Trib. Bologna, sentenza 31/07/2024, n. 2227
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Testo completo
N. R.G. 5335/2024
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO DI BOLOGNA
Sezione Specializzata in materia di Immigrazione, Protezione internazionale
e Libera circolazione cittadini UE
Il Tribunale in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati:
Dott. M Gso Presidente
Dott.ssa M C B Giudice
Dott.ssa D G Giudice Relatrice
Nella causa civile iscritta al n. r.g. 5335/2024 promossa da:
(CUI: ), rappresentato e difeso dall'Avv. SPINELLI BARBARA Parte_1 C.F._1
RICORRENTE contro
– Controparte_1 Controparte_2
RESISTENTE all'esito della camera di consiglio ha pronunciato la seguente
SENTENZA ai sensi degli artt. 281-undecies, terdecies, 275-bis c.p.c. e 19-ter D.lgs. 150/2011
Con ricorso depositato in data 12/04/2024, , cittadino della ALBANIA nato nel Parte_1
1970, ha impugnato del Questore di Bologna del 15.11.2023, notificato il 16.3.2024 con il quale è stata rigettata la richiesta di protezione speciale di cui all'art. 19 D.lgs. 25 luglio 1998 n. 286, come modificato con il recente D.L. 21 ottobre 2020, n. 130, convertito con L. 137/2020;chiedeva altresì la sospensione dell'esecutorietà del provvedimento impugnato.
Il non si è costituito in giudizio nonostante la ritualità della notifica. Controparte_2
La causa, istruita a mezzo produzione documentale, è stata rimessa al Collegio per la decisione ai sensi degli artt. 281-undecies e terdecies e 275 bis c.p.c.
L'udienza collegiale è stata quindi sostituita con trattazione scritta ai sensi dell'art. 127-ter c.p.c. con termine nella detta data per il deposito di brevi note scritte, contenenti le sole istanze e conclusioni.
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Le parti non hanno chiesto che la discussione avvenisse in presenza, prestando dunque implicito consenso alla trattazione scritta.
***
In via principale il ricorrente ha chiesto la concessione della protezione speciale ai sensi dell'art. 19, co. 1.1. seconda parte, D.lgs. 286/1998.
Sul punto, va osservato preliminarmente come il legislatore sia intervenuto nel 2020 riformando integralmente (con l'art. 1 del D.L. 21 ottobre 2020, n. 130, convertito con L. 137/2020) il comma
1.1 dell'art. 19 D.lgs. 286/1998, prevedendo che “non sono ammessi il respingimento o l'espulsione
o l'estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti o qualora ricorrano gli obblighi di cui all'articolo 5, comma 6. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell'esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani. Non sono altresì ammessi il respingimento o l'espulsione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che l'allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, a meno che esso sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica nonché di protezione della salute nel rispetto della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, resa esecutiva dalla legge 24 luglio 1954, n. 722, e della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Ai fini della valutazione del rischio di violazione di cui al periodo precedente, si tiene conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell'esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d'origine”.
Al comma 1.2, è stato quindi previsto che nei casi del comma 1 e comma 1.1 il Questore rilasci, previo parere della Commissione Territoriale, un permesso denominato per «protezione speciale».
Infine, differentemente da quanto disposto in seguito al D.l. 113/2018, con D.l. 130/2020 il legislatore ha previsto che il permesso per protezione speciale abbia durata biennale (e non più annuale) e che sia convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
Com'è altresì noto, il Decreto-Legge 10 marzo 2023, n. 20 (Disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto all'immigrazione irregolare), convertito con modificazioni dalla L. 5 maggio 2023, n. 50, prevede all'art. 7, secondo comma che
“per le istanze presentate fino alla data di entrata in vigore del presente decreto, ovvero nei casi in cui lo straniero abbia già ricevuto l'invito alla presentazione dell'istanza da parte della Questura competente, continua ad applicarsi la disciplina previgente”, sicché non possono esservi dubbi in ordine all'applicabilità nella presente causa della forma di protezione complementare stabilita in
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forza del comma 1.1 dell'art. 19 D.lgs. 286/98, come formulata in seguito all'art. 1 del D.L. 21 ottobre 2020, n. 130, convertito con L. 137/2020.
Ciò posto, è evidente come la protezione speciale per il fondato timore di violazione della vita privata e familiare, contemplata nella nuova normativa configuri in buona misura l'esito del percorso di sistemazione interpretativa avente ad oggetto la precedente protezione umanitaria, elaborato prima dell'intervento legislativo del 2018 dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, sulla falsariga della giurisprudenza CEDU sul rispetto della vita privata e familiare di cui all'art. 8
CEDU, e, anzi, come per alcuni aspetti ne ampli la portata.
Con riguardo al quadro normativo antecedente alla riforma del 2020 (ancora applicabile ai procedimenti pendenti avanti alla Corte di cassazione), le Sezioni unite, sul solco delle pronunce che hanno aperto ad un giudizio di comparazione attenuata (in particolare Sez. U, Sentenza n.
29459 del 13/11/2019 e la fondamentale Sez. I, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018, per cui “il parametro dell'inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia può essere valorizzato come presupposto della protezione umanitaria non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale”) e superando, dunque, le pregresse “oscillazioni interpretative registratesi nella giurisprudenza”, di legittimità e di merito, hanno inteso da ultimo “definire più precisamente i contorni della comparazione che il giudice è chiamato a compiere, davanti ad una domanda di permesso di soggiorno per motivi umanitari, tra la situazione che il richiedente lascerebbe in Italia e quella che egli troverebbe nel suo Paese di origine”, chiarendo la necessità di valorizzare il criterio del “diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui all'art. 8 CEDU, quale prerequisito di una "vita dignitosa";diritto, va aggiunto, che inscindibilmente è connesso alla dignità della persona, riconosciuto nell'articolo 3 Cost., ed al diritto di svolgere la propria personalità nelle formazioni sociali, riconosciuto nell'articolo 2 Cost.”
(Corte di cassazione Sez. U, Sentenza n. 24413 del 09/09/2021).
A tale riguardo hanno quindi osservato che “in base alla normativa del testo unico sull'immigrazione anteriore alle modifiche introdotte dal D.l. n. 113/2018, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, occorre operare una valutazione comparativa tra la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine e la situazione
d'integrazione raggiunta in Italia, attribuendo alla condizione del richiedente nel paese di provenienza un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nella società italiana, fermo restando che situazioni di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità nel paese originario possono fondare il diritto alla protezione umanitaria anche in assenza di un apprezzabile livello di integrazione in Italia;qualora poi si accerti che tale livello è stato raggiunto e che il ritorno nel paese d'origine renda
Pagina 3 probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare tali da recare un
"vulnus" al diritto riconosciuto dall'art. 8 della Convenzione EDU, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell'art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, per riconoscere il permesso di soggiorno” (sent. n. 24413/2021 cit.).
