Trib. Bari, sentenza 20/05/2024, n. 2032

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Sul provvedimento

Citazione :
Trib. Bari, sentenza 20/05/2024, n. 2032
Giurisdizione : Trib. Bari
Numero : 2032
Data del deposito : 20 maggio 2024

Testo completo

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Tribunale di BARI
Sezione Lavoro
Il Tribunale di Bari, Sezione Lavoro, in persona del Giudice Dott.ssa M L T, all'udienza del 20 maggio 2024, ha pronunciato la seguente
SENTENZA contestuale ex art. 429 c.p.c.
nella causa di lavoro di I grado iscritta sul ruolo generale affari contenziosi sotto il numero d'ordine
6325 dell'anno 2021, cui è riunita la causa avente n. 8846/2023 R.G.
TRA
nato a Lagonegro il 21/12/1981, rappresentato e difeso dall'avv. Parte_1
L L B e dall'avv. LONGO Maria Carmela ed elettivamente domiciliato presso il loro studio in Bari, alla via Abate Gimma, n. 43
– Ricorrente –
CONTRO
in persona del Direttore Generale e legale rappresentante pro Controparte_1 tempore dott. rappresentata e difesa dall'avv. U P ed Controparte_2
elettivamente domiciliata presso il suo studio in Bari, in Piazza Umberto I, n. 32
– Resistente –
FATTO E DIRITTO
, con ricorso depositato in data 03.06.2021 (giudizio n. 6325/2021 R.G.), Parte_1 lamentava, in veste di dipendente della “ con qualifica di operaio e Controparte_1
mansione di operatore di esercizio (livello 2 Autoferrotranvieri), il mancato riconoscimento Org_1


nel calcolo della retribuzione riferita ai 132 giorni di ferie goduti dal gennaio 2016 al dicembre
2020 e la conseguente mancata percezione degli accessori rappresentati da indennità di presenza, ulteriore indennità di presenza, buono pasto, indennità di interruzione turno, diaria ridotta A/3 e indennità agente unico/monoagente. Il ricorrente, pertanto, chiedeva la condanna della resistente al pagamento delle somme di cui sopra, pari ad € 2.442,69, a titolo di differenze retributive, oltre interessi e rivalutazione monetaria, con vittoria di spese.
Con ricorso del 27.07.2023, il medesimo ricorrente, al fine di vedersi riconoscere il diritto a percepire le suddette indennità, ad eccezione del buono pasto, per i 203 giorni di ferie usufruiti nei periodi gennaio 2010 – dicembre 2015 e 01.01.2021 – 30.06.2022 (somma pari ad € 2.272,92), instaurava ulteriore giudizio (avente n. 8846/2023 R.G.), riunito al precedente, per connessione soggettiva e parzialmente oggettiva, con provvedimento di questo Giudice all'esito dell'odierna udienza.
In entrambi i procedimenti la si costituiva in giudizio, eccependo Controparte_1
l'inammissibilità della domanda per abusiva parcellizzazione del credito, nonché la prescrizione dei crediti, eventualmente maturati in periodo anteriore a quello oggetto di domanda con il primo ricorso, e, nel merito, l'infondatezza della domanda in fatto e diritto.
All'udienza odierna, i due fascicoli venivano riuniti, per connessione soggettiva e parzialmente oggettiva, con provvedimento di questo Giudice, che decideva la causa come da sentenza contestuale.
I ricorsi sono parzialmente fondati.
Preliminarmente, l'eccezione di inammissibilità della domanda per abuso del diritto a seguito di frazionamento del credito va rigettata.
Sul punto, preme evidenziare che questo Tribunale del lavoro si è già pronunciato su fattispecie analoghe con sentenza n. 741/2024 e n. 1677/2024, di cui l'odierno Giudicante richiama e condivide le motivazioni.
Appare chiaro che la proposizione da parte del ricorrente di una seconda domanda in un distinto giudizio è addebitabile al noto revirement giurisprudenziale, secondo cui “il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come modulato per effetto della l. n. 92 del 2012 e del d.lgs. n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità, sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della l. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre,
a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4, e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro” (Cass. Civ., Sez. Lav., 06.09.2022, n. 26246).
Pertanto, solo a seguito di tale dirimente mutamento giurisprudenziale, successivo all'instaurazione del primo giudizio (n. 6325/2021 R.G.) avvenuta in data 03.06.2021, il ricorrente ha potuto rivendicare, con ulteriore e distinta domanda, anche le differenze retributive relative ad un periodo antecedente (gennaio 2010 – dicembre 2015) e “non ancora prescritte al momento dell'entrata in vigore della l. n. 92 del 2012”, ovvero successive al 18.07.2007.
