TAR Milano, sez. III, sentenza 2021-10-22, n. 202102326
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Testo completo
Pubblicato il 22/10/2021
N. 02326/2021 REG.PROV.COLL.
N. 01411/2021 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
(Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1411 del 2021, proposto da
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato S A T, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Milano, Via Tonale, n. 22;
contro
MINISTERO DELL'INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato, domiciliataria ex lege in Milano, Via Freguglia, n. 1;
per l'accertamento dell’illegittimità
del silenzio relativamente alla mancata conclusione del procedimento amministrativo avente ad oggetto l’emersione del rapporto di lavoro irregolare ai sensi dell’art. 103, comma 1, del d.l. n. 34 del 2020, avviato su domanda protocollata in data 29 giugno 2020 con n. MI4706959109 presentata dal richiedente Sig. -OMISSIS-a favore del ricorrente Sig. -OMISSIS-
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 19 ottobre 2021 il dott. S C C e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Con il ricorso in esame, il sig. -OMISSIS-ha chiesto l’accertamento dell’illegittimità del silenzio serbato dall’amministrazione convenuta sulla domanda di emersione dal lavoro irregolare presentata in suo favore ai sensi dell’art. 103, comma 1, del d.l. 19 maggio 2020 n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 77 del 2020.
Nella prospettazione del cittadino straniero, essendo ormai decorsi i termini ordinari di conclusione del relativo procedimento (individuabili in trenta giorni, in assenza di previsione di diverso termine), il Ministero competente sarebbe ormai inadempiente rispetto all’obbligo di provvedere.
Si è costituita in giudizio l’amministrazione convenuta, e la causa è stata trattenuta in decisione ad esito della camera di consiglio del 19 ottobre 2021.
Il ricorso è fondato, secondo le argomentazioni già articolate dalla Sezione nelle sentenze n. 1785 del 2021 e n. 2145 del 2021 su analoga fattispecie.
In quest’ultima pronuncia, la Sezione ha in particolare osservato che in materia di domanda di emersione dal lavoro irregolare di cui all’art. 103, comma 1 del d.l. n. 34 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 77 del 2020 “si è formato un orientamento giurisprudenziale (che ha recepito un precedente indirizzo su fattispecie similare del passato) volto a negare la sussistenza di un termine entro il quale l’amministrazione procedente deve concludere il procedimento.
Tanto, in considerazione dell’assenza di un termine normativamente previsto, della non applicabilità della disciplina dei termini di cui all’art. 2 della L. n. 241 del 1990 ai procedimenti riguardanti l’immigrazione, della eccezionalità in tale contesto delle procedure di emersione e dell’assenza di pregiudizio concreto arrecata all’interessato dai tempi "dilatati" di conclusione di tali procedimenti amministrativi.
Il Collegio non può condividere questa impostazione, ritenendo, da un lato, che la stessa crei una frizione con valori costituzionalmente tutelati (oltre che, nel suo riflesso processuale, un vuoto di tutela giurisdizionale), dall’altro, che sussistano elementi interpretativi del dato normativo di segno contrario rispetto a quanto sostenuto e sopra richiamato in materia.
Occorre preliminarmente evidenziare che l’obbligo di conclusione del procedimento amministrativo (di tutti i procedimenti amministrativi) entro un determinato termine costituisce diretta applicazione del precetto costituzionale di cui all’art. 97, comma 2 della Costituzione, secondo cui “i pubblici uffici sono organizzati (…) in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell'amministrazione”.
Il buon andamento della “macchina” organizzativa pubblica presuppone la possibilità per il cittadino che ad essa si rivolge di poter contare su tempi certi – e possibilmente ragionevoli – nella conclusione di un procedimento che debba obbligatoriamente conseguire ad una istanza.
In altri termini, se specifiche disposizioni normative prevedono che l’interessato possa conseguire un bene della vita soltanto tramite l’intermediazione dell’autorità pubblica e l’interessato in questione si attiva per conseguire concretamente tale bene, sarebbe contrario al principio costituzionale del “buon andamento” lasciare all’amministrazione la scelta di rispondere o meno.