Per ritenere integrati i presupposti necessari al riconoscimento di tale forma di protezione complementare è, dunque, necessaria la prova di un pericolo di lesione dei diritti fondamentali della persona, derivante dalla comparazione fra la situazione nel paese di origine e l'effettiva integrazione nel tessuto sociale del paese ospitante, la quale può comprendere, ma non si esaurisce, nel suo inserimento lavorativo, dovendosi valorizzare, inevitabilmente, la necessità di preservare la vita privata e familiare del richiedente protezione, assicurati e garantiti, innanzitutto, dall'art. 8 della
Convenzione EDU e dagli stessi artt. 2 e 3 in combinato disposto con l'art. 10, terzo comma della
Costituzione.
Dunque, già nel regime precedente alla recente riforma dell'art. 19 (e dell'art. 5, comma 6 D.lgs.
286/98, cui sono state aggiunte le parole “fatto salvo il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”), quanto più la persona abbia consolidato in Italia la propria vita privata e familiare, tanto più deve assumersi che il suo subitaneo e coartato sradicamento comporterebbe una manifesta lesione dei suoi diritti fondamentali.
A tale riguardo le Sezioni unite hanno invero efficacemente rilevato la necessità di verificare, caso per caso, “se il ritorno in Paesi d'origine rende probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare sì da recare un vulnus al diritto riconosciuto dall'art. 8 della
Convenzione EDU, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell'art. 5 T.U. cit., per riconoscere il permesso di soggiorno”, sicché una volta accertata la sussistenza di una concreta rete di relazioni affettive e sociali ed “in presenza di un livello elevato d'integrazione effettiva nel nostro
Paese - desumibile da indici socialmente rilevanti quali (…) la titolarità di un rapporto locatizio, la presenza di figli che frequentino asili o scuole, la partecipazione ad attività associative radicate nel territorio di insediamento - saranno le condizioni oggettive e soggettive nel Paese di origine ad assumere una rilevanza proporzionalmente minore” (sent. n. 24413/2021, cit.).
L'art. 19 nella sua formulazione stabilita con la riforma del 2020, come detto applicabile ratione temporis a questo procedimento, richiede l'accertamento di “fondati motivi di ritenere che
l'allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare”, a meno che il respingimento o l'espulsione sia necessaria “per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica” nonché, con espressione il cui significato è tuttora oggetto di dibattito, “di protezione della salute nel rispetto della Convenzione relativa allo
Pagina 4 statuto dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, resa esecutiva dalla legge 24 luglio 1954,
n. 722, e della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea”.
Ai fini della valutazione del rischio di violazione di cui al periodo precedente, la disposizione prescrive quindi che si tenga conto “della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell'esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese
d'origine”.
Appare dunque evidente, con riguardo a tale forma di protezione speciale per il fondato timore di violazione della vita privata e familiare, come la stessa si inserisca appieno nel percorso già tracciato dalla Suprema Corte e, anzi, come segnalato dalla stessa Corte di cassazione nell'ordinanza di rimessione alle SSUU in relazione al quadro normativo precedente, verosimilmente ne concreti un ulteriore ampliamento, quanto meno nelle ipotesi in cui la tutela che si fondi sul grado d'integrazione (nell'ordinanza si legge, invero, che l'art. 19 nella formulazione attuale prevede “una misura che pare configurarsi più ampia di quella della protezione umanitaria per integrazione sociale, come elaborata dalla giurisprudenza di questa Corte. Soprattutto, la norma individua chiaramente i fattori di comparazione, in un'ottica di bilanciamento tra le "ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica", da un lato, e le condizioni soggettive ed oggettive del cittadino straniero in dettaglio declinate, dall'altro, valorizzando, come ostativi al rimpatrio, la "solidità" dei legami con il nostro paese e l'affievolimento di quelli con il paese di origine”, sicché “mediante un percorso evolutivo ulteriore rispetto a quello tracciato dalle Sezioni
Unite del 2019, ma sempre col sostegno dell'art. 8 CEDU e nel solco di principi già affermati, peraltro valorizzato dal legislatore nel d.l. n. 130 del 2020, può ritenersi che, nelle ipotesi considerate e a date condizioni, il vulnus possa conseguire direttamente, anche, proprio dall'allontanamento del cittadino straniero dal paese di accoglienza”, osservando che in questi casi
“l'allontanamento può configurarsi come evento idoneo a provocare la lesione dei diritti umani fondamentali che connotano il "radicamento" dello straniero nel paese di accoglienza e dei quali il richiedente risulterebbe privato nel paese di origine. Dunque, la vulnerabilità, in questa ipotesi, può scaturire dallo "sradicamento" del cittadino straniero che, col tempo, abbia trovato nel paese ospitante una stabile condizione di vita, da intendersi riferita non solo all'inserimento lavorativo, che è indice indubbiamente significativo, ma anche ad altri ambiti relazionali rientranti nell'alveo applicativo dell'art. 8”, Corte di cassazione Sez. 6 - 1, Ordinanza interlocutoria n. 28316 del 2020).
A tale riguardo appare di rilievo che le SSUU, investite come detto della questione di massima importanza, pur escludendo che le “ricadute sistematiche dei nova recati dal citato decreto legge n.
130 del 2020” possano dare luogo in via diretta a una revisione del criterio di comparazione
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applicabile nelle controversie in cui deve applicarsi la precedente cd. protezione umanitaria, ha pure avuto modo di evidenziare la novità contenuta nella nuova forma di protezione speciale, sottolineando che “il decreto legge n. 130/2020 ha ancorato il divieto di respingimento od espulsione non più soltanto all'art. 3, ma anche all'art. 8, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, declinando la disposizione di detto articolo 8 in termini di tutela del "radicamento" del migrante nel territorio nazionale e qualificando tale radicamento come limite del potere statale di allontanamento dal territorio nazionale, superabile esclusivamente per ragioni, come si è visto, di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica nonché di protezione della salute” (sentenza n.
24413/2021, cit.).
Secondo le parole delle SSUU, dunque, ove sia accertato in concreto il pericolo di lesione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, tale divieto di allontanamento può essere oggi “superabile esclusivamente” ove sia accertato, in concreto, che l'allontanamento sia “necessario” per “ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica nonché di protezione della salute”, le quali, com'è evidente, debbono essere ancorate a specifici elementi acquisiti in ordine alla condotta del ricorrente (sent. n. 24413/2021 cit.).
In una recente decisione con cui la Corte di cassazione ha annullato un provvedimento di questo
Tribunale (emesso contestualmente all'entrata in vigore della riforma del dicembre 2020), a fronte dell'unico motivo di ricorso per cui “tanto minore è l'interesse dello Stato all'allontanamento dal territorio (perché, ad esempio, non vi sono problemi di pericolosità e perché si contribuisce all'economia del paese con il proprio lavoro), tanto minore deve essere il rigore con cui viene valutata la vita privata”, la Corte di cassazione ha condivisibilmente sottolineato come ai fini dell'accertamento dei presupposti della nuova protezione complementare non sia corretto richiedere
“ai fini dello stabile insediamento e della tutela del diritto alla vita privata anche un lungo periodo trascorso sul territorio nazionale e l'acquisizione di una vera e propria identità sociale e di un legame significativo con lo Stato ospitante” (Corte di cassazione Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 7861 del
10/03/2022).
