TAR Firenze, sez. II, sentenza 2009-04-17, n. 200900669

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Firenze, sez. II, sentenza 2009-04-17, n. 200900669
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Firenze
Numero : 200900669
Data del deposito : 17 aprile 2009
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 01388/2005 REG.RIC.

N. 00669/2009 REG.SEN.

N. 01388/2005 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana

(Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1388 del 2005, proposto dalla sig.ra
B C, rappresentata e difesa dagli avv.ti G C ed E B e con domicilio eletto presso lo studio degli stessi, in Firenze, via Lamarmora 29

contro

Comune di Camaiore, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. R C e con domicilio eletto presso la Segreteria T.A.R. in Firenze, via Ricasoli 40

per l’annullamento,

previa sospensione dell’efficacia, anche mediante immediata sospensione con decreto presidenziale inaudita altera parte,

- dell’ordinanza a firma del dirigente dell’Ufficio Attività Produttive e P.A. del Comune di Camaiore, n. 276 dell’11 agosto 2005, notificata il 13 agosto 2005, recante ingiunzione alla sig.ra B C di procedere all’immediata chiusura dell’esercizio di vendita sito in Lido di Camaiore, lungomare Europa 80/81;

- della nota del Comune di Camaiore – S.U.A.P., prot. n. 34057 del 16 giugno 2005, ricevuta il 30 giugno 2005, recante declaratoria di inefficacia e conseguente archiviazione della comunicazione di apertura dell’esercizio di vicinato, presentata dalla ricorrente il 29 aprile 2005;

- della nota a firma del dirigente dell’Ufficio Attività Produttive e P.A. del Comune di Camaiore, prot. n. 41220 del 26 luglio 2005, recante comunicazione, ex art. 7 della l. n. 241/1990, di avvio del procedimento per l’emanazione dell’ordinanza di chiusura dell’esercizio di vicinato;

- di ogni altro atto presupposto, connesso e consequenziale.


Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Camaiore e le memorie e la documentazione da questo depositate;

Visti l’istanza di emissione di misure cautelari urgenti inaudita altera parte, nonché il decreto presidenziale n. 667/2005 del 1° settembre 2005, recante accoglimento della stessa;

Vista la domanda di sospensione degli atti impugnati, formulata in via incidentale dalla ricorrente;

Vista l’ordinanza n. 725/2005 dell’8 settembre 2005, recante accoglimento della suddetta domanda di sospensione;

Visti tutti gli atti della causa;

Nominato relatore, nell’udienza pubblica del 19 marzo 2009, il dr. P D B;

Uditi i difensori presenti delle parti costituite, come specificato nel verbale;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:


FATTO

L’odierna ricorrente, sig.ra B C, espone di aver presentato in data 29 aprile 2005 al Comune di Camaiore – S.U.A.P. la comunicazione (modello COM 1) di apertura di un esercizio di vicinato, ex art. 7 del d.lgs. n. 114/1998, tramite cui comunicava, appunto, l’apertura ex novo di un esercizio di commercio al dettaglio di vicinato per il settore non alimentare, ubicato in Lido di Camaiore, lungomare Europa 80/81.

Il Comune, avendo riscontrato l’incompletezza della comunicazione per la mancata specificazione della superficie di vendita e degli estremi del certificato di agibilità dell’immobile, con nota prot. n. 24800 del 4 maggio 2005 provvedeva a richiedere all’esponente le necessarie integrazioni.

In data 28 maggio 2005 la sig.ra C depositava una comunicazione integrativa della precedente, dichiarando che la superficie di vendita era di mq. 123 ed allegando una dichiarazione autocertificata di agibilità dei locali. Il successivo 30 maggio, non avendo ricevuto dal Comune di Camaiore alcuna comunicazione contraria all’apertura dell’esercizio commerciale, l’esponente procedeva all’apertura di questo. Tuttavia, l’Ufficio edilizia del Comune di Camaiore, competente per il subprocedimento relativo all’agibilità, riscontrava l’irregolarità sotto tale profilo dei locali: pertanto, lo Sportello Unico delle Attività Produttive (S.U.A.P.) del Comune adottava il 16 giugno 2005 la nota prot. n. 34057 – ricevuta, peraltro, dall’interessata solo il 30 giugno 2005 – con cui dichiarava l’inefficacia (e la conseguente archiviazione) della comunicazione del 29 aprile 2005, non risultando completa e regolare l’agibilità del locale in cui si intendeva svolgere l’attività commerciale.

