Trib. Catania, sentenza 06/05/2024, n. 2433

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Sul provvedimento

Citazione :
Trib. Catania, sentenza 06/05/2024, n. 2433
Giurisdizione : Trib. Catania
Numero : 2433
Data del deposito : 6 maggio 2024

Testo completo

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI CATANIA
SEZIONE II CIVILE - LAVORO
Il giudice del lavoro del Tribunale di Catania, dott.ssa L M C, a seguito dell'udienza del 18.01.2024, sostituita dal deposito di note scritte ex art. 127 ter c.p.c., ha emesso la
SENTENZA
nella causa iscritta al n. 1554/2019 RGL, avente a oggetto:"lavoro dipendente privato - contratto a termine - licenziamento - impugnazione con domanda di risarcimento danni – differenze retributive”
TRA
, nata a Giarre il 22.7.90 e residente in Riposto, Via L. Parte_1
Capuana, 1/B, c.f. , con l'avv. F C;
C.F._1
- Ricorrente- contro
, nato a Santa Domenica Vittoria il 25/07/1951, c.f. CP_1
, titolare della omonima ditta, corrente in Fiumefreddo di C.F._2
Sicilia Via Umberto, 21, p. iva , con l'avv. M G C;
P.IVA_1
-Resistente-
§§§
IN FATTO E IN DIRITTO
Con ricorso depositato il 12-13.02.2019, l'attrice esponeva di avere lavorato alle dipendenze di quale titolare dell'omonima ditta, corrente in CP_1
Fiumefreddo di Sicilia (CT), Via Umberto, 21, in qualità di "operatore di sale da gioco" e con inquadramento al 5° livello di cui al CCNL per il settore Terziario, dal


4.01.2018 al 22.09.2018, in forza di un contratto individuale di lavoro part time e a termine, il quale prevedeva lo svolgimento di 24 ore di lavoro settimanali, dal martedì alla domenica, dalle ore 15,30 alle ore 19,30 (v. doc.

2 - fascicolo ricorrente).
Deduceva che la naturale scadenza del contratto era stata convenuta tra le parti per il 03.01.2019;
che in realtà aveva svolto di fatto un diverso orario di lavoro, ossia dalle 15.00 alle 21.00, dal martedì alla domenica;
di avere ricevuto, quale paga mensile, solo la somma di € 600,00, nonostante le buste paga consegnatele recassero importi diversi e superiori (comprensivi delle mensilità aggiuntive);
che non aveva ricevuto la retribuzione relativa al mese di luglio 2018;
che non aveva ricevuto la retribuzione del lavoro supplementare svolto, con la relativa maggiorazione percentuale dovuta, né il relativo Tfr.
1
Deduceva di essere stata licenziata “per motivi aziendali legati all'andamento dell'attività lavorativa”, con preavviso di venti giorni a decorrere dall'11.09.2018
e fino al 30.09.2018, giusta lettera raccomandata a. r. del 10.09.2018;
di essere stata, poi, nuovamente licenziata, con telegramma del 13.09.2018, questa volta senza preavviso, con la seguente motivazione: “Dopo svariati avvisi verbali, ella continua
a mantenere un comportamento non consono all'attività da svolgere, pertanto con rammarico ci vediamo costretti a comunicarle il licenziamento immediato”;
di avere impugnato entrambi i detti licenziamenti, con lettera raccomandata a. r. del
17.09.2018.
Lamentava l'illegittimità di entrambi i licenziamenti, essendo quello del
13/09/2018 privo di giusta causa, né essendo stato preceduto da contestazione disciplinare;
ed essendo quello intimato con raccomandata del 10/09/2018 adottato in assenza di giustificato motivo, nè sussistendo la giusta causa che consentisse il recesso ante tempus rispetto alla scadenza naturale del contratto a tempo determinato.
Tanto premesso, la ricorrente formulava le seguenti conclusioni: "ritenere e dichiarare il diritto della ricorrente di ricevere dal resistente, sì come indicato in narrativa, in relazione all'attività lavorativa svolta alle dipendenze del predetto, le differenze economiche sulla retribuzione, la retribuzione del mese di luglio 2018, il compenso per il lavoro supplementare ed il TFR sul lavoro supplementare;
- per