La Corte di cassazione ha osservato al riguardo che “i parametri di aggancio al territorio italiano,
o, se si preferisce, di “radicamento” sono tre. Il primo è familiare, espresso in relazione ai vincoli di tal genere esistenti in Italia, che debbono essere effettivi (termine, non a caso, utilizzato due volte nell'ambito dello stesso periodo) ed esprimersi quindi in una relazione intensa e concreta che accompagni il rapporto di coniugio o il legame di sangue, anche se la legge non ha preteso un rapporto di convivenza. Il secondo è sociale e si traduce nella necessità di un inserimento, ancora una volta richiesto nella sua dimensione di effettività. Il terzo parametro considerato dalla legge è la durata del soggiorno del richiedente asilo sul territorio nazionale ed esprime un concorrente
Pagina 6 elemento di valenza presuntiva (dello sradicamento dal contesto di provenienza e del radicamento in Italia), che sembra difficile potersi apprezzare in via autonoma”.
Come rammentato dalla Corte EDU nella nota sentenza c. Italia 14 febbraio 2019 “si deve Per_1
accettare che tutti i rapporti sociali tra gli immigrati stabilmente insediati e la comunità nella quale vivono facciano parte integrante della nozione di “vita privata” ai sensi dell'art. 8.
Indipendentemente dall'esistenza o meno di una “vita familiare”, l'espulsione di uno straniero stabilmente insediato si traduce in una violazione del suo diritto al rispetto della sua vita privata”.
Ne consegue che a fronte di un soggiorno in Italia di circa tre anni, con un'attività lavorativa appena intrapresa, la Corte di cassazione ha ritenuto la necessità di verificare i diversi indici relativi al radicamento della vita privata del ricorrente [in siffatta prospettiva, la Corte di cassazione ha ritenuto che il Tribunale non avesse “valutato i molteplici elementi addotti dal ricorrente, sia in ordine alla durata del soggiorno in Italia (che risaliva all'aprile 2017), sia in ordine alla partecipazione a molteplici attività culturali, integrative e volontaristiche, sia alla partecipazione a corsi di lingua, sia soprattutto alle attività lavorative svolte a partire dal maggio 2019 e all'assunzione con contratto di lavoro a tempo indeterminato a partire dal 1.12.2020 e al reddito conseguentemente ricavato”].
La vita privata, infatti, intesa come manifestazione dell'individualità ampia ed insuscettibile di esatta delimitazione, è connotata da una pluralità di proiezioni, fra le quali certamente vi è: il diritto allo sviluppo della personalità mediante intreccio di relazioni con altri (Corte Europea dei Diritti dell'Uomo - sentenza Niemetz c. Germania -16 dicembre 1992);il diritto all'identità sociale ed alla stabilità dei riferimenti del singolo presso una data collettività (Corte Europea dei Diritti dell'Uomo
- sentenza Pretty c. Regno Unito - 29 aprile 2002);il domicilio che designa lo spazio fisico in cui si svolge la vita privata e familiare del singolo (Corte Europea dei Diritti dell'Uomo - sentenza
Giacomelli c. Italia - 2 novembre 2006).
Non può dubitarsi dunque che la disposizione de qua riconosca il diritto soggettivo al rilascio del detto permesso di soggiorno per protezione speciale nell'ipotesi in cui sia accertato il rischio che
l'allontanamento della persona possa determinare una violazione del suo diritto alla vita privata e familiare, affermando la necessità di verificare se il subitaneo sradicamento comporti il pericolo di una grave deprivazione dei suoi diritti umani, intesa in termini di diritto alla vita privata e familiare
e alla stessa identità e dignità personale.
Venendo al caso di specie, si deve osservare come il ricorrente si trovi in Italia da oltre trent'anni, essendo giunto sul territorio nazionale nel 1991.
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Tuttavia, occorre considerare che il ricorrente risulta attinto da un numero decisamente notevole di condanne penali, tutte emesse in un periodo considerevolmente lungo, coincidente per lo più con gli anni di permanenza in Italia.
Dal casellario giudiziale acquisito agli atti, composto da ben 16 pagine, emergono infatti – tra le altre – le seguenti condanne:
- sentenza della Pretura di del 17.1.1997, per reato ex art. 624 c.p. (furto) commesso il CP_1
16.1.1997 con condanna alla reclusione di mesi uno;
- sentenza del Tribunale di Bolzano del 28.1.2000 per falsità materiale commessa dal privato in certificati nonché ricettazione per ricettazioni commessi entrambi il 11.10.1997 con condanna alla reclusione di mesi 3 e multa di 25.000 Lire;
- sentenza del Tribunale di Reggio Emilia del 20.6.2001 per ricettazione, falsità materiale commessa da privato commessi entrambi il 2.5.1997 con condanna alla reclusione di 8 mesi e multa di 950.000 Lire;
- sentenza del Tribunale di Padova il 25.11.2022 per ricettazione e uso di atto falso commessi il
18.1.2001 con condanna alla reclusione di mesi 4, giorni 10 e multa di 100,00 euro;
- sentenza del Tribunale di Venezia del 10.6.2003 per ricettazione e furto commessi il 25.11.1996 con condanna alla reclusione di mesi 9, multa di 400,00 euro;
- sentenza del Tribunale di Venezia del 18.5.2004 per uso illecito di carte di credito commesso il
27.12.1996 con condanna alla reclusione di mesi 8;
- sentenza della Corte di Appello di Bologna del 22.6.2007 per induzione alla prostituzione, atti diretti a procurare l'ingresso illegale in altro stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanenza, minaccia e ricettazioni, tutti commessi tra settembre 2001 e febbraio
2002 con condanna alla reclusione di anni 6, mesi 4 e multa di 25.800 euro;
- sentenza della Corte di Appello di Bologna del 19.12.2007 per furto commesso il 4.8.2006 con condanna alla reclusione di mesi 10, multa 300,00 euro;
- sentenza della Corte di Appello di Bologna del 14.1.2010 per falsità materiale commessa da privato in certificati, possesso e fabbricazione di documenti di identificazione falsi, falsa attestazione a pubblico ufficiale commessi 2.5.2009 con condanna alla reclusione di anni 1;
- sentenza della Corte di Appello di Bologna del 4.5.2010 per evasione tentata commessa il
17.3.2003 con condanna alla reclusione mesi 5;
- sentenza della Corte di Appello di Bologna del 7.6.2011 per favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione in concorso e furti vari anche in abitazione tutti commessi tra il 2004 al 2005 con condanna alla reclusione di anni 7, mesi 6, multa 10.000,00;
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- sentenza della Corte di Appello di Bologna del 19.3.2013 per associazione a delinquere, favoreggiamento della prostituzione, violazione delle disposizioni contro l'immigrazione clandestina, prostituzione minorile, tutti commessi tra il 2004 e il 2005 con condanna alla reclusione di anni 9 mesi 11;
- sentenza della Corte di Appello di Bologna del 3.4.2015 per furto tentato commesso nel 2014 con condanna alla reclusione di mesi 10;
- sentenza della Corte di Appello di Bologna del 19.5.2015 per ricettazione, falsa dichiarazione sull'identità propria, furto commessi nel 2001 con condanna alla reclusione di anni 2 e mesi 1;
- sentenza della Corte di Appello di Bologna del 22.11.2017 per ricettazione commesso nel 2009 con condanna alla reclusione di anni 2;
- sentenza della Corte di Appello di Bologna del 29.1.2019 per ricettazione commesso nel 2012 con condanna alla reclusione di mesi 3.