In buona sostanza, la possibilità di agire in giudizio per chiedere il riconoscimento del diritto a percepire le differenze retributive relative al periodo da gennaio 2010 a dicembre 2015, superando il preliminare ostacolo dell'intervenuta prescrizione, è sorta per effetto e solo dopo il suddetto mutamento giurisprudenziale.
Sicché, per i medesimi motivi, non può considerarsi prescritto il diritto a percepire differenze retributive relativo ad un periodo anteriore rispetto a quello oggetto della prima domanda. Infatti, il ricorrente non ha inteso limitare la pretesa al periodo antecedente i cinque anni dalla messa in mora
(08.04.2021) ma, soltanto grazie al successivo mutamento giurisprudenziale (06.09.2022) in tema di prescrizione, ha potuto constatare l'individuazione del dies a quo nella data di cessazione del rapporto di lavoro, nel caso di specie tutt'ora in corso.
Sul punto, l'art. 18 Statuto dei Lavoratori, come modificato dalla legge Fornero, prevede la tutela reintegratoria solo per talune ipotesi di illegittimità del licenziamento (primo, quarto e settimo comma), mentre per altre prevede unicamente una tutela indennitaria (quinto e sesto comma). Ne consegue che, nel corso del rapporto, il prestatore di lavoro si trova in una condizione soggettiva di incertezza circa la tutela applicabile nell'ipotesi di licenziamento illegittimo, accertabile solo ex post in caso di contestazione giudiziale del recesso datoriale.
Le novità introdotte dalla legge n. 92 del 2012 e dal d.lgs. n. 23 del 2015 hanno comportato il passaggio da un'automatica applicazione della tutela reintegratoria e risarcitoria ad un'applicazione selettiva delle tutele e delle sanzioni applicabili. La tutela reintegratoria, per effetto degli artt. 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, ha acquisito ormai un carattere recessivo e residuale tale da determinare, inevitabilmente, un timore del dipendente nei confronti del datore di lavoro per la sorte del rapporto ove egli intenda far valere un proprio credito nel corso dello stesso. Per tal ragione, la Corte, come suindicato, ha statuito che “il rapporto di lavoro a tempo indeterminato […] non è assistito da un regime di stabilità” e, dunque, per i diritti non prescritti al momento di entrata in vigore della legge
n. 92 del 2012, il termine di prescrizione “decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948,
n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro” e non in costanza di esso anche per i lavoratori dipendenti da datori di lavoro a cui si applichi l'art. 18 Statuto dei Lavoratori, come novellato dalla legge n. 92 del 2012 (cfr. Corte d'Appello di Milano, n. 719 del 2021;
n. 376 del
2019).
Ne deriva che per i diritti retributivi sorti a far data dall'entrata in vigore della legge n. 92 del 2012
(18/07/2012) e nel quinquennio anteriore (a decorrere dal 18/07/2007) il termine decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro.
Nel caso in esame, come anticipato, il ricorrente è ancora dipendente della Controparte_1
non risultando, pertanto, prescritto il diritto a percepire le indennità relative a periodi ben
[...]
successivi al 18.07.2007.
Ciò premesso, nel merito della controversia, ai sensi del combinato disposto dell'art. 36 Cost., art.
2109, comma 1 e 2, c.c. e art. 10, d.lgs. n. 66 del 2003 il prestatore di lavoro ha diritto al riposo settimanale e ad un periodo annuale di ferie retribuite, al quale non può rinunziare;
analogamente,
l'art. 31, n. 2 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea prevede che ogni lavoratore abbia diritto ad una limitazione della durata massima del lavoro ed a periodi di riposo giornalieri e settimanali ed a ferie annuali retribuite, per le quali, ai sensi dell'art. 7 della direttiva n.
88/2003/CE, ogni Stato può attivarsi e assume le misure necessarie affinché possano corrispondere ad almeno quattro settimane all'anno (secondo le condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle legislazioni e/o prassi nazionali).
Stante l'indicato contesto normativo, va evidenziato che la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha dapprima chiarito che “l'espressione (di cui all'art. 7 della Direttiva N. 88/2003/CE n.d.r.), che figura in tale disposizione, significa che, per la durata delle ferie annuali ai sensi della direttiva, la retribuzione va mantenuta. In altre parole, il lavoratore deve percepire la retribuzione ordinaria per tale periodo di riposo" (cfr. Corte di
Giustizia UE sez. i, 16.3.2006, n. 131, conf. Corte Giustizia UE Grande Sezione, 20.1.2009, n. 350).