l'effetto, condannare il sig. , titolare della ditta omonima, a pagare CP_1 alla ricorrente, per i titoli suddetti, la somma complessiva di € 8.802,82, o quell'altra, maggiore o minore, ritenuta di Giustizia, oltre alla rivalutazione monetaria ed agli interessi legali, ai sensi dell'art. 429 c.p.c.;
- ritenere e dichiarare illegittimo, in quanto privo di giusta causa, per le ragioni esposte in narrativa, il licenziamento intimato dal resistente alla ricorrente, e conseguentemente condannare il resistente medesimo a corrispondere alla ricorrente un risarcimento del danno commisurato all'ammontare delle retribuzioni non percepite dal momento del recesso stesso alla prevista scadenza del rapporto, in misura pari a € 3.530,00, oltre alla rivalutazione monetaria ed agli interessi legali, ai sensi dell'art. 429 c.p.c.. Con vittoria di spese e compensi".

Con memoria difensiva, depositata in data 24.04.2019, si costituiva in giudizio il convenuto, nella qualità, il quale resisteva, nel merito contestando le deduzioni avversarie, chiedendo rigettarsi il ricorso e formulando le seguenti conclusioni: "...
IN VIA PRINCIPALE l'integrale rigetto della domanda della ricorrente con vittoria di spese e compensi IN VIA SUBORDINATA attesa la evidente difficoltà del datore
a fornire prova dell'avvenuto pagamento della retribuzione del mese di luglio 2018
(di cui, per mero errore, è stata consegnata alla lavoratrice la copia della busta paga firmata per quietanza) e pur nella consapevolezza di avervi, a suo tempo, provveduto, il Sig. fa prontezza di pagamento dell'importo indicato nella CP_1 relativa busta paga (€. 963,00) con vittoria di spese e compensi.".
Esperito senza buon esito il tentativo di conciliazione, in data 10.09.2019 con ordinanza a verbale, veniva adottato ordine di pagamento ex art. 423 comma 2
c.p.c., relativamente alla retribuzione di cui alla busta paga del mese di luglio 2018,
2
richiesta dalla ricorrente, avendo parte resistente dichiarato in memoria di essere disposta a provvedere al pagamento dell'importo indicato nella detta busta paga
attesa la evidente difficoltà ... a fornire prova dell'avvenuto pagamento della retribuzione del mese di luglio ...”.
La causa, dunque, veniva istruita sulla base della documentazione prodotta e delle prove orali espletate all'udienza del 4.02.2020.
Infine, dopo rinvii in ragione della normativa emergenziale da COVID – 19 e per carico di ruolo, autorizzato il deposito di memorie, l'udienza del 18.01.2024 veniva sostituita, ai sensi dell'art. 127 ter c.p.c., con il deposito di note scritte – come in atti (depositate da entrambe le parti in data 15.01.2024) a seguito del quale, la causa, ritenuta matura per la decisione, è decisa con la presente sentenza resa ai sensi dell'art. 127 ter c.p.c.
***
Parte ricorrente impugna il recesso dal rapporto di lavoro (attuato con due autonome determinazioni del datore di lavoro) e agisce per il pagamento di differenze retributive che assume spettanti.
La controversia ha ad oggetto, dunque, l'impugnazione di un primo licenziamento intimato alla ricorrente dal datore di lavoro, con lettera raccomandata del
10.09.2018, "per motivi aziendali legati all'andamento dell'attività lavorativa”, con preavviso di venti (20) giorni a decorrere dall'11.09.2018 e fino al 30.09.2018;
nonché di un secondo licenziamento senza preavviso, intimato con telegramma del
13.09.2018, con la seguente motivazione: “Dopo svariati avvisi verbali, ella continua a mantenere un comportamento non consono all'attività da svolgere, pertanto con rammarico ci vediamo costretti a comunicarle il licenziamento immediato”. Parte ricorrente ne assume l'illegittimità difettandone i presupposti.
Risulta per tabulas e comunque non è contestato che la ricorrente veniva assunta in data 04/01/2018 alle dipendenze della ditta resistente con contratto
a tempo determinato, con scadenza il 03.01.2019 (cfr. contratto e lettera di assunzione, buste paga agli atti – docc. 2 e 3 produzione ricorrente), con mansioni di operatore di sala gioco, inquadrata al 5° livello CCNL di categoria.
Ai fini dell'inquadramento della fattispecie occorre rilevare che nel caso de quo, viene in considerazione un rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato, in relazione al quale è prevista una durata predeterminata, mediante l'apposizione di un termine finale.