I reati per cui il ricorrente è stato condannato risultano gravi sia con riguardo alla quantità che alla diversa tipologia, sono compresi in un arco temporale di quasi vent'anni e coprono buona parte della permanenza del ricorrente sul territorio nazionale.
Non v'è chi non veda, dunque, come il ricorrente abbia trascorso gran parte del suo tempo in Italia privo di regolare permesso di soggiorno (cfr. dichiarazioni rese all'udienza dell'11.6.2024: “D. Da quanto tempo è in Italia? R. Da Marzo del 1991. In Albania c'era il regime comunista e tutti andavano via. Sono arrivato a Brindisi con la nave come altri. Ho fatto richiesta di un permesso di soggiorno per asilo politico, poi mi sono spostato a Cesena dove ho iniziato a lavorare con un permesso per motivi di lavoro subordinato. A quei tempi, arrivato a Brindisi, mi ha ospitato una famiglia brindisina, e mi hanno dato un permesso di due anni. Poi quando sono andato a Cesena ho avuto quello per lavoro subordinato. Ho avuto questo permesso per lavoro fino al 1997 che poi non ho potuto rinnovare perché lavoravo in nero. Da quel momento non ho più chiesto un permesso di soggiorno fino alla richiesta in Questura del permesso di protezione speciale”) e prevalentemente in regime di restrizione della sua libertà personale (cfr. altresì dichiarazioni rese all'udienza dell'11.6.2024: “D. Perché non ha più chiesto un permesso di soggiorno? R. Perché poi sono iniziati i problemi penali. Sono stato in carcere molte volte, per furti o altri reati contro il patrimonio principalmente. Poi sono stato in carcere anche per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e favoreggiamento della prostituzione ecc… Il periodo più lungo che ho fatto è stato per una condanna di 10-12 anni, ma ho ottenuto il permesso ex art. 21 per andare a lavorare durante il giorno. C'è stato un cumulo di condanne, ho fatto quasi 24 anni di carcere…”).
A fronte di una propensione a delinquere e una incapacità di azionare freni inibitori, che lo hanno portato nel tempo a commettere reati di disvalore penale maggiore, risulta evidente come il
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ricorrente non abbia mai avuto un effettivo interesse ad integrarsi sul territorio nazionale, anche mediante la richiesta di un permesso di soggiorno, avvenuta solo nell'anno 2022.
Appare piuttosto come lo stesso abbia trascorso la gran parte del suo periodo in Italia vivendo dei ricavi della sua costante attività illecita o in carcere, mostrando anche l'estratto conto previdenziale un'attività lavorativa sporadica, svolta per lo più durante i periodi di detenzione (cfr. estratto conto previdenziale).
Solo una volta uscito dal carcere (nell'anno 2022) il ricorrente avrebbe trovato un'occupazione fissa
a tempo determinato che gli ha fruttato introiti nell'anno 2023 pari a € 13.527,00, occupazione interrotta al momento del suo nuovo arresto. Il ricorrente risulta infatti attualmente sottoposto a procedimento penale – e sottoposto misura cautelare (arresti domiciliati successivamente sostituiti dalla misura dell'obbligo di dimora – cfr. doc. 10 fascicolo parte ricorrente) – in quanto indagato per il delitto di cui all'art. 416 c.p. unitamente ad altri numerosi soggetti, perché si associavano tra loro allo scopo di commettere più delitti contro il patrimonio, con riguardo agli artt. 624, 625 e 61 cpc in danno di esercizi commerciali ed aziende, con prima manifestazione concreta nel gennaio
2018 e con permanenza del reato tuttora in corso (cfr. avviso conclusioni delle indagini preliminari ex art. 415-bis c.p.p. prodotto in atti).
Alla luce di quanto sopra, stante la natura dei reati commessi, la loro reiterazione, l'entità delle pene inflitte e vista l'attuale pendenza di un procedimento penale per fatti piuttosto gravi con permanenza del reato tuttora in corso, il Collegio ritiene che la vita privata del ricorrente sul territorio nazionale, pur sussistente e di fatto costituita da una lunghissima permanenza sul territorio italiano, non sia idonea a superare il giudizio di pericolosità nel bilanciamento degli opposti interessi.
Il ricorrente, infatti, non ha mai lavorato stabilmente e non ha intrattenuto legami significativi sul territorio nazionale (non si è mai sposato né ha mai avuto digli). La presenza sul territorio nazionale della sorella non risulta d'altronde sufficiente a dimostrare il contrario, posto che non è dimostrato alcun legame effettivo e significativo tra i due. Né una breve relazione affettiva con una cittadina cinese (meramente dichiarata dal ricorrente in audizione) vale a controbilanciare un vissuto privo di alcun radicamento meritevole di tutela.
Nel caso in esame, si ritiene dunque operante il c.d. controlimite della pericolosità sociale, posto che la radicata opzione delittuosa del ricorrente non consente di fare affidamento sulla correttezza del suo futuro comportamento, anche perché il tempo trascorso dalla definitiva espiazione dell'ultima condanna è troppo breve per poter essere positivamente valutato dopo una così significativa reiterazione di fatti di disvalore penale.
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Quanto, infine, alla richiesta della difesa di tradure mediante interprete la documentazione relativa allo status di rifugiato ottenuto dallo zio del ricorrente in Germania, ritiene il Collegio che la stessa non risulti affatto determinante nel caso in esame.
Da un lato va osservato che il ricorrente ha dedotto la predetta circostanza solo nel presente giudizio, non avendo mai formulato domanda di protezione internazionale, con la conseguenza che manca una fase amministrativa volta al riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria che impedisce qualsivoglia delibazione da parte del Tribunale sulle predette protezioni.
Dall'altro lato non si ravvisano ulteriori limiti all'espulsione ai sensi dell'art. 19, comma 1 e comma
1.1., D.lgs. 286/1998, posto che il ricorrente non ha minimamente allegato un rischio specifico con riguardo ad un eventuale rientro in Albania, non potendosi fondare la protezione del ricorrente, sul mero riconoscimento del rifugio ad un suo parente. Invero, richiesto a chiarimenti sul punto nel corso dell'audizione, il richiedente si è limitato a riferire: “D. Lei pensa di essere in pericolo in caso di rientro in Albania per questa vicenda? R. Sì, perché sono suo nipote e lui mi ha cresciuto” (cfr. verbale di udienza dell'11.6.2024). La richiesta istruttoria al fine di fondare un motivo di protezione appare poi del tutto pretestuosa, posto che dal 2004 (anno in cui lo zio del ricorrente avrebbe ottenuto lo status di rifugiato) il ricorrente avrebbe atteso vent'anni per richiedere protezione allo
Stato italiano in virtù della predetta vicenda, non curandosi di sanare nemmeno la sua permanenza irregolare sul territorio nazionale.
Il ricorso va, pertanto, rigettato.