Il proprietario dell’immobile (e locatore) si attivava al fine di regolarizzare la situazione dello stesso da punto di vista edilizio, portando a termine la relativa pratica con l’ottenimento della concessione in sanatoria, ma in data 21 luglio 2005 il Comune confermava la declaratoria di inefficacia e conseguente archiviazione della comunicazione del 29 aprile 2005, questa volta sotto il profilo della non rispondenza alla realtà della dichiarazione circa la superficie di vendita dei locali resa dall’interessata: quest’ultima, peraltro, sottolinea di aver solo riportato le indicazioni contenute nella dichiarazione di agibilità redatta dal proprietario dell’immobile, e che la superficie si sarebbe ridotta a seguito della pratica di concessione in sanatoria.

A seguito del persistere dell’apertura dell’esercizio, il Comune procedeva ad applicare all’esponente una sanzione pecuniaria con verbale di contestazione n. 1007 del 22 luglio 2005. Quindi, con nota prot. n. 41220 del 26 luglio 2005 (ricevuta il giorno seguente), comunicava l’avvio del procedimento di emanazione dell’ordinanza di chiusura dell’esercizio. Infine – e nonostante la presentazione, da parte dell’esponente stessa, di una memoria difensiva in data 1° agosto 2005 – con ordinanza a firma del dirigente dell’Ufficio Attività Produttive e P.A., n. 276 dell’11 agosto 2005, notificata il successivo 13 agosto, disponeva l’immediata chiusura dell’esercizio commerciale per cui è causa.

La sig.ra C in data 19 agosto 2005 ha presentato una nuova comunicazione di apertura dell’esercizio (modello COM 1), integrata il 29 agosto 2005 e riscontrata dall’Amministrazione, indicando stavolta una superficie di vendita di mq. 63 e la certificazione di agibilità. Nondimeno, dolendosi della suindicata ordinanza di chiusura, emanata dal Comune in data 11 agosto 2005, l’ha impugnata con il ricorso indicato in epigrafe, chiedendone l’annullamento, previa sospensione e previa emanazione di misure cautelari urgenti inaudita altera parte.

A supporto del gravame ha dedotto le doglianze di:

-violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 22 del d.lgs. n. 114/1998, travisamento dei fatti, erroneità dei presupposti, illogicità manifesta, in quanto una volta decorsi trenta giorni dalla comunicazione di apertura dell’esercizio, si forma il silenzio assenso e quindi la P.A. non potrebbe più intervenire su un atto (la predetta comunicazione) che ha ormai esaurito i propri effetti;

- eccesso di potere e carenza del requisito della proporzionalità, giacché l’interesse che il Comune intende tutelare sarebbe di natura formale (la corretta esecuzione della pratica amministrativa) e per conseguenza la sua lesione non potrebbe implicare il sacrificio della libertà di iniziativa economica della ricorrente.

Con decreto presidenziale n. 667/2005 del 1° settembre 2005 è stata accolta l’istanza di emissione di misure cautelari d’urgenza inaudita altera parte.

Si è costituito il Comune di Camaiore, eccependo in via pregiudiziale l’inammissibilità del ricorso per violazione de ne bis in idem, per avere la ricorrente previamente instaurato, ai sensi dell’art. 700 c.p.c., un giudizio avente identico contenuto davanti al Tribunale civile di Lucca. Sempre in via pregiudiziale, ha poi eccepito la carenza di interesse dalla ricorrente a coltivare il giudizio, avendo essa presentato in data 19 agosto 2005 una nuova comunicazione di apertura dell’esercizio, in tal modo mostrandosi acquiescente rispetto alle determinazioni comunali. Nel merito, ha poi concluso per l’infondatezza del gravame, chiedendone la reiezione, previa reiezione, altresì, dell’istanza di sospensione.