Al riguardo, giova puntualizzare che con la stipula del contratto
a tempo determinato le parti si obbligano alla esecuzione delle rispettive prestazioni sino alla scadenza del termine posto al contratto e che, di conseguenza, il recesso può essere adottato, da entrambe le parti del rapporto - datore di lavoro e lavoratore
- ai sensi della disciplina generale di cui all'articolo 2119 c.c. per giusta causa o ex art. 1453 e ss. c.c..
Il legislatore, invero, tipizza il recesso dal contratto di lavoro munito di un termine finale, limitandone rigorosamente le modalità.
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Infatti la risoluzione anticipata del rapporto, per iniziativa di una delle due parti, è legittima solo al ricorrere di una "giusta causa", secondo la formula utilizzata dall'art. 2119 del c.c., ossia un comportamento, ascrivibile ad uno dei due contraenti, che configuri un inadempimento contrattuale o, comunque, un fatto, entrambi di gravità tale da ledere il rapporto fiduciario tra le parti contraenti e non consentire oltre, nemmeno provvisoriamente, la prosecuzione del rapporto di lavoro
(L'art. 2119 c.c., prevede, infatti, "Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato,
o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l'indennità indicata nel secondo comma dell'articolo precedente").
Nell'impostazione del codice civile, dunque, nel contratto a tempo determinato, a differenza di quello a tempo indeterminato, non è consentito il recesso unilaterale immotivato «dando il preavviso», possibilità questa riservata dall'art. 2118 c.c. esclusivamente al contratto a tempo indeterminato.
Il recesso "ante tempus" dal contratto di lavoro a termine, a norma del combinato disposto di cui agli art. 2118 e 2119 c.c. e all'art. 1 L. n. 604 del 1966, è dunque possibile solo ed esclusivamente per giusta causa, in quanto riservate le due ulteriori causali previste dalla legge, del giustificato motivo soggettivo e oggettivo, unicamente alla interruzione di un rapporto di lavoro subordinato
a tempo indeterminato.
Nella struttura delineata dal Legislatore, in ragione della durata predeterminata ab origine del rapporto di lavoro, la garanzia di stabilità di cui gode il contratto a termine, finchè è in vigore, è certamente più forte rispetto a quella prevista per quello a tempo indeterminato, dal quale il datore di lavoro può recedere, oltre che per giusta causa, anche per inadempimenti del lavoratore meno gravi di quelli desumibili dall'art. 2119 del c.c. (giustificato motivo soggettivo) o per ragioni organizzative e produttive attinenti alla vita dell'impresa (giustificato motivo oggettivo).
Inoltre, alla stregua dei principi desumibili dalla disciplina dei contratti con prestazioni corrispettive, il contratto a tempo determinato può essere legittimamente risolto prima della scadenza in caso di impossibilità sopravvenuta ai sensi dell'art. 1463 del c.c. L'estraneità del contratto a tempo determinato alle comuni regole sul licenziamento
(tra cui la tutela reale ex art. 18 legge n. 300/1970) comporta la diversità dei rimedi posti a tutela del lavoratore nel caso in cui intervenga, da parte del datore di lavoro, un recesso, prima della scadenza del termine, privo di giustificazione. Venendo, invero, in considerazione - in assenza di specifiche disposizioni al riguardo - gli strumenti di tutela rinvenibili nella disciplina codicistica in materia di risoluzione del contratto.
Ed in particolare configurandosi una tipica ipotesi di inadempimento contrattuale
(stante l'obbligo assunto da entrambe le parti di dare esecuzione al rapporto di lavoro fino alla scadenza finale dalle medesime convenuta), sanzionata dall'art.
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1453 del c.c. (secondo cui «nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l'altro può a sua scelta chiedere l'adempimento o la risoluzione del contratto salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno»).
Il lavoratore, che vede risolto il suo contratto a termine in assenza di una giusta causa o di una impossibilità sopravvenuta, dunque, potrà chiedere il risarcimento del danno che, in base all'art. 1223 del c.c., sarà determinato in misura pari alle retribuzioni che lo stesso avrebbe dovuto percepire fino alla scadenza del contratto, fatta comunque salva la possibilità di provare, per il lavoratore, il maggior danno e, per il datore di lavoro, che quest'ultimo, dopo la cessazione del rapporto, abbia comunque percepito proventi da altra attività lavorativa e di chiedere la detrazione sia dell'aliunde perceptum che, più in generale, delle somme che il lavoratore avrebbe potuto comunque percepire usando l'ordinaria diligenza.