Nulla sulle spese di lite in assenza di costituzione della parte resistente.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO DI BOLOGNA
Sezione Specializzata in materia di Immigrazione, Protezione internazionale
e Libera circolazione cittadini UE
Il Tribunale in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati:
Dott. M Gso Presidente
Dott.ssa M C B Giudice
Dott.ssa D G Giudice Relatrice
Nella causa civile iscritta al n. r.g. 5335/2024 promossa da:
(CUI: ), rappresentato e difeso dall'Avv. SPINELLI BARBARA Parte_1 C.F._1
RICORRENTE contro
– Controparte_1 Controparte_2
RESISTENTE all'esito della camera di consiglio ha pronunciato la seguente
SENTENZA ai sensi degli artt. 281-undecies, terdecies, 275-bis c.p.c. e 19-ter D.lgs. 150/2011
Con ricorso depositato in data 12/04/2024, , cittadino della ALBANIA nato nel Parte_1
1970, ha impugnato del Questore di Bologna del 15.11.2023, notificato il 16.3.2024 con il quale è stata rigettata la richiesta di protezione speciale di cui all'art. 19 D.lgs. 25 luglio 1998 n. 286, come modificato con il recente D.L. 21 ottobre 2020, n. 130, convertito con L. 137/2020;chiedeva altresì la sospensione dell'esecutorietà del provvedimento impugnato.
Il non si è costituito in giudizio nonostante la ritualità della notifica. Controparte_2
La causa, istruita a mezzo produzione documentale, è stata rimessa al Collegio per la decisione ai sensi degli artt. 281-undecies e terdecies e 275 bis c.p.c.
L'udienza collegiale è stata quindi sostituita con trattazione scritta ai sensi dell'art. 127-ter c.p.c. con termine nella detta data per il deposito di brevi note scritte, contenenti le sole istanze e conclusioni.
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Le parti non hanno chiesto che la discussione avvenisse in presenza, prestando dunque implicito consenso alla trattazione scritta.
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In via principale il ricorrente ha chiesto la concessione della protezione speciale ai sensi dell'art. 19, co. 1.1. seconda parte, D.lgs. 286/1998.
Sul punto, va osservato preliminarmente come il legislatore sia intervenuto nel 2020 riformando integralmente (con l'art. 1 del D.L. 21 ottobre 2020, n. 130, convertito con L. 137/2020) il comma
1.1 dell'art. 19 D.lgs. 286/1998, prevedendo che “non sono ammessi il respingimento o l'espulsione
o l'estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti o qualora ricorrano gli obblighi di cui all'articolo 5, comma 6. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell'esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani. Non sono altresì ammessi il respingimento o l'espulsione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che l'allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, a meno che esso sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica nonché di protezione della salute nel rispetto della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, resa esecutiva dalla legge 24 luglio 1954, n. 722, e della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Ai fini della valutazione del rischio di violazione di cui al periodo precedente, si tiene conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell'esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d'origine”.
Al comma 1.2, è stato quindi previsto che nei casi del comma 1 e comma 1.1 il Questore rilasci, previo parere della Commissione Territoriale, un permesso denominato per «protezione speciale».
Infine, differentemente da quanto disposto in seguito al D.l. 113/2018, con D.l. 130/2020 il legislatore ha previsto che il permesso per protezione speciale abbia durata biennale (e non più annuale) e che sia convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
Com'è altresì noto, il Decreto-Legge 10 marzo 2023, n. 20 (Disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto all'immigrazione irregolare), convertito con modificazioni dalla L. 5 maggio 2023, n. 50, prevede all'art. 7, secondo comma che
“per le istanze presentate fino alla data di entrata in vigore del presente decreto, ovvero nei casi in cui lo straniero abbia già ricevuto l'invito alla presentazione dell'istanza da parte della Questura competente, continua ad applicarsi la disciplina previgente”, sicché non possono esservi dubbi in ordine all'applicabilità nella presente causa della forma di protezione complementare stabilita in
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forza del comma 1.1 dell'art. 19 D.lgs. 286/98, come formulata in seguito all'art. 1 del D.L. 21 ottobre 2020, n. 130, convertito con L. 137/2020.
Ciò posto, è evidente come la protezione speciale per il fondato timore di violazione della vita privata e familiare, contemplata nella nuova normativa configuri in buona misura l'esito del percorso di sistemazione interpretativa avente ad oggetto la precedente protezione umanitaria, elaborato prima dell'intervento legislativo del 2018 dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, sulla falsariga della giurisprudenza CEDU sul rispetto della vita privata e familiare di cui all'art. 8
CEDU, e, anzi, come per alcuni aspetti ne ampli la portata.
Con riguardo al quadro normativo antecedente alla riforma del 2020 (ancora applicabile ai procedimenti pendenti avanti alla Corte di cassazione), le Sezioni unite, sul solco delle pronunce che hanno aperto ad un giudizio di comparazione attenuata (in particolare Sez. U, Sentenza n.
29459 del 13/11/2019 e la fondamentale Sez. I, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018, per cui “il parametro dell'inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia può essere valorizzato come presupposto della protezione umanitaria non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale”) e superando, dunque, le pregresse “oscillazioni interpretative registratesi nella giurisprudenza”, di legittimità e di merito, hanno inteso da ultimo “definire più precisamente i contorni della comparazione che il giudice è chiamato a compiere, davanti ad una domanda di permesso di soggiorno per motivi umanitari, tra la situazione che il richiedente lascerebbe in Italia e quella che egli troverebbe nel suo Paese di origine”, chiarendo la necessità di valorizzare il criterio del “diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui all'art. 8 CEDU, quale prerequisito di una "vita dignitosa";diritto, va aggiunto, che inscindibilmente è connesso alla dignità della persona, riconosciuto nell'articolo 3 Cost., ed al diritto di svolgere la propria personalità nelle formazioni sociali, riconosciuto nell'articolo 2 Cost.”
(Corte di cassazione Sez. U, Sentenza n. 24413 del 09/09/2021).
A tale riguardo hanno quindi osservato che “in base alla normativa del testo unico sull'immigrazione anteriore alle modifiche introdotte dal D.l. n. 113/2018, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, occorre operare una valutazione comparativa tra la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine e la situazione
d'integrazione raggiunta in Italia, attribuendo alla condizione del richiedente nel paese di provenienza un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nella società italiana, fermo restando che situazioni di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità nel paese originario possono fondare il diritto alla protezione umanitaria anche in assenza di un apprezzabile livello di integrazione in Italia;qualora poi si accerti che tale livello è stato raggiunto e che il ritorno nel paese d'origine renda
Pagina 3 probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare tali da recare un
"vulnus" al diritto riconosciuto dall'art. 8 della Convenzione EDU, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell'art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, per riconoscere il permesso di soggiorno” (sent. n. 24413/2021 cit.).