Nella Camera di consiglio dell’8 settembre 2005 il Collegio, ritenuta la sussistenza di un adeguato fumus boni juris, con ordinanza n. 725/2005 ha accolto la domanda incidentale di sospensione.

In vista dell’udienza pubblica il Comune di Camaiore ha depositato una memoria, sottolineando il proprio interesse alla decisione del merito della controversia, atteso il persistente inadempimento della sanzione pecuniaria, fondata sul medesimo presupposto assunto a base dell’ordinanza contestata in questa sede.

All’udienza del 19 marzo 2005 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

La ricorrente impugna, unitamente agli atti connessi richiamati in epigrafe, l’ordinanza del Comune di Camaiore n. 276 dell’11 luglio 2005, con la quale le è stata ingiunta l’immediata chiusura dell’esercizio commerciale di vicinato sito in Lido di Camaiore, lungomare Europa 80/81, dalla ricorrente stessa aperto a seguito di comunicazione ex art. 7 del d.lgs. n. 114/1998, presentata il 29 aprile 2005. Il provvedimento gravato si fonda, in particolare, sulla circostanza che, nonostante la declaratoria di inefficacia della predetta comunicazione (per la mancata indicazione esatta della superficie di vendita e la mancata indicazione degli estremi del certificato di agibilità), l’interessata ha ugualmente proceduto all’apertura del suddetto esercizio.

In via pregiudiziale va scrutinata l’eccezione di inammissibilità del gravame per asserita violazione del principio del ne bis in idem, formulata dalla difesa comunale sul rilievo della previetà rispetto al gravame stesso di un ricorso avente uguale contenuto proposto dall’interessata ai sensi dell’art. 700 c.p.c. dinanzi al Tribunale civile di Lucca, sezione distaccata di Viareggio.

L’eccezione è infondata.

Sul punto giova invero sottolineare che, come precisato dalla giurisprudenza (T.A.R. Campania, Sez. V, 10 giugno 2004, n. 9356;
id., 12 novembre 2003, n. 13483), il richiamo al divieto del ne bis in idem ed alle regole in materia di litispendenza (in specie il principio di prevenzione ex art. 39 c.p.c.) è erroneo, perchè l’istituto della litispendenza trova applicazione allorché una stessa causa venga intrapresa dinanzi a giudici diversi, ma comunque appartenenti alla giurisdizione ordinaria, e non invece quando le cause pendono davanti a giudici di giurisdizioni diverse. Infatti, l’art. 39 c.p.c. regola unicamente ipotesi di identità o continenza di controversie proposte davanti ad organi diversi dell’autorità giudiziaria ordinaria, tant’è che, ai sensi dell’art. 42 c.p.c., le questioni relative, pur non riguardando in senso stretto problematiche attinenti alla violazione dei criteri di ripartizione della cognizione all’interno della giurisdizione ordinaria, vengono risolte con il rimedio del regolamento necessario di competenza, che, ovviamente, non può invece essere utilizzato per risolvere questioni attinenti alla giurisdizione (cfr. T.A.R. Campania, Sez. V, nn. 13483/2003 e 9356/2004 cit., con la giurisprudenza ivi richiamata).

