Trib. Vicenza, sentenza 29/03/2024, n. 147

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Sul provvedimento

Citazione :
Trib. Vicenza, sentenza 29/03/2024, n. 147
Giurisdizione : Trib. Vicenza
Numero : 147
Data del deposito : 29 marzo 2024

Testo completo

n. 572/2022 R.G.
REPUBBLICA ITALIANA
TRIBUNALE ORDINARIO di VICENZA
- PRIMA SEZIONE CIVILE -
Settore delle controversie di lavoro
e di previdenza

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale, nella persona del Giudice dott.ssa G B ha pronunciato la seguente
SENTENZA

nella causa civile di Primo Grado iscritta al n. 572/2022 RG Lav. promossa da:

, con l'avv. G Parte_1
ricorrente contro

con l'avv. D P CP_1
resistente
e con la chiamata di

, con l'avv. T Org_1
terzo chiamato

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Premesso che:
- la ricorrente ha lavorato alle dipendenze di dal gennaio 1995 al 30 novembre CP_1
2021, data in cui ella ha rassegnato le dimissioni per pensionamento;

- di occupa di produzione di molle e minuterie meccaniche, e la sig.ra CP_1
nel corso del lungo periodo di attività si è occupata, presso il proprio Parte_1
domicilio, in prevalenza di controllo e selezione visiva, assemblaggio, ripresa manuale, verifica di saldature, eliminazione dei pezzi difettosi, inscatolamento, conteggio, etichettatura, imballaggio completo;

- ella domanda:
1) la condanna della società convenuta a corrispondere in suo favore le maggiorazioni del 21% a titolo di indennità sostitutiva di ferie, di gratifica natalizia e di festività nazionale ed infrasettimanale e del 5% a titolo di indennità sostitutiva dell'indennità di anzianità da calcolarsi sull'ammontare della retribuzione globale corrisposta, per
l'importo complessivo di euro 111.583,84 in conto capitale, di cui 90.125,41 a titolo di maggiorazione del 21% e 21.458,43 a titolo di maggiorazione del 5%;

2) accertata l'inadeguatezza, in base ai parametri forniti dall'articolo 36 Cost., dei corrispettivi riconosciuti nel periodo compreso tra il 1995 e il 2021, e comunque delle tariffe applicate dalla convenuta, la condanna della società al pagamento in proprio favore dell'importo, quantificato in euro 300.000, a titolo di “integrazione di quanto già corrisposto nell'arco del rapporto di lavoro e di quanto già rivendicato sub 1)”;

3) la condanna della società al pagamento di euro 22.180,50 a titolo di risarcimento del danno arrecato dalla società dalla omessa attivazione della CIG con riferimento al periodo compreso tra aprile 2020 e novembre 2021. Tale domanda non è stata riportata nelle conclusioni del ricorso, ma la natura materiale dell'errore può evincersi senza dubbio dal corpo dell'atto, in cui essa è adeguatamente dettagliata e definita sia sotto il profilo del petitum che di quello della causa petendi. Alla luce dei chiarimenti
e dell'istanza svolti all'udienza del 19.1.2023 essa deve pertanto essere considerata nella decisione;

4) in ogni caso la condanna della società al pagamento dei contributi non prescritti e al risarcimento in proprio favore del danno pensionistico subito per il mancato versamento dei contributi, ormai prescritti, con riferimento alle differenze rivendicate
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ai punti 1 e 2, quantificato in euro 52.725,40. Con condanna della società al pagamento sui predetti importi della rivalutazione e degli interessi calcolati, per il periodo successivo alla domanda giudiziale, in base alla previsione di cui all'articolo
1284 comma 4 c.c., e vittoria di spese di lite;