La Corte di Giustizia (15.09.2011, C-155/10, c. BA) è nuovamente intervenuta in materia, Per_1
rimarcando che il diritto alle ferie annuali retribuite deve essere considerato un principio particolarmente importante del diritto sociale comunitario.
In tale contesto, come precisato dall'avvocato generale al par. 90 delle conclusioni, si deduce che la retribuzione delle ferie annuali deve essere calcolata, in linea di principio, in modo tale da coincidere con la retribuzione ordinaria del lavoratore;
un'indennità determinata a un livello appena sufficiente ad evitare un serio rischio che il lavoratore non prenda le sue ferie non soddisfa le prescrizioni del diritto dell'Unione.
Infatti, tanto la direttiva 2003/88 quanto l'accordo europeo prevedono solamente una tutela minima del diritto alla retribuzione delle lavoratrici e dei lavoratori durante le ferie annuali. Nessuna disposizione del diritto dell'Unione osta a che gli Stati membri, oppure, se del caso, le parti sociali, si spingano oltre la tutela minima del lavoratore, garantita dalla normativa dell'Unione, e prevedano il mantenimento di tutti gli elementi della retribuzione complessiva che gli spettano durante il periodo di lavoro (cfr., sentenza Parviainen, cit., punto 63).
Orbene, quando la retribuzione percepita dal lavoratore è composta da diversi elementi (si pensi ad una retribuzione strutturata in un importo fisso annuo e in supplementi variabili correlati alla tipologia ed alla natura di mansioni svolte ed al tempo impiegato per il loro svolgimento), per determinare tale retribuzione ordinaria e, di conseguenza, l'importo cui ha diritto il lavoratore durante le ferie annuali, è necessario svolgere un'analisi specifica.
Sebbene la struttura della retribuzione ordinaria di un lavoratore di per sé ricada nelle disposizioni e prassi disciplinate dal diritto degli Stati membri, essa non può incidere sul diritto del lavoratore di godere, nel corso del suo periodo di riposo e di distensione, di condizioni economiche paragonabili
a quelle relative all'esercizio del suo lavoro. Pertanto, qualsiasi incomodo intrinsecamente collegato all'esecuzione delle mansioni che il lavoratore è tenuto ad espletare in forza del suo contratto di lavoro, compensato tramite un importo pecuniario incluso nel calcolo della retribuzione complessiva, deve essere preso in considerazione ai fini dell'ammontare che spetta al lavoratore durante le sue ferie annuali. Viceversa, gli elementi della retribuzione complessiva diretti esclusivamente a coprire spese occasionali o accessorie, che sopravvengano in occasione dell'espletamento delle mansioni che incombono al lavoratore (come le spese connesse al tempo che un lavoratore è costretto a trascorrere fuori sede), non devono essere presi in considerazione nel calcolo dell'importo da versare durante le ferie annuali.
A questo riguardo, è compito del giudice nazionale valutare il nesso intrinseco tra gli elementi che compongono la retribuzione complessiva e l'espletamento delle mansioni affidate al lavoratore in ossequio al suo contratto di lavoro. Questa valutazione deve essere svolta in funzione di una media su un periodo di riferimento giudicato rappresentativo.
Ciò precisato, occorre aggiungere che, oltre agli elementi precedentemente descritti, anche quelli correlati allo status personale e professionale del lavoratore devono essere mantenuti durante le ferie annuali retribuite (il caso, sul quale si è pronunciata la Corte di Giustizia dell'Unione Europea, era quello di una responsabile di cabina in una compagnia aerea assegnata temporaneamente, a causa della gravidanza, ad un posto a terra, alla quale è stato riconosciuto nel corso dell'assegnazione il diritto al mantenimento di elementi della retribuzione o integrazioni collegati al suo status professionale;
pertanto, le integrazioni collegate a qualità di superiore gerarchico, anzianità e qualifiche professionali devono essere mantenute – cfr. sentenza 01.07.2010, causa C-
471/08, Parviainen).