Pertanto, nella (differente) ipotesi della pendenza di cause di contenuto identico davanti a giudici di giurisdizioni diverse, l’esigenza di evitare e risolvere situazioni che possano implicare conflitti di giudicato ed incertezze nella definizione delle situazioni giuridiche, viene soddisfatta attraverso i criteri di riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo. Ai fini che qui rilevano, assume, quindi, rilievo l’art. 5 c.p.c., il quale stabilisce che la giurisdizione si determina con riguardo alla legge vigente al momento della domanda, senza che abbiano effetto i successivi mutamenti (principio della cd. perpetuatio jurisdictionis). In altri termini, il conflitto tra giudice amministrativo e giudice ordinario non si risolve in base al principio della prevenzione proprio della litispendenza – che non può derogare ai criteri di riparto della giurisdizione – bensì in forza del principio della cd. perpetuatio jurisdictionis e cioè facendo riferimento alla legge in vigore al momento della prima azione processuale, la quale segna in concreto il nascere della lite, laddove la successiva reiterazione dell’iniziativa davanti ad un giudice di diversa giurisdizione non è idonea ad incardinare la cognizione di un tal giudice sulla stessa domanda (Cass. SS.UU., 7 febbraio 2002, n. 1734).

Applicando i principi ora visti al caso di specie, è evidente che in questo il problema non è tanto di stabilire se al momento della proposizione del ricorso al T.A.R. la cognizione della lite spettasse al giudice amministrativo, quanto piuttosto di verificare se al momento (anteriore) della proposizione della causa davanti al giudice ordinario, la controversia rientrasse o meno nella giurisdizione di quest’ultimo. Peraltro, nella fattispecie in esame, la questione risulta già affrontata e risolta dallo stesso Tribunale civile adito, il quale, nel rigettare la domanda cautelare, ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione, per essere la controversia relativa ad un provvedimento amministrativo di carattere autoritativo, assunto dal Comune di Camaiore nell’esercizio dei propri poteri disciplinari riguardanti l’apertura degli esercizi commerciali. Una simile conclusione è senz’altro condivisa dal Collegio, al quale, perciò, non residua neppure il compito di accertare in via incidentale se all’epoca della prima iniziativa processuale la giurisdizione si radicasse dinanzi al G.A., piuttosto che al G.O., essendo stato tale accertamento già effettuato (in via diretta, e non solamente incidentale) dall’adito Tribunale civile.

Sempre in via pregiudiziale, va poi respinta l’eccezione, del pari formulata dal Comune resistente, di carenza di un interesse sostanziale della ricorrente a coltivare il giudizio e di comportamento acquiescente tenuto dalla ricorrente medesima con la riproposizione, in data 19 agosto 2008, della comunicazione, ex art. 7 del d.lgs. n. 114/1998, di apertura dell’esercizio (questa volta, dopo talune integrazioni, positivamente riscontrata dalla P.A.).

Sul punto, va in primo luogo escluso che il comportamento tenuto dalla interessata, mediante la riproposizione della comunicazione di apertura dell’esercizio di vicinato, possa configurarsi quale acquiescenza alle determinazioni assunte dal Comune con l’ordinanza gravata, in quanto, secondo la giurisprudenza, l’acquiescenza presuppone una condotta consapevole, da parte dell’avente titolo all’impugnazione, che sia libera ed inequivocabilmente diretta ad accettare l’assetto di interessi definito dalla P.A. attraverso gli atti oggetto di impugnazione (C.d.S., Sez. IV, 27 giugno 2008, n. 3255). Ora, nella vicenda de qua, è vero che la ricorrente ha ripresentato la comunicazione ex art. 7 del d.lgs. n. 114 cit. dopo l’emanazione del provvedimento impugnato, ma prima della proposizione del gravame (notificato il 26 agosto 2005), sicché secondo la medesima giurisprudenza potrebbero, in linea di principio, sussistere gli estremi della rinuncia preventiva all’iniziativa giurisdizionale (C.d.S., Sez. IV, n. 3255/2008, cit.). È altresì vero, tuttavia, che il comportamento posto in essere dall’interessato, per potersi configurare come acquiescente, oltre che liberamente posto in essere, deve essere chiaro ed inequivocabile, nel senso che da esso si possa evincere la volontà evidente ed irrefutabile dell’interessato stesso di accettare effetti ed operatività di pronunce (o determinazioni amministrative) a lui sfavorevoli, con il corollario che non può ammettersi un’acquiescenza basata su mere presunzioni, difettando in tal caso l’univoco riscontro della volontà del soggetto (v. C.d.S., Sez. IV, 2 ottobre 2006, n. 5743). Orbene, nel caso di specie, ad escludere che possa rinvenirsi un comportamento della sig.ra C di rinuncia preventiva a far valere le proprie ragioni in sede giurisdizionale, provvisto di quei caratteri di chiarezza ed inequivocabilità che si sono ora indicati, è sufficiente rammentare quanto dal Comune stesso riportato nella memoria finale e cioè il perdurare dell’inadempimento, ad opera della parte privata, all’obbligo di pagare la sanzione amministrativa a suo tempo irrogata e poggiante sull’identica ragione giuridica su cui si fonda l’ordinanza impugnata (l’apertura dell’esercizio in difetto di un titolo efficace). Da una tale condotta può ben dedursi che l’odierna ricorrente continua ad essere tutt’altro che convinta della legittimità dell’operato della P.A. nel caso di specie e che non ha smesso di contestarlo: donde l’esclusione di ogni significato di acquiescenza per il comportamento dalla stessa tenuto.

