TAR Venezia, sez. III, sentenza 2022-03-17, n. 202200442

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Venezia, sez. III, sentenza 2022-03-17, n. 202200442
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Venezia
Numero : 202200442
Data del deposito : 17 marzo 2022
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 17/03/2022

N. 00442/2022 REG.PROV.COLL.

N. 00559/2016 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto

(Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 559 del 2016, proposto da
Ave Technologies S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dagli avvocati M Z e L B, con domicilio eletto presso lo studio Francesco Acerboni in Mestre-Venezia, via Torino, 125;

contro

Inps - Istituto Nazionale della Previdenza Sociale e Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, non costituiti in giudizio;
Inps - Istituto Nazionale della Previdenza Sociale - Direzione Provinciale di Venezia, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dagli avvocati S A, A G, A T, F D e S A, con domicilio eletto presso l’avvocato A G in Venezia, Dorsoduro, 3519/I;

per l'annullamento

del provvedimento dell'Inps datato 24.2.2016 di "reiezione domanda relativa a Decreto di concessione n. 88587 del 13.3.2015".


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Inps - Istituto Nazionale della Previdenza Sociale - Direzione Provinciale di Venezia;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 marzo 2022 la dott.ssa M B e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

La Ave Technologies, nata dall’acquisto del ramo d’azienda della Ave Industries s.r.l. e vocata alla produzione di impianti di imbottigliamento, ha gravemente subìto le conseguenze della crisi iniziata nel 2009 e, quindi, da tale anno, ha fruito di un primo periodo di cassa integrazione guadagni straordinaria per riorganizzazione ex art. 1 comma 3 della legge 223/1991, per ventiquattro mesi (da febbraio 2010 a febbraio 2012), poi prorogato per altri dodici mesi, considerata la complessità dei processi produttivi.

Successivamente, da febbraio 2013 a febbraio 2014 ha fruito di dodici mesi di cassa integrazione guadagni ordinaria per mancanza di commesse, nonché di due mesi, da febbraio a marzo 2014, di Cassa integrazione guadagni in deroga. Il tutto coinvolgendo un numero sempre più decrescente di operai: da 108 a 18.

Dall’1 aprile 2014 essa ha chiesto (fino al 30 settembre 2014) un ulteriore periodo di CIGS, ai sensi dell’art. 1 lettera e) del DM 31862/2002, in ragione della grave crisi sul mercato dell’est (connessa alla crisi dell’Ucraina e all’occupazione russa in Crimea): mercato che rappresentava, in quel momento, il 35 % del fatturato.

La CIGS è stata concessa con decreto ministeriale del 13 marzo 2015, n. 88587, ma al momento della liquidazione del conguaglio delle somme antipate, l’INPS (soggetto a ciò deputato) ha escluso ogni corresponsione, essendo stato superato il limite di trentasei mesi di CIGS nell’arco del quinquennio 2010-2015.

Ritenendo che tale provvedimento fosse viziato per violazione dell’art. 1, comma 9 della legge n. 223/1991, nonché per eccesso di potere e difetto di motivazione, la Ave Technologies lo ha impugnato, contestando che nel computo del periodo di CIGS fruito potessero essere compresi i seguenti periodi: dodici mesi di proroga di CIGS per riorganizzazione, due mesi di CIG in deroga e sei mesi di CIGS per evento imprevisto (da aprile a settembre 2014).

In particolare, secondo la tesi di parte ricorrente, i dodici mesi di proroga della CIGS non avrebbero dovuto essere conteggiati, perché il comma 9 dell’art. 1 citato afferma che il limite di trentasei mesi può essere superato “per i casi di proroga di cui al comma 3”. Se la norma non fosse interpretata in questo senso sarebbe incostituzionale, perché consentirebbe a chi ha goduto già di trentasei mesi di prorogare comunque la CIGS per altri dodici, creando una disparità di trattamento con chi della proroga abbia fruito prima del raggiungimento del limite di 36 mesi.