Ogni soluzione diversa dall’obbligo di concludere il procedimento amministrativo “mediante l'adozione di un provvedimento espresso” (così come è in effetti previsto dall’art. 2, comma 1 della L. n. 241 del 1990) – e salve le ipotesi di silenzio significativo -, si tradurrebbe nel conferimento ai pubblici uffici di un potere arbitrario, tipico di uno Stato non democratico.
Tale potere arbitrario, inoltre, in quanto astrattamente esercitabile a discrezione, in casi “selezionati” di volta in volta dal preposto a quel singolo procedimento, determinerebbe inevitabilmente anche una lesione dell’altro principio espressamente tutelato dalla Costituzione in materia di pubblici uffici, ovvero l’imparzialità dell’azione amministrativa.
Si arriverebbe infatti al paradosso, lasciando piena libertà sull’an e sul quando dell’agere pubblico provvedimentale, di avere, in ordine alla stessa tipologia di istanze, soggetti privilegiati (quelli che, in relazione all’ambito territoriale o burocratico di riferimento, ricevono riscontro alla loro istanza) e soggetti sfavoriti (quelli che, in un diverso ambito territoriale o burocratico di riferimento, non ottengono alcun riscontro alla loro istanza).
Verrebbe meno, inoltre, accogliendo un’impostazione diversa dall’obbligatorietà della conclusione di ogni procedimento con provvedimento espresso o anche implicito (qualora ricorrano ipotesi di silenzio diniego o di silenzio assenso), ed entro tempi certi, anche la possibilità di tutela giurisdizionale rispetto all’inerzia dell’amministrazione, con lesione dell’art. 24 della Costituzione, secondo cui “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”.
E’ infatti ovvio che dietro un’istanza vi sia sempre una posizione soggettiva in fase di espansione o di perfezionamento, e che l’inerzia dell’amministrazione preclude a tempo indeterminato l’ottenimento del bene della vita a cui aspira l’interessato, obiettivo non adeguatamente raggiungibile con il risarcimento del danno per equivalente (che necessita in ogni caso di idonea prova).
Il meccanismo di tutela giurisdizionale previsto nell’ipotesi di silenzio inadempimento è peraltro inscindibilmente connesso allo “sforamento” del termine di conclusione del procedimento, tanto è vero che il codice del processo amministrativo stabilisce, all’art. 31, comma 1, che soltanto “decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo e negli altri casi previsti dalla legge, chi vi ha interesse può chiedere l'accertamento dell'obbligo dell'amministrazione di provvedere”.
Senza l’individuazione di un termine di conclusione del procedimento, dunque, l’art 31 diventa inapplicabile – e conseguenzialmente anche l’art. 117 c.p.a. -, perché l’assenza di un termine implica anche l’impossibilità di agire processualmente contro l’inerzia dell’amministrazione.
In linea di principio, dunque – e in ossequio ai dettami della Costituzione di uno Stato democratico quale è il nostro –, ogni procedimento amministrativo “necessario” (che consegua cioè obbligatoriamente ad una istanza) deve concludersi entro un determinato termine e con l’adozione di un provvedimento, esplicito o implicito che sia.
Il termine generale entro il quale il procedimento deve essere concluso, qualora non siano previsti dall’ordinamento giuridico specifici e diversi termini, è quello indicato dall’art. 2, comma 2 della L. n. 241 del 1990, ovvero trenta giorni.
La norma non lascia spazio a soluzioni diverse dall’alternativa “termine di 30 giorni/termine più lungo”, perché il comma 2 dell’articolo 2 sopra citato non dice che disposizioni di legge ovvero i provvedimenti di cui ai commi 3, 4 e 5 possono “non” prevedere un termine, ma soltanto che possono prevedere “un termine diverso”.