- la società, alla quale il ricorso è stato regolarmente notificato, non si è tempestivamente costituita in giudizio, e il legale rappresentante non si è presentato all' interpello fissato per la data del 19.9.202, nonostante anche in tal caso la notifica del verbale giudiziale sia stata regolare. Solo in data 9.11.2023 la società si è costituita in giudizio domandando il rigetto del ricorso. Va precisato che, anche a fronte delle dichiarazioni rese in sede di discussione dai procuratori delle parti, non vi è allo stato alcuna controversia rispetto al punto 3) delle premesse, non essendo in particolare contestato il diritto della ricorrente al risarcimento del danno per un'omissione che la società ha riconosciuto, e non essendo stato contestato specificamente l'importo indicato in ricorso per la sua quantificazione;

Org
- l' chiamato su ordine del giudice ad integrazione del contraddittorio rispetto alla domanda di condanna al versamento contributivo si è rimesso alla decisione del giudice precisando che “non sono prescritti i contributi di rientranti nel quinquennio calcolato a Org_ ritroso dall'1.6.2023, data di notifica all' degli atti del giudizio e dell'ordinanza di integrazione del contraddittorio […] la domanda potrà pertanto essere accolta con riguardo ai contributi dovuti sulle differenze retributive che saranno accertate come spettanti alla ricorrente dal maggio 2017 […] alla cessazione del rapporto di lavoro
(30/11/2021);
quanto alla domanda sub 1), rilevato che:
- il rapporto è stato regolato da una “Convenzione” di lavoro a domicilio nella quale era previsto che la tariffa di remunerazione dell'attività lavorativa a cottimo pieno fosse composta dalle seguenti voci: paga base + indennità di contingenza + cottimo, corrispondenti ad importi “da concordare di volta in volta” (doc. 1 ricorrente);

- sul punto il legale rappresentante della società nel corso dell'interrogatorio libero ha confermato: “Le tariffe venivano sempre concordate di volta in volta in base alla lavorazione richiesta, avevamo anche delle cooperative esterne che facevano lo stesso lavoro e di fatto ci parametravamo agli stessi criteri.”;

- il punto 1) della Convenzione prosegue precisando che “i suddetti prezzi sono
pagina 3 di 13 comprensivi di tutte le maggiorazioni previste”;

- i successivi punti 3) e 4) prevedono tuttavia quanto segue:
3) “ad ogni periodo di paga il trattamento economico da corrispondersi al lavorante a domicilio a titolo di indennità sostitutiva di ferie di gratifica natalizia e di festività nazionale ed infrasettimanale verrà assolto dalla ditta mediante una maggiorazione del
21% da computarsi sull'ammontare della retribuzione globale percepita, dal lavorante stesso nel corso del periodo considerato”;

4) “con le stesse modalità sarà corrisposta, al lavorante a domicilio, una indennità sostitutiva dell'indennità di anzianità nella misura del 5% sulle tariffe di cui al punto N.
1.”;

- la ricorrente, in definitiva, chiede l'adempimento delle pattuizioni predette allegandone il parziale inadempimento, consistito nel mancato riconoscimento, nel corso dell'intero rapporto di lavoro, delle maggiorazioni convenute ai punti 3) e 4) dell'accordo;

- parte resistente sostiene che i corrispettivi versati comprendessero anche le maggiorazioni del 21% e del 5%, invocando la previsione di omnicomprensività con cui si chiude il punto 1) della convenzione. Chiede in ogni caso che sia considerata l'inerzia della lavoratrice, che nel corso del rapporto mai avrebbe rivendicato le predette maggiorazioni, quantomeno rispetto ad interessi e rivalutazione monetaria;

- se la soluzione dipende quindi da un'operazione ermeneutica, va rilevato che un'interpretazione della convenzione guidata dai criteri sanciti dal codice civile, ed in particolare dagli artt. 1363, 1366 e 1367 c.c. impone di ritenere che la precisazione contenuta nell'inciso finale del punto 1) dell'accordo (“i suddetti prezzi sono comprensivi di tutte le maggiorazioni previste”) sia riferita non alle maggiorazioni di cui ai successivi punti 3) e 4), che altrimenti sarebbero prive di alcun effetto e significato, ma piuttosto che alle maggiorazioni previste dalla legge, e quindi quelle “a titolo di rimborso spese per
l'uso di macchine, locali, energia ed accessori” e tutte quelle di cui all'art. 8 l. n. 877/73 che non siano state oggetto di una espressa pattuizione tra le parti;