Inoltre, la fattispecie di crisi aziendale per cui è stata chiesta la CIGS ora negata è stata introdotta nell’ordinamento da una norma del 2002. Ciò comporterebbe, secondo quanto dedotto in ricorso, l’impossibilità di computarla nel calcolo del limite temporale massimo imposto alla cassa integrazione straordinaria dalla legge 223/1991, previgente rispetto all’introduzione del nuovo ammortizzatore sociale in parola.

Si è costituito in giudizio INPS, eccependo l’inammissibilità del ricorso, in quanto la società ricorrente avrebbe impugnato il provvedimento di reiezione della domanda di CIG emesso dall’Inps in data 08.03.2017, omettendo il preventivo obbligatorio esperimento del gravame amministrativo dianzi al competente Comitato Amministratore g.p.t.l.d. dell’Inps di cui all’art. 24 della L.88/1989.

Il ricorso sarebbe, altresì, inammissibile a causa della mancata notificazione dello stesso ai lavoratori dipendenti cui si riferisce la domanda di CIG impugnata (il giudice del lavoro, infatti, ha previsto, con riferimento ad alcuni lavoratori che hanno agito contro l’odierna ricorrente, l’obbligo della Ave Technologies di procedere al “pagamento in favore dell’Inps dei contributi relativi alle posizioni dei ricorrenti non versati per il periodo di CIGS alla quale non è stata ammessa (1/4/14 – 30/9/14 o comunque sono alla cessazione del rapporto di lavoro)”.

Nel merito il ricorso sarebbe infondato, in quanto, a decorrere dal d. lgs. 148/2015, per ciascuna unità produttiva aziendale, i trattamenti straordinari di integrazione salariale non possono avere una durata complessiva superiore a trentasei mesi nell'arco di un quinquennio fisso, indipendentemente dalle cause per le quali sono stati concessi.

Ciò precisato, la competenza a verificare - nell'emanazione dei decreti concessori del trattamento straordinario di integrazione salariale - il rispetto dei limiti temporali relativi a ciascuna tipologia d'intervento CIGS sarebbe esclusivamente del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, mentre per quanto attiene ai limiti complessivi nel quinquennio, relativi a ciascuna unità produttiva, l'incombenza della verifica graverebbe sulla sede Inps.

Per tale ragione i decreti ministeriali concedenti il trattamento straordinario demandano espressamente all’INPS la verifica del rispetto del limite massimo di trentasei mesi previsto dalla normativa.

In vista dell’udienza pubblica, parte ricorrente, dopo aver riproposto, in palese violazione del principio di sinteticità degli atti giudiziari, tutta la ricostruzione della vicenda in fatto, ha introdotto un nuovo motivo di illegittimità del provvedimento impugnato, non precedentemente dedotto nel ricorso e cioè la violazione e falsa applicazione dell’art. 1 bis del D.L. 108/2002, convertito con modifiche dalla legge 172/2002. Il provvedimento, infatti, sarebbe stato adottato da un organo incompetente, poiché il diniego della liquidazione della CIGS avrebbe dovuto essere preceduto da un atto di revoca del provvedimento di ammissione alla CIGS stessa, da adottarsi da parte del Ministero del Lavoro. Al fine di sostenere ciò è stata richiama la giurisprudenza formatasi sull’impugnazione dei provvedimenti di revoca del Ministero, rispetto a cui è stata disposta la estromissione dell’INPS. È altresì stata ribadita la teoria della non inclusione nel computo del limite dei trentasei mesi del periodo di CIGS concesso in proroga, chiedendo un’interpretazione costituzionalmente orientata.

Quindi parte ricorrente ha replicato alle eccezioni di inammissibilità.

Alla pubblica udienza del 9 marzo 2022, la causa, su conforme richiesta dei procuratori delle parti, è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

Preliminarmente debbono essere esaminate le eccezioni in rito, le quali non meritano positivo apprezzamento.

In primo luogo, in quanto il ricorso in sede amministrativa dinanzi al Comitato Amministratore g.p.t.l.d, previsto dall’art. 26 della legge n. 88/1989 è stato regolarmente esperito come dimostrato dalla produzione in giudizio di copia dello stesso.