Pertanto, come ribadito da CGUE, 22.05.2014, C-539/12 (accertato il diritto di un lavoratore a veder computato nella retribuzione “feriale” non solo lo stipendio base ma anche l'importo delle provvigioni fissate con riferimento ai contratti conclusi dal datore di lavoro che derivano da vendite realizzate da tale lavoratore), gli elementi retributivi correlati a status personale e professionale, qualità di superiore gerarchico, anzianità, qualifiche professionali vanno riconosciuti anche nel periodo feriale.
La giurisprudenza europea riportata è stata recepita anche a livello nazionale da Cass. civ., sez. lav.,
17.05.2019, n. 13425: costituisce compito del giudice di merito valutare, in primo luogo, il rapporto di funzionalità o nesso intrinseco (cfr. CGUE, 15 settembre 2011, e a., C – 155/10, cit., Per_1
punto 26) tra i vari elementi che compongono la retribuzione complessiva del lavoratore e le mansioni ad esso affidate in ossequio al suo contratto di lavoro e, dall'altro, interpretate ed applicate le norme pertinenti del diritto interno conformemente al diritto dell'Unione, verificare se la retribuzione corrisposta al lavoratore, durante il periodo minimo di ferie annuali, sia corrispondente
a quella fissata, con carattere imperativo ed incondizionato, dall'art. 7 della direttiva 2003/88/CE.
È altresì da tener presente che la giurisprudenza di legittimità è giunta a questa svolta europea dopo aver affermato, per lungo tempo, che, attesa l'inesistenza nell'ordinamento di un principio di onnicomprensività della retribuzione, la competenza a stabilire le componenti della retribuzione feriale, così come di ogni altra voce retributiva, spetta alla contrattazione collettiva (cfr. ex multis,
Cass. civ., sez. lav., 12.11.2018, n. 28937;
Cass. civ., sez. lav., 30.10.2017, n. 25760;
Cass. civ., sez. lav., 21.05.2012, n. 7987;
Cass. civ., sez. lav., 17.10.2001, n. 12683).
Tanto premesso, il punto fermo da cui partire non può che essere il principio di diritto (CGUE
15.09.2011) secondo il quale un lavoratore ha diritto, durante le sue ferie annuali, non solo al mantenimento dello stipendio di base ma anche, da un lato, agli elementi intrinsecamente connessi
all'espletamento delle mansioni incombenti in forza del contratto di lavoro e compensati tramite un importo pecuniario incluso nel calcolo della sua retribuzione complessiva e, dall'altro, a tutti quelli collegati allo status personale e professionale del lavoratore. Tali principi devono essere interpretati, di conseguenza, non come impositivi di una meccanica parificazione tra la retribuzione feriale e quella degli altri periodi dell'anno, bensì come rivolti a tutelare l'esigenza che il lavoratore non abbia a patire, quando va in ferie, di una riduzione sproporzionata del proprio trattamento retributivo, tale da avere un effetto dissuasivo dell'effettiva fruizione del diritto.
È evidente, che, qualora non si assicurasse la coincidenza della retribuzione delle ferie annuali con quella ordinaria, si ingenererebbe una diminuzione del trattamento retributivo potenzialmente idonea a pregiudicare economicamente il lavoratore nell'esercizio del suo diritto alle ferie, in contrasto con le prescrizioni del diritto dell'Unione. Come precedentemente evidenziato, la Corte di
Giustizia ha avuto occasione di precisare che l'espressione "ferie annuali retribuite", di cui all'art. 7,
n. 1 della Direttiva n. 88 del 2003, intende significare che la retribuzione, per la durata delle ferie annuali, "deve essere mantenuta";
in altre parole, il lavoratore deve percepire la retribuzione ordinaria per tale periodo di riposo.
L'interpretazione offerta dalla Corte di Giustizia ha efficacia ultra partes, sicché alle sentenze dalla stessa rese, sia pregiudiziali sia emesse in sede di verifica della validità di una disposizione UE, va attribuito “il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell'ambito della Comunità. In modo conforme al diritto dell'Unione deve essere interpretata la normativa interna laddove riconosce il diritto del prestatore di lavoro a "ferie retribuite" nella misura minima di quattro settimane, senza, tuttavia, recare una specifica definizione di retribuzione” (cfr. Cass. n. 22401/20).
Ciò posto, per poter essere inclusa nella base di calcolo della retribuzione feriale, una voce retributiva deve rispondere ai seguenti requisiti: a) deve essere intrinsecamente connessa alla natura delle mansioni svolte dall'interessato, ossia quando va a remunerare la specifica professionalità dell'interessato (al punto da divenire tutt'uno con la stessa e non semplicemente una particolare e cangiante modalità logistica, temporale o di altra natura della prestazione lavorativa);
b) deve compensare uno specifico “disagio” (“dare incomodo”) derivante dall'espletamento di dette mansioni;
c) deve essere correlata al peculiare status professionale o personale dell'interessato.