Per ritenere integrati i presupposti necessari al riconoscimento di tale forma di protezione complementare è, dunque, necessaria la prova di un pericolo di lesione dei diritti fondamentali della persona, derivante dalla comparazione fra la situazione nel paese di origine e l'effettiva integrazione nel tessuto sociale del paese ospitante, la quale può comprendere, ma non si esaurisce, nel suo inserimento lavorativo, dovendosi valorizzare, inevitabilmente, la necessità di preservare la vita privata e familiare del richiedente protezione, assicurati e garantiti, innanzitutto, dall'art. 8 della
Convenzione EDU e dagli stessi artt. 2 e 3 in combinato disposto con l'art. 10, terzo comma della
Costituzione.
Dunque, già nel regime precedente alla recente riforma dell'art. 19 (e dell'art. 5, comma 6 D.lgs.
286/98, cui sono state aggiunte le parole “fatto salvo il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”), quanto più la persona abbia consolidato in Italia la propria vita privata e familiare, tanto più deve assumersi che il suo subitaneo e coartato sradicamento comporterebbe una manifesta lesione dei suoi diritti fondamentali.
A tale riguardo le Sezioni unite hanno invero efficacemente rilevato la necessità di verificare, caso per caso, “se il ritorno in Paesi d'origine rende probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare sì da recare un vulnus al diritto riconosciuto dall'art. 8 della
Convenzione EDU, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell'art. 5 T.U. cit., per riconoscere il permesso di soggiorno”, sicché una volta accertata la sussistenza di una concreta rete di relazioni affettive e sociali ed “in presenza di un livello elevato d'integrazione effettiva nel nostro
Paese - desumibile da indici socialmente rilevanti quali (…) la titolarità di un rapporto locatizio, la presenza di figli che frequentino asili o scuole, la partecipazione ad attività associative radicate nel territorio di insediamento - saranno le condizioni oggettive e soggettive nel Paese di origine ad assumere una rilevanza proporzionalmente minore” (sent. n. 24413/2021, cit.).
L'art. 19 nella sua formulazione stabilita con la riforma del 2020, come detto applicabile ratione temporis a questo procedimento, richiede l'accertamento di “fondati motivi di ritenere che
l'allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare”, a meno che il respingimento o l'espulsione sia necessaria “per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica” nonché, con espressione il cui significato è tuttora oggetto di dibattito, “di protezione della salute nel rispetto della Convenzione relativa allo
Pagina 4 statuto dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, resa esecutiva dalla legge 24 luglio 1954,
n. 722, e della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea”.
Ai fini della valutazione del rischio di violazione di cui al periodo precedente, la disposizione prescrive quindi che si tenga conto “della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell'esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese
d'origine”.
Appare dunque evidente, con riguardo a tale forma di protezione speciale per il fondato timore di violazione della vita privata e familiare, come la stessa si inserisca appieno nel percorso già tracciato dalla Suprema Corte e, anzi, come segnalato dalla stessa Corte di cassazione nell'ordinanza di rimessione alle SSUU in relazione al quadro normativo precedente, verosimilmente ne concreti un ulteriore ampliamento, quanto meno nelle ipotesi in cui la tutela che si fondi sul grado d'integrazione (nell'ordinanza si legge, invero, che l'art. 19 nella formulazione attuale prevede “una misura che pare configurarsi più ampia di quella della protezione umanitaria per integrazione sociale, come elaborata dalla giurisprudenza di questa Corte. Soprattutto, la norma individua chiaramente i fattori di comparazione, in un'ottica di bilanciamento tra le "ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica", da un lato, e le condizioni soggettive ed oggettive del cittadino straniero in dettaglio declinate, dall'altro, valorizzando, come ostativi al rimpatrio, la "solidità" dei legami con il nostro paese e l'affievolimento di quelli con il paese di origine”, sicché “mediante un percorso evolutivo ulteriore rispetto a quello tracciato dalle Sezioni
Unite del 2019, ma sempre col sostegno dell'art. 8 CEDU e nel solco di principi già affermati, peraltro valorizzato dal legislatore nel d.l. n. 130 del 2020, può ritenersi che, nelle ipotesi considerate e a date condizioni, il vulnus possa conseguire direttamente, anche, proprio dall'allontanamento del cittadino straniero dal paese di accoglienza”, osservando che in questi casi
“l'allontanamento può configurarsi come evento idoneo a provocare la lesione dei diritti umani fondamentali che connotano il "radicamento" dello straniero nel paese di accoglienza e dei quali il richiedente risulterebbe privato nel paese di origine. Dunque, la vulnerabilità, in questa ipotesi, può scaturire dallo "sradicamento" del cittadino straniero che, col tempo, abbia trovato nel paese ospitante una stabile condizione di vita, da intendersi riferita non solo all'inserimento lavorativo, che è indice indubbiamente significativo, ma anche ad altri ambiti relazionali rientranti nell'alveo applicativo dell'art. 8”, Corte di cassazione Sez. 6 - 1, Ordinanza interlocutoria n. 28316 del 2020).
A tale riguardo appare di rilievo che le SSUU, investite come detto della questione di massima importanza, pur escludendo che le “ricadute sistematiche dei nova recati dal citato decreto legge n.
130 del 2020” possano dare luogo in via diretta a una revisione del criterio di comparazione
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applicabile nelle controversie in cui deve applicarsi la precedente cd. protezione umanitaria, ha pure avuto modo di evidenziare la novità contenuta nella nuova forma di protezione speciale, sottolineando che “il decreto legge n. 130/2020 ha ancorato il divieto di respingimento od espulsione non più soltanto all'art. 3, ma anche all'art. 8, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, declinando la disposizione di detto articolo 8 in termini di tutela del "radicamento" del migrante nel territorio nazionale e qualificando tale radicamento come limite del potere statale di allontanamento dal territorio nazionale, superabile esclusivamente per ragioni, come si è visto, di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica nonché di protezione della salute” (sentenza n.
24413/2021, cit.).
Secondo le parole delle SSUU, dunque, ove sia accertato in concreto il pericolo di lesione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, tale divieto di allontanamento può essere oggi “superabile esclusivamente” ove sia accertato, in concreto, che l'allontanamento sia “necessario” per “ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica nonché di protezione della salute”, le quali, com'è evidente, debbono essere ancorate a specifici elementi acquisiti in ordine alla condotta del ricorrente (sent. n. 24413/2021 cit.).
In una recente decisione con cui la Corte di cassazione ha annullato un provvedimento di questo
Tribunale (emesso contestualmente all'entrata in vigore della riforma del dicembre 2020), a fronte dell'unico motivo di ricorso per cui “tanto minore è l'interesse dello Stato all'allontanamento dal territorio (perché, ad esempio, non vi sono problemi di pericolosità e perché si contribuisce all'economia del paese con il proprio lavoro), tanto minore deve essere il rigore con cui viene valutata la vita privata”, la Corte di cassazione ha condivisibilmente sottolineato come ai fini dell'accertamento dei presupposti della nuova protezione complementare non sia corretto richiedere
“ai fini dello stabile insediamento e della tutela del diritto alla vita privata anche un lungo periodo trascorso sul territorio nazionale e l'acquisizione di una vera e propria identità sociale e di un legame significativo con lo Stato ospitante” (Corte di cassazione Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 7861 del
10/03/2022).