In ordine poi alla carenza dell’interesse della ricorrente a coltivare il giudizio, la stessa non sembra in alcun modo configurabile, in presenza di un atto palesemente lesivo degli interessi della predetta ricorrente e che potrebbe legittimare, da parte di quest’ultima, la proposizione di azioni risarcitorie. Ciò, viste anche le note affermazioni della giurisprudenza (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. IV, 3 novembre 2008 , n. 5478), secondo cui di sopravvenuta carenza di interesse – e dunque di improcedibilità del ricorso – può parlarsi solo ove si verifichi una situazione in fatto o in diritto del tutto nuova rispetto a quella esistente al momento della proposizione del gravame (situazione che, nella fattispecie qui in esame, potrebbe forse rinvenirsi nel riscontro, da parte del Comune, alla nuova comunicazione di apertura dell’esercizio avanzata dalla sig.ra C): situazione tale da rendere certa e definitiva l’inutilità della sentenza, nel senso di aver fatto venire meno per il ricorrente qualsiasi utilità della pronuncia del giudice, anche se solo strumentale, morale o comunque residua. Resta così in capo al giudice l’obbligo di verificare gli effetti del nuovo atto sul rapporto preesistente, onde stabilire se, nonostante il suo sopravvenire, l’eventuale sentenza di accoglimento del gravame, a prescindere dal suo contenuto eliminatorio del provvedimento impugnato, possa comportare o meno ulteriori effetti conformativi, ripristinatori o anche soltanto propedeutici a future azioni rivolte al risarcimento del danno.

Respinte, in definitiva, le eccezioni pregiudiziali formulate dalla difesa comunale e passando ora al merito del gravame, osserva il Collegio come quest’ultimo debba considerarsi infondato.

Ed invero, con il primo motivo la ricorrente lamenta che, decorsi trenta giorni dalla presentazione da parte sua della comunicazione di apertura del nuovo esercizio commerciale (avvenuta in data 29 aprile 2005), senza alcun intervento da parte della P.A., si sarebbe formato il silenzio assenso sulla suddetta comunicazione. Conseguentemente, la declaratoria di inefficacia ed archiviazione della comunicazione stessa, essendo stata emanata il 16 giugno 2005 e ricevuta il successivo 30 giugno, quindi ben oltre il decorso dell’indicato termine di trenta giorni, sarebbe stata inutiliter data, anche perché finalizzata ad intervenire su un atto (quale appunto la comunicazione in discorso) che aveva esaurito i propri effetti. Ogni atto adottato dal Comune dopo il decorso dei predetti trenta giorni e la conseguente formazione del silenzio assenso avrebbe potuto fondarsi soltanto su presupposti diversi dall’(asserita) inefficacia della comunicazione del 29 aprile 2005, la quale, invece, avrebbe svolto in pieno ogni suo effetto.