Inoltre, i lavoratori non possono essere qualificati come portatori di un interesse giuridicamente qualificato alla conservazione del provvedimento di reiezione della CIGS. Conseguentemente, essi non possono essere qualificati come controinteressati in senso tecnico e, dunque, la loro mancata notificazione non può determinare l’inammissibilità del ricorso.

Passando all’esame del merito della controversia, deve darsi atto che risulta incontestato il fatto che la ricorrente ha fruito, nell’arco del quinquennio decorrente dalla data di approvazione del programma di ristrutturazione - avvenuta il 27 luglio 2010 -, di trentasei (di cui i primi sei non computabili nel limite massimo del quinquennio per le ragioni di cui si dirà nel prosieguo e dodici in proroga) mesi di CIGS per ristrutturazione aziendale, a cui debbono aggiungersi cinquantadue settimane di CIG ordinaria concesse dal 4 febbraio 2013 al 4 febbraio 2014.

Secondo l’Amministrazione resistente, dunque, il limite della durata massima del trattamento di integrazione salariale sarebbe stato abbondantemente superato prima della concessione dell’ulteriore periodo di sei mesi di CIGS oggetto del contendere: ragione per cui INPS, con il provvedimento censurato, ha escluso la sussistenza dei presupposti per la liquidazione delle integrazioni salariali riferite alla nuova richiesta di CIGS (per crisi del mercato).

Tale presupposto oggettivo è contestato con il ricorso in esame, teso a dimostrare l’illegittima inclusione, nella verifica del limite suddetto, del periodo di proroga della CIGS che, invece, secondo parte ricorrente, avrebbe dovuto essere escluso, pena l’incostituzionalità della norma, laddove dovesse essere interpretata nel senso che la proroga possa consentire il superamento del limite di trentasei mesi solo se concessa dopo il raggiungimento del limite massimo.

Le conclusioni di INPS che sono alla base dell’impugnato diniego appaiono, però, conformi alla normativa vigente.

Il comma 9 dell’art. 1 della legge n. 223/1991, nella versione vigente al momento della ammissione alla CIGS con decreto ministeriale del marzo 2015 (relativo al periodo di sei mesi per cui INPS ha negato la liquidazione), prevedeva espressamente che “ Per ciascuna unità produttiva i trattamenti straordinari di integrazione salariale non possono avere una durata complessiva superiore a trentasei mesi nell'arco di un quinquennio, indipendentemente dalle cause per le quali sono stati concessi, ivi compresa quella prevista dall'articolo 1 del decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 1984, n. 863. Si computano, a tal fine, anche i periodi di trattamento ordinario concessi per contrazioni o sospensioni dell'attività produttiva determinate da situazioni temporanee di mercato. Il predetto limite può essere superato, secondo condizioni e modalità determinate dal CIPI ai sensi del comma 6, per i casi previsti dall'articolo 3 della presente legge, dall'articolo 1 del decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 1984, n. 863, dall'articolo 7 del decreto-legge 30 dicembre 1987, n. 536, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 febbraio 1988, n. 48, ovvero per i casi di proroga di cui al comma 3 ”.

Per quanto di interesse, la norma non è stata modificata con la novella del 2015, entrata in vigore prima dell’adozione del provvedimento censurato.

Dal suo tenore letterale si può desumere, come chiarito nella circolare INPS dell’11 aprile 1995, n. 103, che i limiti temporali relativi al trattamento straordinario di integrazione salariale (di cui all’art. 1 della legge n. 223/1991) rilevano su due diversi fronti:

a) quello relativo alla durata massima autorizzabile, pari, per quanto riguarda la fattispecie della riorganizzazione aziendale, a ventiquattro mesi, prorogabili per due volte per un periodo non eccedente per ciascuna proroga i dodici mesi;

b) quello relativo alla durata complessiva degli interventi di integrazione salariale usufruibili nel quinquennio da ciascuna unità produttiva, che non può eccedere i trentasei mesi nel periodo.