La Corte di cassazione ha osservato al riguardo che “i parametri di aggancio al territorio italiano,
o, se si preferisce, di “radicamento” sono tre. Il primo è familiare, espresso in relazione ai vincoli di tal genere esistenti in Italia, che debbono essere effettivi (termine, non a caso, utilizzato due volte nell'ambito dello stesso periodo) ed esprimersi quindi in una relazione intensa e concreta che accompagni il rapporto di coniugio o il legame di sangue, anche se la legge non ha preteso un rapporto di convivenza. Il secondo è sociale e si traduce nella necessità di un inserimento, ancora una volta richiesto nella sua dimensione di effettività. Il terzo parametro considerato dalla legge è la durata del soggiorno del richiedente asilo sul territorio nazionale ed esprime un concorrente
Pagina 6 elemento di valenza presuntiva (dello sradicamento dal contesto di provenienza e del radicamento in Italia), che sembra difficile potersi apprezzare in via autonoma”.
Come rammentato dalla Corte EDU nella nota sentenza c. Italia 14 febbraio 2019 “si deve Per_1
accettare che tutti i rapporti sociali tra gli immigrati stabilmente insediati e la comunità nella quale vivono facciano parte integrante della nozione di “vita privata” ai sensi dell'art. 8.
Indipendentemente dall'esistenza o meno di una “vita familiare”, l'espulsione di uno straniero stabilmente insediato si traduce in una violazione del suo diritto al rispetto della sua vita privata”.
Ne consegue che a fronte di un soggiorno in Italia di circa tre anni, con un'attività lavorativa appena intrapresa, la Corte di cassazione ha ritenuto la necessità di verificare i diversi indici relativi al radicamento della vita privata del ricorrente [in siffatta prospettiva, la Corte di cassazione ha ritenuto che il Tribunale non avesse “valutato i molteplici elementi addotti dal ricorrente, sia in ordine alla durata del soggiorno in Italia (che risaliva all'aprile 2017), sia in ordine alla partecipazione a molteplici attività culturali, integrative e volontaristiche, sia alla partecipazione a corsi di lingua, sia soprattutto alle attività lavorative svolte a partire dal maggio 2019 e all'assunzione con contratto di lavoro a tempo indeterminato a partire dal 1.12.2020 e al reddito conseguentemente ricavato”].
La vita privata, infatti, intesa come manifestazione dell'individualità ampia ed insuscettibile di esatta delimitazione, è connotata da una pluralità di proiezioni, fra le quali certamente vi è: il diritto allo sviluppo della personalità mediante intreccio di relazioni con altri (Corte Europea dei Diritti dell'Uomo - sentenza Niemetz c. Germania -16 dicembre 1992);il diritto all'identità sociale ed alla stabilità dei riferimenti del singolo presso una data collettività (Corte Europea dei Diritti dell'Uomo
- sentenza Pretty c. Regno Unito - 29 aprile 2002);il domicilio che designa lo spazio fisico in cui si svolge la vita privata e familiare del singolo (Corte Europea dei Diritti dell'Uomo - sentenza
Giacomelli c. Italia - 2 novembre 2006).
Non può dubitarsi dunque che la disposizione de qua riconosca il diritto soggettivo al rilascio del detto permesso di soggiorno per protezione speciale nell'ipotesi in cui sia accertato il rischio che
l'allontanamento della persona possa determinare una violazione del suo diritto alla vita privata e familiare, affermando la necessità di verificare se il subitaneo sradicamento comporti il pericolo di una grave deprivazione dei suoi diritti umani, intesa in termini di diritto alla vita privata e familiare
e alla stessa identità e dignità personale.
Venendo al caso di specie, si deve osservare come il ricorrente si trovi in Italia da oltre trent'anni, essendo giunto sul territorio nazionale nel 1991.
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Tuttavia, occorre considerare che il ricorrente risulta attinto da un numero decisamente notevole di condanne penali, tutte emesse in un periodo considerevolmente lungo, coincidente per lo più con gli anni di permanenza in Italia.
Dal casellario giudiziale acquisito agli atti, composto da ben 16 pagine, emergono infatti – tra le altre – le seguenti condanne:
- sentenza della Pretura di del 17.1.1997, per reato ex art. 624 c.p. (furto) commesso il CP_1
16.1.1997 con condanna alla reclusione di mesi uno;
- sentenza del Tribunale di Bolzano del 28.1.2000 per falsità materiale commessa dal privato in certificati nonché ricettazione per ricettazioni commessi entrambi il 11.10.1997 con condanna alla reclusione di mesi 3 e multa di 25.000 Lire;
- sentenza del Tribunale di Reggio Emilia del 20.6.2001 per ricettazione, falsità materiale commessa da privato commessi entrambi il 2.5.1997 con condanna alla reclusione di 8 mesi e multa di 950.000 Lire;
- sentenza del Tribunale di Padova il 25.11.2022 per ricettazione e uso di atto falso commessi il
18.1.2001 con condanna alla reclusione di mesi 4, giorni 10 e multa di 100,00 euro;
- sentenza del Tribunale di Venezia del 10.6.2003 per ricettazione e furto commessi il 25.11.1996 con condanna alla reclusione di mesi 9, multa di 400,00 euro;
- sentenza del Tribunale di Venezia del 18.5.2004 per uso illecito di carte di credito commesso il
27.12.1996 con condanna alla reclusione di mesi 8;
- sentenza della Corte di Appello di Bologna del 22.6.2007 per induzione alla prostituzione, atti diretti a procurare l'ingresso illegale in altro stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanenza, minaccia e ricettazioni, tutti commessi tra settembre 2001 e febbraio
2002 con condanna alla reclusione di anni 6, mesi 4 e multa di 25.800 euro;
- sentenza della Corte di Appello di Bologna del 19.12.2007 per furto commesso il 4.8.2006 con condanna alla reclusione di mesi 10, multa 300,00 euro;
- sentenza della Corte di Appello di Bologna del 14.1.2010 per falsità materiale commessa da privato in certificati, possesso e fabbricazione di documenti di identificazione falsi, falsa attestazione a pubblico ufficiale commessi 2.5.2009 con condanna alla reclusione di anni 1;
- sentenza della Corte di Appello di Bologna del 4.5.2010 per evasione tentata commessa il
17.3.2003 con condanna alla reclusione mesi 5;
- sentenza della Corte di Appello di Bologna del 7.6.2011 per favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione in concorso e furti vari anche in abitazione tutti commessi tra il 2004 al 2005 con condanna alla reclusione di anni 7, mesi 6, multa 10.000,00;
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- sentenza della Corte di Appello di Bologna del 19.3.2013 per associazione a delinquere, favoreggiamento della prostituzione, violazione delle disposizioni contro l'immigrazione clandestina, prostituzione minorile, tutti commessi tra il 2004 e il 2005 con condanna alla reclusione di anni 9 mesi 11;
- sentenza della Corte di Appello di Bologna del 3.4.2015 per furto tentato commesso nel 2014 con condanna alla reclusione di mesi 10;
- sentenza della Corte di Appello di Bologna del 19.5.2015 per ricettazione, falsa dichiarazione sull'identità propria, furto commessi nel 2001 con condanna alla reclusione di anni 2 e mesi 1;
- sentenza della Corte di Appello di Bologna del 22.11.2017 per ricettazione commesso nel 2009 con condanna alla reclusione di anni 2;
- sentenza della Corte di Appello di Bologna del 29.1.2019 per ricettazione commesso nel 2012 con condanna alla reclusione di mesi 3.