- così, deve intendersi che fossero incluse nelle tariffe concordate di volta in volta le voci di spesa che la ricorrente ha dovuto affrontare in prima persona lavorando presso il proprio domicilio, e che sono invece sostenute dal datore di lavoro quando la prestazione è resa nei locali di quest'ultimo: elettricità, telefono, carburante per il muletto ecc… In questo
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senso è dunque privo di pregio l'addebito mosso dalla ricorrente al punto 9 del ricorso
(pag.4);

- che dalla predetta omnicomprensività siano escluse dalle voci di cui ai punti 3) e 4) della convenzione è d'altra parte dimostrato anche dal fatto che le maggiorazioni del 21% e del
5% vanno computate, per espressa previsione contrattuale, “sull'ammontare della retribuzione globale percepita, da lavorante stesso, nel periodo considerato”, il che significa che le tariffe di cui al punto 1) fungono da base di calcolo delle maggiorazioni di cui ai punti successivi;

- se questi sono dunque gli obblighi assunti dal datore di lavoro al momento dell'assunzione, non essendo dimostrato l'adempimento di quelli specificamente oggetto della domanda attorea (in questo senso depongono in senso contrario le voci indifferenziate presenti nelle buste paga in atti) il ricorso va in parte qua accolto sia nell'an che nel quantum, non essendovi specifica e tempestiva contestazione in proposito;
quanto alla domanda sub 2), rilevato che:
- è opportuno un breve inquadramento del quadro normativo e giurisprudenziale in materia;

- sul punto, nel lavoro a domicilio il c.d. cottimo puro rappresenta la forma esclusiva di retribuzione. Infatti, l'art. 8 l. n. 877/1973 prevede che “I lavoratori che eseguono lavoro
a domicilio debbono essere retribuiti sulla base di tariffe di cottimo pieno risultanti dai contratti collettivi della categoria”;

- la stessa norma predispone poi l'assetto dei diritti e degli obblighi delle parti del rapporto di lavoro domiciliare, anche con riferimento alla determinazione del corrispettivo;

- per quanto qui rileva, l'art. 8 contempla soluzioni alternative per l'ipotesi in cui (come nel caso di specie) i contratti collettivi non dispongano in ordine alla tariffa di cottimo pieno
(il CCNL Metalmeccanici industria regola infatti soltanto il cottimo misto, come si evince dall'art. 11 del contratto - doc. 8 bis di parte ricorrente -), assegnando il potere di determinazione delle stesse ad una commissione regionale, alla quale è altresì assegnato il compito di “determinare la percentuale sull'ammontare della retribuzione dovuta al lavoratore a titolo di rimborso spese per l'uso di macchine, locali, energia ed accessori, nonché le maggiorazioni retributive da valere a titolo di indennità per il lavoro festivo, le ferie, la gratifica natalizia e l'indennità di anzianità”;

- la norma prevede infine che, in caso di inerzia delle Commissioni regionali, la tariffa e le
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indennità accessorie vengano determinate con decreto del Direttore dell'ufficio regionale del lavoro “in relazione alla qualità del lavoro richiesto, in base alle retribuzioni orarie fissate dai contratti collettivi osservati dall'imprenditore committente o dai contratti collettivi riguardanti lavorazioni similari”;
- per quanto allegato, nessuna di tali fonti è intervenuta per regolamentare la tariffa del cottimo pieno nel settore metalmeccanico e/o nel territorio di riferimento;
- è inoltre pacifico e comunque documentale che il datore di lavoro non abbia mai fornito, nel contratto (doc. 1) o successivamente (doc. 2, buste paga), indicazioni rispetto alla tariffa applicata né ad alcuno dei parametri utilizzati per la determinazione degli importi riconosciuti in busta paga alla ricorrente;
- tuttavia, tali lacune di disciplina non esonerano il giudice dal vagliare la conformità della retribuzione ai canoni di adeguatezza e proporzionalità indicati dall'art. 36 Cost.;