Non è la prima volta, tra l'altro, che la giurisprudenza italiana si sofferma su questi concetti. Lo ha già fatto a proposito del principio di irriducibilità della retribuzione previsto dal vecchio art. 2103
c.c., tramite la precisazione che la retribuzione che aveva titolo ad essere conservata anche in caso di mutamento di mansioni era la “sola retribuzione compensativa delle qualità professionali intrinseche essenziali delle mansioni precedenti”, ma non anche “quelle componenti della retribuzione che siano erogate per compensare particolari modalità della prestazione lavorativa, e cioè caratteristiche estrinseche non correlate con le prospettate qualità professionali della stessa e, come tali, suscettibili di riduzione una volta venute meno, nelle nuove mansioni, quelle caratteristiche estrinseche che ne risultavano compensate” (cfr. Cass. civ., sez. lav., 27.10.2003, n.
16106;
in termini, Cass. civ., sez. lav., 10.11.1997, n. 11106).
Lo stesso concetto è ritornato, questa volta normativamente, nel nuovo art. 2103, comma 6, c.c., che esclude dalla conservazione della retribuzione in caso di mutamento di mansioni “gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della prestazione lavorativa”.
Infine, come si trae in modo esplicito da CGUE 15.09.2011, la valutazione sulla computabilità di un'indennità – quindi, circa l'an, non il quantum - deve essere svolta in funzione di una media su un periodo di riferimento giudicato rappresentativo. Pertanto, occorre anche considerare il dato della frequenza temporale dell'erogazione retributiva nella busta paga di ciascun lavoratore, cioè deve trattarsi di voci retributive percepite in modo continuativo, o quanto meno non occasionale, dal lavoratore.
L'importo di tali voci deve essere congruo o comunque apprezzabile, così che il rinunciarvi potrebbe avere un effetto dissuasivo delle ferie (cfr. CGUE 22.05.2014). Pertanto, voci che rimborsino spese meramente occasionali e accessorie sostenute dal lavoratore in occasione dello svolgimento delle proprie mansioni non devono essere computate nella retribuzione spettante durante le ferie.
Nel caso di specie, occorre quindi verificare, alla luce dei principi stabiliti dal Giudice europeo, se le voci analiticamente indicate dal ricorrente costituiscano elementi intrinsecamente connessi alla natura delle mansioni svolte, che compensino specifici disagi derivanti da esse oppure siano correlate allo status professionale o personale dell'interessato, sempre tenendo conto della continuità e non occasionalità della percezione.
Ad avviso del Giudicante deve pervenirsi ad un giudizio positivo con riferimento a tutte le voci indicate in ricorso (indennità di presenza, ulteriore indennità di presenza, indennità di interruzione turno, diaria ridotta A/3 ed indennità agente unico/monoagente), escludendosi invece il calcolo del buono pasto (oggetto di domanda con riferimento al periodo dal gennaio 2016 al dicembre 2020).
Quest'ultimo, disciplinato dall'art. 51 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR), costituisce una delle modalità con cui il datore di lavoro, per il tramite di esercizi convenzionati, può riconoscere servizi di ristoro ai propri dipendenti in sostituzione della mensa aziendale. Il buono pasto, dunque, è il documento di legittimazione, anche in forma elettronica, che attribuisce al titolare, ai sensi dell'art. 2002 c.c., il diritto ad ottenere il suddetto servizio sostitutivo per un importo pari al valore facciale del buono e, all'esercizio convenzionato, il mezzo per provare
l'avvenuta prestazione nei confronti delle società di emissione.
Come specificato dall'art. 4 del decreto interministeriale n. 122 del 2017, in attuazione dell'art. 144, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016, hanno diritto a ricevere i buoni pasto tutti i lavoratori subordinati, sia a tempo pieno che parziale (part-time), nonché i soggetti che hanno instaurato con il cliente un rapporto di collaborazione anche non subordinato, anche qualora l'orario di lavoro non preveda una pausa per il pasto. Rimangono tuttavia escluse le giornate non lavorative, come quelle di ferie e il fine settimana atteso che i buoni pasto sono strettamente collegati alla necessità di un'alimentazione corretta mentre si lavora, e pertanto il dipendente non ne ha diritto quando è in ferie.