I reati per cui il ricorrente è stato condannato risultano gravi sia con riguardo alla quantità che alla diversa tipologia, sono compresi in un arco temporale di quasi vent'anni e coprono buona parte della permanenza del ricorrente sul territorio nazionale.
Non v'è chi non veda, dunque, come il ricorrente abbia trascorso gran parte del suo tempo in Italia privo di regolare permesso di soggiorno (cfr. dichiarazioni rese all'udienza dell'11.6.2024: “D. Da quanto tempo è in Italia? R. Da Marzo del 1991. In Albania c'era il regime comunista e tutti andavano via. Sono arrivato a Brindisi con la nave come altri. Ho fatto richiesta di un permesso di soggiorno per asilo politico, poi mi sono spostato a Cesena dove ho iniziato a lavorare con un permesso per motivi di lavoro subordinato. A quei tempi, arrivato a Brindisi, mi ha ospitato una famiglia brindisina, e mi hanno dato un permesso di due anni. Poi quando sono andato a Cesena ho avuto quello per lavoro subordinato. Ho avuto questo permesso per lavoro fino al 1997 che poi non ho potuto rinnovare perché lavoravo in nero. Da quel momento non ho più chiesto un permesso di soggiorno fino alla richiesta in Questura del permesso di protezione speciale”) e prevalentemente in regime di restrizione della sua libertà personale (cfr. altresì dichiarazioni rese all'udienza dell'11.6.2024: “D. Perché non ha più chiesto un permesso di soggiorno? R. Perché poi sono iniziati i problemi penali. Sono stato in carcere molte volte, per furti o altri reati contro il patrimonio principalmente. Poi sono stato in carcere anche per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e favoreggiamento della prostituzione ecc… Il periodo più lungo che ho fatto è stato per una condanna di 10-12 anni, ma ho ottenuto il permesso ex art. 21 per andare a lavorare durante il giorno. C'è stato un cumulo di condanne, ho fatto quasi 24 anni di carcere…”).
A fronte di una propensione a delinquere e una incapacità di azionare freni inibitori, che lo hanno portato nel tempo a commettere reati di disvalore penale maggiore, risulta evidente come il
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ricorrente non abbia mai avuto un effettivo interesse ad integrarsi sul territorio nazionale, anche mediante la richiesta di un permesso di soggiorno, avvenuta solo nell'anno 2022.
Appare piuttosto come lo stesso abbia trascorso la gran parte del suo periodo in Italia vivendo dei ricavi della sua costante attività illecita o in carcere, mostrando anche l'estratto conto previdenziale un'attività lavorativa sporadica, svolta per lo più durante i periodi di detenzione (cfr. estratto conto previdenziale).
Solo una volta uscito dal carcere (nell'anno 2022) il ricorrente avrebbe trovato un'occupazione fissa
a tempo determinato che gli ha fruttato introiti nell'anno 2023 pari a € 13.527,00, occupazione interrotta al momento del suo nuovo arresto. Il ricorrente risulta infatti attualmente sottoposto a procedimento penale – e sottoposto misura cautelare (arresti domiciliati successivamente sostituiti dalla misura dell'obbligo di dimora – cfr. doc. 10 fascicolo parte ricorrente) – in quanto indagato per il delitto di cui all'art. 416 c.p. unitamente ad altri numerosi soggetti, perché si associavano tra loro allo scopo di commettere più delitti contro il patrimonio, con riguardo agli artt. 624, 625 e 61 cpc in danno di esercizi commerciali ed aziende, con prima manifestazione concreta nel gennaio
2018 e con permanenza del reato tuttora in corso (cfr. avviso conclusioni delle indagini preliminari ex art. 415-bis c.p.p. prodotto in atti).
Alla luce di quanto sopra, stante la natura dei reati commessi, la loro reiterazione, l'entità delle pene inflitte e vista l'attuale pendenza di un procedimento penale per fatti piuttosto gravi con permanenza del reato tuttora in corso, il Collegio ritiene che la vita privata del ricorrente sul territorio nazionale, pur sussistente e di fatto costituita da una lunghissima permanenza sul territorio italiano, non sia idonea a superare il giudizio di pericolosità nel bilanciamento degli opposti interessi.
Il ricorrente, infatti, non ha mai lavorato stabilmente e non ha intrattenuto legami significativi sul territorio nazionale (non si è mai sposato né ha mai avuto digli). La presenza sul territorio nazionale della sorella non risulta d'altronde sufficiente a dimostrare il contrario, posto che non è dimostrato alcun legame effettivo e significativo tra i due. Né una breve relazione affettiva con una cittadina cinese (meramente dichiarata dal ricorrente in audizione) vale a controbilanciare un vissuto privo di alcun radicamento meritevole di tutela.
Nel caso in esame, si ritiene dunque operante il c.d. controlimite della pericolosità sociale, posto che la radicata opzione delittuosa del ricorrente non consente di fare affidamento sulla correttezza del suo futuro comportamento, anche perché il tempo trascorso dalla definitiva espiazione dell'ultima condanna è troppo breve per poter essere positivamente valutato dopo una così significativa reiterazione di fatti di disvalore penale.
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Quanto, infine, alla richiesta della difesa di tradure mediante interprete la documentazione relativa allo status di rifugiato ottenuto dallo zio del ricorrente in Germania, ritiene il Collegio che la stessa non risulti affatto determinante nel caso in esame.
Da un lato va osservato che il ricorrente ha dedotto la predetta circostanza solo nel presente giudizio, non avendo mai formulato domanda di protezione internazionale, con la conseguenza che manca una fase amministrativa volta al riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria che impedisce qualsivoglia delibazione da parte del Tribunale sulle predette protezioni.
Dall'altro lato non si ravvisano ulteriori limiti all'espulsione ai sensi dell'art. 19, comma 1 e comma
1.1., D.lgs. 286/1998, posto che il ricorrente non ha minimamente allegato un rischio specifico con riguardo ad un eventuale rientro in Albania, non potendosi fondare la protezione del ricorrente, sul mero riconoscimento del rifugio ad un suo parente. Invero, richiesto a chiarimenti sul punto nel corso dell'audizione, il richiedente si è limitato a riferire: “D. Lei pensa di essere in pericolo in caso di rientro in Albania per questa vicenda? R. Sì, perché sono suo nipote e lui mi ha cresciuto” (cfr. verbale di udienza dell'11.6.2024). La richiesta istruttoria al fine di fondare un motivo di protezione appare poi del tutto pretestuosa, posto che dal 2004 (anno in cui lo zio del ricorrente avrebbe ottenuto lo status di rifugiato) il ricorrente avrebbe atteso vent'anni per richiedere protezione allo
Stato italiano in virtù della predetta vicenda, non curandosi di sanare nemmeno la sua permanenza irregolare sul territorio nazionale.
Il ricorso va, pertanto, rigettato.
Nulla sulle spese di lite in assenza di costituzione della parte resistente.
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