La doglianza non può essere condivisa.

Come puntualizzato dal Comune nelle proprie difese, supportate dalla documentazione versata in atti, la comunicazione di apertura dell’esercizio ex art. 7 del d.lgs. n. 114/1998, presentata il 29 aprile 2005 dall’interessata (doc. 6 della difesa comunale) era incompleta, non essendo stata in essa indicata la superficie complessiva dell’esercizio, come prescritto dall’art. 7, comma 2, lett. c), cit.;
sotto il profilo edilizio, inoltre, mancava la certificazione di agibilità dell’immobile, né nel modulo della comunicazione erano indicati gli estremi del certificato eventualmente già rilasciato. Perciò, con nota prot. n. 24800 del 4 maggio 2005, ricevuta il successivo 12 maggio, il S.U.A.P. rendeva note all’interessata le succitate omissioni, assegnandole un termine di trenta giorni per provvedere alle relative integrazioni: integrazioni che l’odierna ricorrente eseguiva soltanto in data 28 maggio 2005 (cioè al ventinovesimo giorno dalla presentazione della comunicazione originaria: cfr. doc. 8 della difesa comunale), fornendo peraltro, relativamente alla superficie di vendita, un dato rivelatosi poi inesatto (mq. 123). In presenza, quindi, di dichiarazioni incomplete ed erronee, risulta evidente che sulla comunicazione del 29 aprile 2005 non si sia potuto formare – decorso il termine di trenta giorni da tale data – alcun silenzio assenso. Né potrebbe concludersi che il suddetto termine abbia cominciato a decorrere dalla presentazione delle integrazioni richieste (28 maggio 2005) e che, pertanto, avendo l’interessata ricevuto solo il 30 giugno 2005 la declaratoria di inefficacia della sua comunicazione, su quest’ultima si sarebbe comunque formato il silenzio assenso, anche conteggiando i trenta giorni a far data dal 28 maggio 2005. In contrario, è infatti decisiva la considerazione che le “integrazioni” del 28 maggio 2005 erano tali solo in apparenza, avendo l’interessata dichiarato una superficie di vendita non rispondente a quella effettiva (anzi, quasi il doppio di questa) e non essendo la pratica relativa all’agibilità completa e regolare, nonostante la documentazione prodotta (cfr. doc. 9 della difesa comunale). Ciò, senza trascurare che l’ordinanza impugnata ricorda come sia stato necessario per la proprietà regolarizzare la pratica edilizia in questione anche sotto l’aspetto della destinazione d’uso dello scantinato: elemento, questo, non contestato dalla ricorrente. In definitiva, ad avviso del Collegio, l’incompletezza della comunicazione presentata (in ogni caso non conforme ai dettami dell’art. 7, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 114/1998) e l’erroneità dei dati successivamente forniti ad integrazione della stessa, hanno impedito che iniziasse a decorrere il termine trenta giorni previsto dall’art. 7, comma 1, cit. e che quindi si formasse un qualsivoglia silenzio assenso sulla menzionata comunicazione.

Si rammenta, in proposito, che in una decisione relativa all’assenza di conformità dell’attività da svolgere rispetto alla destinazione d’uso impressa all’immobile – la cui ratio decidendi è applicabile anche al caso ora in esame – la giurisprudenza ha già avuto modo di affermare che, ove il requisito della suddetta conformità tra attività e destinazione d’uso dell’immobile manchi, la comunicazione ex art. 7 del d.lgs. n. 114/1998 è priva di effetti: ciò, giacché il requisito in parola viene elencato dal medesimo art. 7 – alla lett. b) del comma 2 – tra quelli tassativamente prescritti per l’efficacia della comunicazione di apertura dell’esercizio (cfr. T.A.R. Campania, Salerno, Sez. II, 31 maggio 2004, n. 665). Ad identica conclusione deve pervenirsi anche nella fattispecie per cui è causa, nella quale la conformità della comunicazione presentata dalla ricorrente il 29 aprile 2005 ai requisiti prescritti a pena di efficacia dall’art. 7, comma 2, cit., non può dirsi conseguita – come sopra visto – neppure dopo le integrazioni apportate a siffatta comunicazione in data 28 maggio 2005.