- sul punto, la giurisprudenza di legittimità (si veda Cass. n. 5218/2009;
n. 12512/2004;
n.
9868/1995) ha costantemente affermato che le garanzie previste dalla norma costituzionale in punto di proporzionalità e adeguatezza della retribuzione si applicano anche nei casi in cui la retribuzione sia calcolata con il sistema del cottimo (artt. 2099-
2101 c.c.);

- nel caso di specie, l'accoglimento della domanda di adeguamento della retribuzione è
però precluso per due ordini di ragioni;

- il primo, concernente un profilo logico-processuale, impone di analizzare la formulazione della domanda de qua nell'atto introduttivo;

- sebbene, nelle conclusioni, la domanda sub 2) sia stata formalmente formulata in relazione al percepito integrato dalle maggiorazioni previste dalla convenzione (essendo richiesta la condanna al pagamento di una somma aggiuntiva rispetto a “quanto già corrisposto […] e di quanto rivendicato sub 1)”, il tenore sostanziale della pretesa attorea fa chiaramente riferimento al raffronto tra le sole somme effettivamente percepite e i canoni costituzionali, senza tener conto di quanto rivendicato in esecuzione dell'accordo privato. Chiare in questo senso sono le espressioni utilizzate nella sezione H del ricorso
(che esordisce peraltro con l'inciso “anche a prescindere dalla suestesa richiesta di integrazione della retribuzione”, come se la predetta integrazione risultasse irrilevante rispetto alla valutazione ex art. 36 Cost.). Si vedano in particolare le pagg. 24 e 25, in cui
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si considerano e richiamano la “retribuzione complessivamente corrisposta”, “quanto erogato”, quanto “la convenuta ha riconosciuto”;

- ciò rende la domanda sub 2) logicamente subordinata al rigetto di quella svolta al punto precedente, perché fondata su considerazioni – insufficienza del percepito – superate dall'accoglimento della domanda sub 1), non essendo nemmeno allegata – prima della conclusioni - l'inadeguatezza e la non proporzionalità della retribuzione convenuta complessivamente dalle parti e non pienamente riconosciuta;

- pertanto, anche in forza del principio della corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato,
il giudice che accolga la domanda principale di una parte non può prendere in esame e decidere sulla domanda che la parte medesima abbia proposto (anche solo di fatto ma soprattutto in assenza di allegazioni a supporto) in via subordinata al mancato accoglimento di quella principale, a fortiori laddove le due domande si trovino in rapporto di logica incompatibilità (si veda Cass., n. 15629/2015);

- in ogni caso, anche a non voler dar seguito alle considerazioni che precedono, il secondo ordine di ragioni è comunque assorbente, e riguarda l'assenza degli elementi su cui fondare la valutazione giudiziale in ordine alla non sufficienza della retribuzione;

- secondo la più recente giurisprudenza in materia “l'art. 36, 1° co., Cost. garantisce due diritti distinti, che, tuttavia, «nella concreta determinazione della retribuzione, si integrano a vicenda»: quello ad una retribuzione «proporzionata» garantisce ai lavoratori «una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell'attività prestata»;
quello ad una retribuzione «sufficiente» dà diritto ad

«una retribuzione non inferiore agli standards minimi necessari per vivere una vita a misura d'uomo», ovvero ad «una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa».
In altre parole, l'uno stabilisce «un criterio positivo di carattere generale», l'altro «un limite negativo, invalicabile in assoluto».” (Cass., n. 28321/2023);

- quanto alla definizione dei carichi probatori in materia, la S.C. ha precisato che, in mancanza di adeguamento ad un parametro di fonte collettiva del settore – come nel caso concreto – la retribuzione corrisposta alla ricorrente non possa presumersi adeguata e
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sufficiente in relazione alle mansioni esercitate (Cass. n. 11881/1990, Cass. n. 163/1986,
Cass. n. 4096/1986, Cass. n. 7563/1987), e ciò significa che non possa ritenersi che la lavoratrice fosse onerata di fornire utili parametri di raffronto o di dedurre specificità delle proprie mansioni o del contesto di riferimento che giustifichino una diversa valutazione in termini di adeguatezza e proporzionalità rispetto a quelle effettuate a livello collettivo;