Per quanto concerne le altre prestazioni accessorie, l'indennità di presenza è prevista dall'accordo nazionale del 21.05.1981 ed è legata all'effettiva presenza sul luogo di lavoro, venendo esclusa solo in caso di malattia, infortunio, aspettativa per motivi di salute, aspettativa, congedi o assenza non retribuita. Essa, pertanto, risulta intrinsecamente connessa allo svolgimento dell'attività e si connota per il carattere della continuità percettiva.
Lo stesso dicasi per l'ulteriore indennità di presenza, che viene corrisposta non occasionalmente a ciascun agente ad integrazione dell'indennità giornaliera per ogni effettiva giornata di prestazione.
Dalla lettura delle norme contrattuali emerge chiaramente come le stesse siano intrinsecamente legate allo svolgimento della mansione svolta dal ricorrente, tanto da essere corrisposte, come anticipato, per ogni giorno di lavoro effettuato dal lavoratore.
Circa l'indennità di interruzione turno, essa è prevista dall'accordo aziendale del 01.08.1997 e viene riconosciuta al personale in turno per ogni interruzione dello stesso. Quest'ultima circostanza rappresenta un aspetto abituale della tipologia lavorativa e della qualifica professionale degli operatori di esercizio impiegati nel settore autoferrotranviario.
La , di cui al CCNL art. 21/A del 23.07.1976, spetta al personale di macchina Parte_2
quando deve prestare servizio di turno fuori dalla propria residenza per un determinato periodo di tempo.
L'indennità agente unico/monoagente, disciplinata dall'accordo aziendale del 19.10.1989, viene corrisposta per compensare i conducenti dell'attivazione del servizio con monoagente sulle corse automobilistiche e, come nel caso di specie, ferrotranviarie. Essa, prevista dall'accordo aziendale dell'11.12.1984, è stata introdotta a seguito della soppressione del profilo professionale del bigliettaio e viene corrisposta al conducente di linea che effettua la duplice mansione di autista e bigliettaio per “ogni giornata di effettiva presenza in servizio”.
Come è evidente, trattasi di indennità intrinsecamente collegate all'esecuzione delle mansioni assegnate al ricorrente, al suo stato e alla qualifica professionale rivestita e palesemente dirette a compensare uno specifico incomodo derivante dal loro espletamento.
E infatti, dall'analisi dei prospetti paga prodotti per il periodo di causa, emerge con chiarezza che tali emolumenti sono percepiti dal ricorrente con uniformità, netta continuità e in modo non occasionale, non possedendo dunque carattere di eccezionalità e discontinuità sotto il profilo temporale-quantitativo. Il relativo corrispettivo è presente in misura congrua, consistente e continuativa, con la conseguenza che le indennità richieste siano tutte da includere nella retribuzione dovuta durante il periodo feriale, in quanto legate intrinsecamente allo svolgimento della prestazione lavorativa.
Pertanto, nel caso di specie, il ricorrente ha diritto a vedersi corrispondere le differenze retributive relative ai 132 giorni di ferie goduti dal gennaio 2016 al dicembre 2020 per le voci analiticamente sopra indicate (indennità di presenza, ulteriore indennità di presenza, indennità di interruzione turno, diaria ridotta A/3 ed indennità agente unico/monoagente), ad eccezione del buono pasto, e le differenze retributive relative ai 203 giorni di ferie usufruiti dal gennaio 2010 al dicembre 2015 e dal 01.01.2021 al 30.06.2022.
Ne consegue che, con riferimento al periodo oggetto della prima domanda (gennaio 2016 – dicembre 2020), va detratta dalla somma totale richiesta (€ 2.442,69) l'ammontare del buono pasto, del valore nominale di € 5,16 al giorno, moltiplicato per i 132 di giorni di ferie goduti, pari ad €
681,12.
Al ricorrente spetta quindi la somma di € 1.761,57, alla quale va aggiunta quella pari ad € 2.272,92 per il periodo da gennaio 2010 a dicembre 2015 e dal 01.01.2021 al 30.06.2022, per un totale di €
4.034,49, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria.
Considerato che il riconoscimento del diritto è avvenuto per una somma di poco inferiore alla richiesta, equo appare condannare la resistente soccombente al pagamento in favore del ricorrente di due terzi delle spese di lite, liquidati, come da dispositivo, ai minimi in ragione della serialità della controversia e dell'assenza di istruttoria, disponendo la compensazione fra le parti per il restante terzo.
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