E il comma 4 dell’art. 2 della L. n. 241 del 1990 – che è la norma che ci interessa più da vicino, in relazione al caso oggetto dell’odierna controversia – così dispone: “Nei casi in cui, tenendo conto della sostenibilità dei tempi sotto il profilo dell'organizzazione amministrativa, della natura degli interessi pubblici tutelati e della particolare complessità del procedimento, sono indispensabili termini superiori a novanta giorni per la conclusione dei procedimenti di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali, i decreti di cui al comma 3 sono adottati su proposta anche dei Ministri per la pubblica amministrazione e l'innovazione e per la semplificazione normativa e previa deliberazione del Consiglio dei ministri. I termini ivi previsti non possono comunque superare i centottanta giorni, con la sola esclusione dei procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e di quelli riguardanti l'immigrazione”.
Dunque, l’esclusione di cui all’ultimo periodo (“procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e di quelli riguardanti l'immigrazione”), per ragioni di coerenza logica e sistematica, non può che riferirsi all’esclusione di tali procedimenti da quelli che devono avere un termine di conclusione del procedimento non superiore a 180 giorni, e non alla loro esclusione sic et simpliciter dal regime dei termini del procedimento.
In altre parole, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta dei Ministri competenti e di concerto con i Ministri per la pubblica amministrazione e l'innovazione e per la semplificazione normativa, può essere individuato, per i procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e per i procedimenti riguardanti l'immigrazione, un termine di conclusione superiore a centottanta giorni.
E ciò è tanto vero, se si pensa che per una delle due tipologie di “esclusione” previste dalla L. n. 241 del 1990 (procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana per matrimonio o per concessione), è stato previsto da un atto normativo primario (L. n. 92 del 1991) che “il termine di definizione dei procedimenti di cui agli articoli 5 e 9 è fissato in ventiquattro mesi prorogabili fino al massimo di trentasei mesi dalla data di presentazione della domanda”.
Non conferenti, infine, rispetto alla risoluzione della questione giuridica controversa sono gli ultimi due argomenti spesi a sostegno dell’orientamento che ritiene legittima in questi casi (procedimenti per l’emersione dal lavoro irregolare) l’inerzia “senza fine” dell’amministrazione.
Quanto al primo (eccezionalità delle procedure di emersione) basti rilevare che l’eccezionalità della specifica procedura, in termini di previsione normativa e di deroga rispetto all’ordinario svolgimento dei procedimenti regolativi dell’immigrazione, non giustifica certamente un regime di eccezione rispetto alla disciplina della L. n. 241 del 1990, qualora non espressamente previsto dalla specifica norma regolativa della fattispecie.
Quanto al secondo (assenza di pregiudizio concreto arrecata all’interessato dai tempi "dilatati" di conclusione di tali procedimenti amministrativi), si tratta di un argomento di mero fatto, che tendenzialmente può essere utilizzato anche per altre fattispecie per le quali non è mai stato messo in discussione il rispetto obbligatorio di un termine per l’adozione del provvedimento espresso (o implicito), e che dimentica che il bene-tempo costituisce, di per sé, un valore degno di tutela giurisdizionale.
In definitiva, essendo decorsi più di trenta giorni dalla domanda procedimentale dell’interessato – e dovendo applicarsi al procedimento di emersione dal lavoro irregolare tale termine di conclusione del procedimento ex art. 2, comma 2 della legge sul procedimento amministrativo, in assenza di previsione espressa di diversi termini – il silenzio serbato dall’amministrazione procedente deve essere considerato illegittimo.
Ritiene il Collegio che queste considerazioni siano del tutto condivisibili e che, quindi, l’Amministrazione avrebbe dovuto dare riscontro all’istanza di cui è causa. Va dunque dichiarata l’illegittimità del silenzio serbato su tale istanza;l’Amministrazione va, conseguentemente, condannata a provvedere su di essa nel termine di trenta giorni decorrente dalla comunicazione della presente sentenza.
Considerato che l’inerzia è maturata in un particolare contesto, caratterizzato dal notevole numero di istanze da esaminare e da indicazioni giurisprudenziali non univoche, non si ritiene che allo stato occorra nominare un Commissario ad acta.
La non univocità degli orientamenti giurisprudenziali giustifica la compensazione delle spese.