- infatti, anche di recente, la Corte di Cassazione ha ribadito che: “il lavoratore che deduca la non conformità della retribuzione corrispostagli dal datore di lavoro all'articolo 36
Cost., deve provare solo il lavoro svolto e l'entità della retribuzione, e non anche
l'insufficienza o la non proporzionalità, che rappresentano l'oggetto dell'accertamento giudiziale. Al lavoratore spetta soltanto l'onere di dimostrare l'oggetto sul quale tale valutazione deve avvenire e cioè le prestazioni lavorative in concreto effettuate e
l'allegazione di criteri di raffronto, fermo restando il dovere del giudice di enunciare i parametri seguiti, allo scopo di consentire il controllo della congruità della motivazione della sua decisione (Cass. n. 4147/1990;
Cass. n. 8097/2002)
” mentre “il giudice di merito gode, ai sensi dell'art. 2099 c.c., di un'ampia discrezionalità nella determinazione della giusta retribuzione, potendo discostarsi (in diminuzione ma anche in aumento) dai minimi retributivi della contrattazione collettiva e potendo servirsi di altri criteri di giudizio e parametri differenti da quelli contrattual-collettivi (sia in concorso, sia in sostituzione), con l'unico obbligo di darne puntuale ed adeguata motivazione rispettosa dell'art.36 Cost.” (Cass. n. 28321/2023);

- ebbene, da tali principi emerge come la valutazione giudiziale circa l'adeguatezza della retribuzione al canone costituzionale passi necessariamente per il preliminare vaglio, quantitativo e qualitativo, del lavoro svolto e come la dimostrazione in giudizio di tale aspetto pertenga al lavoratore cui si richiede di provare gli elementi costitutivi della propria pretesa;

- tale prova, nel caso che ci occupa, è destinata a conformarsi alle peculiari caratteristiche che connotano il lavoro domiciliare (retribuito a cottimo pieno) che non consentono di equipararlo al lavoro retribuito a tempo, nemmeno sotto il profilo del giudizio di adeguatezza di cui all'art. 36, Cost.;

- infatti, la giurisprudenza di legittimità ha, in più occasioni, valorizzato le differenze tra il contratto di lavoro retribuito a tempo e il contratto di lavoro retribuito a cottimo. In
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particolare, la S.C. ha osservato come, mentre nel lavoro a tempo “la causa è data dallo scambio tra lavoro e retribuzione per un determinato periodo di tempo, prescindendosi dal risultato da conseguire”, al contrario, nel contratto di lavoro a cottimo, “la causa è data dallo scambio tra lavoro e retribuzione in vista del raggiungimento di un determinato risultato (Cass, Sez. Un. n., 4813/2005;
n. 5218/2009);

- la stessa Corte di Cassazione ha poi sottolineato le ulteriori differenze tra cottimo pieno e cottimo misto nella determinazione della retribuzione. In entrambi i casi conta la quantità della prestazione o dell'attività di lavoro ma soltanto nel cottimo pieno tale quantificazione avviene attraverso la misurazione del rendimento del lavoratore. In effetti, nel cottimo integrale “il lavoratore viene pagato esclusivamente in base al proprio rendimento come avviene nel lavoro a domicilio (l. 18 dicembre 1973 n. 877, modificata dalla l. 16 dicembre 1980 n. 858), in cui tale tipo di retribuzione è stato ritenuto in rerum natura (in ragione dell'impossibilità da parte dell'imprenditore di controllare la quantità di tempo ed impegno dedicata dal prestatore all'esecuzione della prestazione convenuta)
(Cass, Sez. Un. n., 4813/2005;
n. 5218/2009);