I due limiti debbono, pertanto, essere tra di loro combinati e la regola generale sulla durata massima ora riportata può essere derogata solo nel caso ricorrano le eccezioni di cui all’ultima parte del comma 9 della norma e a cui potrebbe essere ricondotta anche la fattispecie in esame.

Contrariamente a quanto vorrebbe parte ricorrente, però, tale disposizione derogatoria non prevede che il periodo di proroga della CIGS non sia computato nel limite massimo di trentasei mesi di integrazione salariale assentibili nell’arco dello stesso quinquennio, ma consente il superamento di tale limite quando ciò sia collegato alla necessità di concedere una proroga per il completamento del progetto di ristrutturazione alla base della concessione della CIGS. In altre parole il legislatore ha previsto, nel caso l’impresa stia fruendo di un trattamento straordinario di integrazione salariale per ristrutturazione aziendale e ricorrano le condizioni di legge per consentire una proroga dello stesso, che ciò possa avvenire anche superando il periodo di trentasei mesi complessivi.

La ratio di tale deroga al limite massimo è individuabile nello scopo stesso della proroga, che è quello di consentire il completamento di un complesso processo di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale non ancora terminato.

Individuata l’esatta portata della norma, nella fattispecie in esame la ricorrente risulta aver goduto di ventiquattro mesi di CIGS (di cui i primi sei non sono stati conteggiati nel quinquennio, in quanto decorsi prima dell’approvazione del progetto di riorganizzazione), prorogati di ulteriori dodici mesi, in ragione della complessità della ristrutturazione aziendale posta in essere. Tale trattamento si è protratto, dunque, da agosto 2010 a febbraio 2013.

Successivamente, la stessa ditta è stata ammessa a dodici mesi di CIG ordinaria, per mancanza di commesse e, ancora, da marzo ad aprile 2014 a una CIG in deroga (non computata nel calcolo del limite).

Appare, dunque, chiaro come la proroga in questione sia stata concessa prima che si ponesse un problema di rispetto del limite temporale massimo e comunque non ha precluso all’azienda interessata di fruire di un periodo di dodici messi di integrazione salariale ordinaria.

La nuova ammissione alla CIGS richiesta nel 2014 non ha alcun collegamento con le cause che hanno determinato la precedente fruizione degli ammortizzatori sociali, essendo stata richiesta per far fronte ad eventi improvvisi ed imprevisti (la crisi sul mercato internazionale). Si tratta, dunque, di una nuova e autonoma istanza che doveva, così come è stato, essere assoggettata alla verifica del rispetto del limite temporale massimo.

Non vi è spazio, dunque, per la prospettata questione di legittimità costituzionale, posto che essa si appalesa come manifestamente infondata, se si considera la sopra riportata ratio della norma, che ammette l’ampliamento del beneficio di legge nel solo caso in cui la proroga dell’integrazione salariale straordinaria sia giustificata dalla opportunità di garantire la possibilità di portare a completamento il progetto di ristrutturazione aziendale approvato e ancora in corso di realizzazione in quel momento.

Nel caso di specie tale completamento è avvenuto, tant’è che prima della richiesta di CIGS oggetto del ricorso, l’azienda ha fruito di integrazioni salariali ordinarie collegate a una diversa causa di crisi aziendale (la mancanza di commesse) e la stessa nuova richiesta di CIGS è motivata da una causa a sua volta ulteriore (la crisi del mercato internazionale). Trattandosi di domande tra di loro totalmente autonome, il riconoscimento di ulteriori sei mesi di cassa integrazione straordinaria è stato negato sulla scorta della previsione di legge, a causa del superamento del limite massimo imposto non essendo ravvisabile una ipotesi di proroga di una misura già in corso.

Non vi è, dunque, nessuna disparità di trattamento, potendosi ritenere che si sia in presenza di situazioni diverse, che giustificano una diversa previsione di legge e, quindi, non sussiste alcuna problematica di rispetto dei principi costituzionali.