In senso analogo, con riferimento alla fattispecie delle medie strutture di vendita di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 114 cit., la giurisprudenza ha precisato che la possibilità di configurare il silenzio assenso postula la sussistenza di tutti gli elementi soggettivi e oggettivi necessari per l’esercizio dell’attività commerciale, in quanto gli stessi rappresentano elementi costitutivi della fattispecie di cui si invoca il perfezionamento (T.A.R. Lombardia, Sez. III, 14 maggio 2003, n. 1781). Pertanto, il difetto del requisito essenziale consistente nella compatibilità urbanistica dell’intervento impedisce che sulla domanda possa formarsi il silenzio assenso per il decorso del termine di novanta giorni ex art. 8 cit.: ciò tenuto conto che colui che invoca la formazione, a proprio vantaggio, di un’utilità giuridica per silenzio assenso della P.A., ha l’onere di dimostrare la ricorrenza di tutti i presupposti necessari, essendo questi ultimi gli elementi costitutivi della fattispecie (C.d.S., Sez. V, 11 febbraio 1999, n. 145). Ne discende che la possibilità di conseguire l’autorizzazione implicita non è legata solamente al decorso del termine, ma esige anche la ricorrenza di tutti gli elementi richiesti dalla legge per il rilascio del titolo abilitativo (C.d.S., Sez. V, n. 145/1999, cit.;
T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III, n. 1781/2003, cit.;
cfr., inoltre, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II ter, 6 marzo 2002, n. 1745, secondo cui è da escludere che l’interessato, il quale non sia in grado di ottenere l’autorizzazione perché privo di tutti o di alcuni dei requisiti oggettivi o soggettivi, possa eludere le prescrizioni fissate dalla legge o dai regolamenti comunali attraverso la procedura del silenzio assenso fidando nei ritardi della P.A.).

Gli ora visti principi risultano applicabili anche alla fattispecie per cui è causa, in cui l’interessata, con la presentazione di un modulo incompleto dal quale non si evinceva la sussistenza in capo alla stessa dei requisiti di legge (per es. quanto ad agibilità dei locali), non può pretendere, valendosi del silenzio assenso, di eludere le prescrizioni normative. Ad opinare diversamente, del resto, dovrebbe riconoscersi l’idoneità a far decorrere il termine per la formazione del silenzio assenso anche in capo a dichiarazioni nulle o al limite inesistenti (ad es. sprovviste di sottoscrizione): conclusione che risulta, palesemente, del tutto assurda. Ciò, senza considerare che la fattispecie di cui all’art. 7 del d.lgs. n. 114/1998 – diversamente da quella del successivo art. 8, dove il silenzio assenso viene specificamente menzionato – potrebbe prestarsi ad una ricostruzione diversa da quella che in essa rinviene un tipico caso di silenzio assenso, sulla falsariga delle tesi che annettono alla d.i.a. natura di dichiarazione del privato, su cui non può formarsi alcun provvedimento autorizzatorio implicito della P.A.: con il ché, essendo il “titolo” dell’attività riconnesso alla semplice comunicazione del privato, seguita dal decorso del termine di legge, a maggior ragione la comunicazione in discorso dovrebbe essere completa e senza errori per poter integrare il suddetto titolo. Se ne desume la non condivisibilità – anche in questa diversa prospettiva – dei rilievi della ricorrente.