- tali ontologiche differenze tra le diverse forme di retribuzione spiegano come “con riferimento al lavoro a cottimo non possono trovare fondamento le tesi che siano volte, da un lato ad applicare in via automatica i parametri utilizzati negli altri tipi di lavoro per l'individuazione di una retribuzione rispettosa dei principi di cui all'articolo 36 Cost.
e, dall'altro, a non differenziare agli stessi fini – anche nell'ambito dell'ampio genus del lavoro a cottimo, quello che è definito cottimo semplice nel quale lavoratore viene pagato esclusivamente in base al proprio rendimento – da quello conosciuto come cottimo misto- caratterizzato invece da una retribuzione base alla quale si aggiunge la maggiorazione di cottimo in relazione alla quantità (e qualità) del lavoro svolto, come avviene in quei casi
[…] in cui ad un corrispettivo pattuito per il raggiungimento di un risultato predeterminato si aggiunge altro corrispettivo correlato alla maggiore quantità di lavoro prodotto.” (Cass. n. 5218/2009);

- pertanto, attese le coordinate interpretative fin qui tracciate, nel lavoro a domicilio la prova richiesta al lavoratore comporta oltre alla dimostrazione del lavoro svolto anche del proprio rendimento: aspetto qualificante la retribuzione a cottimo pieno. La prova di tali elementi costituisce infatti il minimo indispensabile per consentire al giudice, dotato in
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materia di ampi poteri di accertamento, di verificare l'eventuale non sufficienza della retribuzione corrisposta;

- tale prova, nel caso di specie, non può dirsi raggiunta;

- infatti, del tutto eccentrica appare la misurazione della prestazione prospettata in termini di tempo proposta dalla ricorrente (si veda al contrario il calcolo effettuato alle pagg. 24 e
25 del ricorso nonché i conteggi di cui al doc. 9). Trattasi infatti, come sostenuto dalla resistente, di raffronto tra elementi del tutto differenti, perché riferiti, come si è visto, a rapporti regolati da norme e logiche molto diversi: il lavoro a cottimo è remunerato sulla base delle unità di prodotto lavorate a prescindere da qualsiasi considerazione e verifica del tempo impiegato, quello a tempo sulla base del numero di ore lavorate a prescindere dal risultato produttivo realizzato;

- la stessa ricorrente ha poi allegato che “non ha mai comunicato - CP_1
successivamente alle prestazioni - i dati relativi alla quantità di lavoro prestato ed al tempo impiegato per l'esecuzione (ad es. il numero di ore e/o di giornate lavorative nell'arco del mese). Tale precisa obbligazione del datore di lavoro a domicilio è posta a tutela del prestatore di lavoro, affinché possa verificare che vi sia corrispondenza tra la retribuzione percepita ed il lavoro eseguito;
- al contempo, invece, non ha mai allegato di aver svolto la propria attività rispettando i
tempi (talvolta) indicati sugli ordini di lavoro i quali, pertanto, rimangono dei meri indici orientativi, non rilevatori del rendimento della ricorrente;

- d'altra parte, l'incertezza non viene neppure dissipata dall'esame dei DDT i quali confermano l'assenza di un'indicazione univoca circa il prezzo previsto per i singoli pezzi. Tale indicazione avrebbe consentito, invece, di ricostruire il valore economico assegnato alla singola lavorazione e così di valutarne l'adeguatezza rispetto alla remunerazione del risultato produttivo raggiunto dalla lavoratrice;