Anche quanto dedotto con riferimento al fatto che la CIGS da ultimo richiesta non sarebbe soggetta al limite dei trentasei mesi in quanto si tratterebbe di una ipotesi di CIGS non prevista dal comma 9 dell’art. 1 della legge 223/91 (ma introdotta dal legislatore successivamente), non merita positivo apprezzamento.

Come si desume chiaramente dalla domanda presentata, la CIGS richiesta per l’anno 2014 è motivata da una “crisi aziendale”: causa, questa, puntualmente prevista e disciplinata dal comma 5 dell’art. 1 della legge n. 223/1991. A nulla rileva che la crisi aziendale vissuta dalla ricorrente e che l’ha indotta a chiedere l’ammortizzatore sociale sia riconducibile alla fattispecie introdotta dal D.M. 31826/2002 (art. 1, lettera e).

Si tratta, infatti, di una norma attuativa, integrativa della previsione generale di cui alla legge 223 del 1991, che ha contribuito a definire il concetto generale di “crisi aziendale” disciplinata dal comma 5 dell’art. 1 della stessa, così come chiaramente si desume dall’ incipit dell’art. 1 del DM in parola, che stabilisce “i seguenti criteri per l'approvazione dei programmi di crisi, aziendale, ai sensi dell'art. 1, comma 5, della legge 23 luglio 1991, n. 223”.

A nulla rileva nemmeno il fatto che il legislatore del 2016 (e, quindi, dopo il decreto di ammissione alla CIGS) abbia introdotto una nuova ipotesi di CIGO, in caso di “Sospensione o riduzione dell’attività lavorativa per mancanza di lavoro o di commesse derivante dall’andamento del mercato o del settore merceologico dell’impresa” (art. 3, c. 3 D.M. 95442/2016), definita anch’essa come “crisi di mercato”, in quanto nella fattispecie è stata richiesta la diversa misura della CIGS per crisi aziendale, così come allora disciplinata nei termini più sopra riportati.

Anche in questo caso non è ravvisabile un’ipotesi di legittimità incostituzionale della norma, in quanto non è comprovato che la CIGO per crisi aziendale non rientri nel computo dei trentasei mesi, mentre quella straordinaria, per la stessa causa, vi rientra senz’altro ai sensi dell’art. 1 comma 9 della legge 223/1991.

L’INPS, nella circolare del 2 dicembre 2015, n. 197, chiarisce, infatti, come, ai sensi del d. lgs. n. 148 del 14 settembre 2015 recante disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro, gli interventi determinati da eventi oggettivamente non evitabili non sono computati nel limite delle cinquantadue settimane massime di CIGO nel biennio, ma tale norma, di carattere eccezionale non può essere estesa alla valutazione del limite complessivo delle integrazioni salariali nel quinquennio. Dunque, in assenza di una specifica norma derogatoria, che non è contenuta nel DM 95442/2016 che ha disciplinato la nuova ipotesi di CIGO collegata a situazioni di crisi di mercato, anche la CIGO per crisi aziendale deve essere computata nel limite massimo dei mesi autorizzabili nel quinquennio, con la conseguenza che non è ravvisabile alcun diverso trattamento che potrebbe avere effetti discriminatori, costituzionalmente rilevanti.

Il ricorso è infondato anche nella parte in cui deduce che l’INPS non avrebbe avuto titolo a negare la liquidazione dell’integrazione salariale ammessa dal Ministero. In disparte il fatto che lo stesso provvedimento che ammetteva la CIGS, mai impugnato da parte ricorrente, dà conto del fatto che la verifica del rispetto del limite dei trentasei mesi era rimesso all’INPS, la censura correlata alla carenza di competenza dell’INPS all’adozione del provvedimento avversato, in quanto avrebbe dovuto essere il Ministero a disporre la revoca, è stata irritualmente e quindi inammissibilmente proposta con la memoria depositata in vista dell’udienza pubblica, non notificata alla controparte.

Così respinto il ricorso, le spese del giudizio seguono l’ordinaria regola della soccombenza.

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