Va peraltro chiarito che l’intervento del Comune, in particolare con la declaratoria di inefficacia e conseguente archiviazione della comunicazione di apertura dell’esercizio contenuta nella nota del 16 giugno 2005, prot. n. 34057, non può in alcun modo configurarsi – come sembrerebbe desumersi dalle osservazioni della difesa comunale – quale atto di rimozione, revoca od annullamento di un titolo già formatosi, sia pur illegittimamente. Se si optasse per una tale ricostruzione della vicenda, l’intervento del Comune assumerebbe i connotati dell’autotutela e sarebbe quindi assoggettato alle regole proprie di questa (regole palesemente non rispettate nel caso di specie). In senso contrario, tuttavia, è sufficiente rilevare che qui non si è formato alcun titolo sia pure implicito, da rimuovere attraverso un provvedimento (costitutivo) di secondo grado, stante l’inefficacia della comunicazione del 29 aprile 2005. Non a caso, infatti, si è parlato della nota del 16 giugno 2005 sopra citata come di un atto recante la declaratoria di inefficacia della suddetta comunicazione, cioè l’accertamento (e presa d’atto) di una situazione già di per sé esistente: atto ricognitivo, pertanto, e non certo atto (di secondo grado) avente effetti costitutivi (di demolizione del titolo formatosi).

In definitiva, attesa l’inidoneità della predetta comunicazione del 29 aprile 2005 a produrre effetti, su di essa non può essersi formato alcun silenzio assenso;
del tutto correttamente, quindi, il Comune di Camaiore ha ritenuto l’attività svolta dall’odierna ricorrente carente di titolo e pertanto abusiva, ordinando l’immediata chiusura dell’esercizio ai sensi dell’art. 22, comma 6, del d.lgs. n. 114/1998. Ne discende l’infondatezza della doglianza ora analizzata, che va, dunque, respinta.

Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta il difetto di proporzionalità della misura adottata, alla luce della natura della violazione in cui sarebbe incorsa e quindi dell’interesse meramente formale della P.A. ad un’esecuzione della pratica amministrativa formalmente corretta, a fronte del ben più pregnante interesse fatto valere da essa ricorrente (la libertà dell’iniziativa economica privata ex art. 41 Cost.). Ciò tanto più rileverebbe nel caso di specie, in cui la sproporzione della misura adottata sarebbe confermata dal fatto che, a seguito delle integrazioni depositate, la comunicazione ex art. 7 del d.lgs. n. 114 cit. sarebbe divenuta completa, offrendo all’Amministrazione tutte le informazioni necessarie circa la sussistenza, in capo all’interessata, dei presupposti e requisiti prescritti dal d.lgs. n. 114/1998.

La censura non può in alcun modo essere condivisa.

Ed infatti, si deve innanzitutto sottolineare come la chiusura immediata dell’esercizio di vendita costituisca, in caso di svolgimento abusivo dell’attività commerciale, provvedimento vincolato, in relazione al quale l’art. 22, comma 6, del d.lgs. n. 114/1998 non lascia margini di apprezzamento discrezionale in capo alla P.A.: ciò si evince chiaramente dalla formulazione del comma 6 cit., in base al quale “in caso di svolgimento abusivo dell’attività, il sindaco ordina (e non “può ordinare”) la chiusura immediata dell’esercizio di vendita”. Per altro verso, l’interesse pubblico violato dalla ricorrente non aveva affatto natura solamente formale, attesa la necessità di verificare la conformità dell’immobile interessato dall’attività commerciale alla disciplina edilizia, igienico-sanitaria, ecc., nonché di avere una precisa conoscenza della superficie utile di vendita. Per di più, la ricorrente incorre in un grosso equivoco sostenendo che, dopo la presentazione da parte sua, in data 28 maggio 2005, delle integrazioni richieste, il Comune disponeva di tutte le informazioni necessarie, attese l’inadeguatezza ed erroneità delle suddette integrazioni, che già si è avuto modo di sottolineare.

Se ne desume la complessiva infondatezza anche del motivo ora esaminato.

In definitiva, il ricorso è nel suo complesso infondato e, come tale, deve essere respinto.

Sussistono, comunque, giusti motivi per disporre la compensazione delle spese, attesa la complessità delle questioni trattate.

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