- inoltre, gli stessi ordini di lavoro contengono sovente la dicitura “NON SARANNO
ACCETTATE CONSEGNE DOPO IL 25 DEL MESE SALVO INDICAZIONI SUI NS.
ORDINI O ACCORDI INTERCORSI CON IL NS. UFF. ACQUISTI. I PAGAMENTI
RELATIVI ALLE CONSEGNE EFFETTUATE DOPO TALE DATA SARANNO
POSTICIPATI AL MESE SUCCESSIVO” (si veda, doc. 5). Tale espressione suggerisce la possibile (e ammessa) variabilità del rendimento della lavoratrice nel corso del tempo:
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circostanza verificatasi anche in concreto in quanto confermata dall'esame dei LUL depositati da parte resistente su ordine del Giudice dai quali, infatti, non emerge una completa corrispondenza tra il materiale consegnato mensilmente e quello lavorato nello stesso mese di riferimento. L'instabilità del dato inferibile dall'esame di tale documentazione renderebbe dunque del tutto inattendibile la ricostruzione dei risultati produttivi raggiunti dalla lavoratrice, non fornendo un'utile base di raffronto per
l'accertamento giudiziale;

- ne deriva dunque l'indisponibilità del dato base su cui svolgere la valutazione, e cioè della
quantità di lavoro svolto e del suo rendimento;

- la domanda va pertanto respinta, in assenza di una richiesta risarcitoria correlata all'inadempimento datoriale (allegato e provato) degli obblighi informativi che avrebbero consentito alla lavoratrice di disporre delle informazioni utili a sostenere la pretesa effettivamente azionata;
quanto alla domanda sub 3), rilevato che:
- a prescindere dal tenore delle conclusioni rassegnate, in cui è genericamente chiesto il rigetto del ricorso senza alcuna precisazione o esclusione, la difesa della società va individuata considerando il suo contegno complessivo. In questo senso assumo rilevanza determinante da un lato la considerazione del fatto che parte resistente costituendosi in giudizio non ha svolto alcuna difesa rispetto a tale domanda, né in fatto - il che, unitamente alla mancata presenza del legale rappresentante all'interrogatorio formale disposto dal giudice risulta determinante per la decisione in proposito ai sensi degli artt.
115, 116 e 232 c.p.c. – né in diritto, e dall'altro che anche in sede di discussione è stata manifestata l'assenza di alcuna opposizione della società alle rivendicazioni attoree;

- è d'altra parte innegabile che si fosse impegnata ad attivare la Cassa integrazione in CP_1
deroga quantomeno per il periodo compreso tra il 14.4.2020 ed il 31.8.2020 (doc. 11 ricorrente), in accordo con sindacati e ;
Org_2
- è inoltre incontestato che per il periodo successivo, compreso tra settembre 2020 e novembre 2021, l'attività della ricorrente (e la sua remunerazione) sia stata “pressoché azzerata” senza una legittima causa di sospensione del rapporto o quantomeno dell'obbligo retributivo (sebbene risulti verosimile, anche in base ai dati di comune esperienza riferibili al periodo pandemico, che anche in relazione a tale periodo vi fossero
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accordi di Cassa integrazione in deroga, come allegato dalla ricorrente e non contestato dalla resistente);

- la domanda va quindi accolta, dovendosi imputare al datore di lavoro la responsabilità del danno patrimoniale patito dalla ricorrente nel periodo compreso tra l'aprile 2020 e il novembre 2021, ragionevolmente quantificato nella somma di euro 22.180,50, e cioè, per quanto indicato dalla ricorrente, la RAL media degli anni precedenti (pag. 9 ricorso. Si veda anche il verbale del 19.1.2023);
quanto alla domanda sub 4), rilevato che: Org_
- considerato che l' costituendosi in giudizio, ha evidenziato che “il versamento dei contributi non prescritti eventualmente dovuti darà luogo alla ricostituzione della pensione già liquidata alla ricorrente”, chiarendo altresì che “ciò incide ai sensi e per gli effetti dell'art. 2116 c.c. sulla corretta quantificazione del danno pensionistico azionato
e riservandosi di quantificare i contributi dovuti sulle differenze retributive riconosciute dal giudice alla ricorrente e di procedere al relativo recupero nei confronti della società, la decisione di ogni questione sul punto presuppone il calcolo dei contributi dovuti dalla società in forza dell'accertamento contenuto nel presente provvedimento, e la causa va quindi rimessa in istruttoria;

- si riserva la decisione di ogni domanda, anche in punto di spese, alla pronuncia definitiva.
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