosce che nel caso sottoposto al suo esame “ La natura di tutte le censure presenti nel ricorso, inoltre, come ictu oculi emerge già dalle osservazioni al riguardo effettuate, è connotata da una così eclatante infondatezza che non si può disconoscere una colpa grave nella loro proposizione - per la prima anzi una mala fede -, in riferimento all'art. 96 c.p.c., comma 3, c.p.c., nel caso in esame sine dubio applicabile per la completa soccombenza del ricorrente (la norma è intrinsecamente in combinato disposto con l'art. 91 c.p.c. che appunto richiama) ”, così confermando la correttezza della valutazione del CSM nel caso di specie;

v) da ultimo, Cass. Civ., Sez. un., 13 settembre 2018, n. 22405 oltre a formulare principi analoghi a quelli sopra riferiti, afferma che “ Non può omettersi di richiamare, poi, l'orientamento giurisprudenziale e dottrinale in base al quale la norma in esame deve intendersi intesa a sanzionare la violazione dei doveri di lealtà e probità sanciti dall'art. 88 c.p.c., in maniera tale da realizzare un vero e proprio abuso della potestas agendi, attraverso un'utilizzazione del potere di promuovere la lite, di per sé legittimo, per fini diversi da quelli per i quali il potere stesso è preordinato, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte ”;
la sentenza richiama quindi un’ipotesi di abuso del potere di promuovere una lite che non può dirsi configurato nel caso di specie ove la pretesa rivolta nei confronti del convenuto è stata giudicata integralmente infondata.

7.4. – L’importo, pari a euro 6.400,00, a cui la convenuta è stata condannata ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., appare inoltre effettivamente sproporzionato, come ritenuto dal CSM, visto che è pari a oltre il triplo delle spese di lite (euro 1.800,00).

7.5. – Alla luce di tutto quanto supra illustrato deve ritenersi che sia corretta la valutazione del CSM che ha giudicato i provvedimenti adottati dal ricorrente affetti da grave violazione di legge e, dunque, idonei a comportare la revoca dalle funzioni ai sensi dell’art. 21, comma 4, lett. a), D.Lgs. n. 117 del 2016.

7.7. – Non sussiste, inoltre, alcuna incongruenza tra il provvedimento di revoca del ricorrente (deliberato in data 12 aprile 2023) e il precedente provvedimento di conferma del medesimo nell’incarico per il quadriennio 2020-2024, deliberato dal CSM circa tre anni prima (in data 9 dicembre 2020).

Il provvedimento di revoca è, infatti, fondato su condotte (deliberazione delle tre sentenze sopra citate nell’anno 2022) tenute dal ricorrente successivamente alla delibera di conferma nell’incarico, le quali, dunque, non potevano essere tenute in considerazione dal CSM nell’effettuare tale ultima valutazione.

8. – Sotto differente profilo, il ricorrente chiede l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di pubblico impiego equiparabile a quello del magistrato ordinario, con ogni conseguenza in ordine al trattamento economico e previdenziale.

La domanda si fonda sui principi enunciati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nelle sentenze del 16 luglio 2020 (C-658/18) e, più di recente, del 7 aprile 2022 (C-236/20), nonché dalla sentenza n. 267/2020 della Corte costituzionale e dalle lettere di messa in mora della Commissione europea del 15 luglio 2021 e del 15 luglio 2022 concernenti i giudici di pace italiani, e, in particolare, sulla presunta violazione delle clausole 4 e 5 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato e degli articoli 3, 5, 6 e 7 della direttiva 2003/88/CE sull'orario di lavoro.

8.1. – La domanda non può essere accolta.

8.2. – La controversa questione inerente alla pretesa equiparazione del magistrato onorario al giudice togato e alla conseguente supposta violazione delle citate disposizioni del diritto europeo nel trattamento riservato ai magistrati onorari è stata già ritenuta infondata da questo Tribunale e, più di recente, dal Consiglio di Stato in vari precedenti, ai quali si può rinviare ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 74, comma 4, c.p.a. ( cfr . Cons. Stato, Sez. VII, 20 marzo 2024, n. 2723; id. , 9 febbraio 2024, n. 1334; id ., 30 gennaio 2024, n. 931;

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