Si registra, invero, orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità nel senso dell'inapplicabilità alla fattispecie in esame della normativa prevista dalla legge n. 604/1966 e dalla legge n. 300/1970.
In tal senso è stato affermato che «il recesso, trattandosi di contratto a termine, per essere legittimo deve essere adottato in presenza di una giusta causa ai sensi dell'art. 2119 c.c. atteso che l'art. 1 legge n. 604/1966, prevedendo l'ipotesi di giustificato motivo, riferisce espressamente tale ipotesi al contratto a tempo indeterminato», escludendo, nel caso concreto, che «una provata situazione di transeunte difficoltà economica del datore di lavoro possa costituire una giusta causa di licenziamento», che «si configura solo quando il lavoratore ponga in essere un comportamento [...] tale da incrinare in maniera irreversibile il rapporto di fiducia che lo lega al datore di lavoro», avallando, quanto al profilo sanzionatorio, la conclusione per la quale, in caso di illegittimità del licenziamento, il lavoratore «ha diritto non alla reintegra nel posto di lavoro ex art. 18 legge n.
300/1970, ma al risarcimento del danno da calcolarsi equitativamente sulla base delle retribuzioni che sarebbero spettate fino alla scadenza del termine» (v., ex multis, Cass. 11692/2005 e successive conformi).
La Suprema Corte sostiene l'argomento della forte garanzia di stabilità di cui deve godere un rapporto di lavoro per il quale sia prevista una data di scadenza, chiarendo che «se in un rapporto per il quale non sia previsto preventivamente un limite di durata [...] può pensarsi che sopravvengano delle ragioni che rendano oggettivamente non più conveniente mantenere in vita il rapporto, ciò non vale quando la durata sia limitata nel tempo, soprattutto se è il datore di lavoro che, in considerazione di particolari sue esigenze, si avvalga dello strumento del contratto
a termine» e indica i criteri che legittimano il recesso datoriale ante tempus costituiti, oltre che dalla giusta causa, intesa nella sua valenza soggettiva e cioè
«ascrivibile a comportamenti del lavoratore», anche «dalle ipotesi di risoluzione del contratto previste dagli art. 1453 c.c. e seguenti» (v . Cass. 14871/2004 dell'8.08.2004 e successive conformi).
In tali casi, laddove il licenziamento anticipato non fosse sorretto da una giusta causa, sarebbe da considerarsi illegittimo. In punto di tutela accordabile, tuttavia, il
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lavoratore non avrebbe diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, come, invece, nel caso di lavoro a tempo indeterminato. Al più spettandogli il risarcimento del danno derivante dall'illegittimo licenziamento, che come supra rilevato, va commisurato alle retribuzioni che avrebbe maturato dal giorno del licenziamento illegittimo alla scadenza del contratto.
Fatta la superiore premessa, venendo al caso in esame, la ricorrente impugna il recesso del datore di lavoro del 13/09/2018, in quanto viziato da illegittimità perché
– siccome adottato per motivi disciplinari - intimato in carenza di preventiva contestazione, in assenza di preventiva affissione del codice disciplinare, per assoluta genericità della motivazione;
impugna il recesso intimato con raccomandata del 10/09/2018 siccome privo di giustificato motivo oggettivo e, comunque, essendo tale ipotetica causale insufficiente a risolvere il rapporto, necessitando la “giusta causa del recesso” trattandosi di rapporto di lavoro a tempo determinato.
Convenendo esaminare, secondo ordine logico, il recesso intimato (con effetto
“immediato”), con telegramma del 13.09.2018 (doc 5 fasc.ricorrente) perché intervenuto durante il rapporto ancora in essere (nel corso del periodo di preavviso scadente il 30/09/2019) ed in ipotesi idoneo a far cessare immediatamente il rapporto, può rilevarsi che lo stesso si profila illegittimo, perché sembra configurare una pretesa, quanto mai generica, giusta causa ("Dopo svariati avvisi verbali, ella continua a mantenere un comportamento non consono all'attività da svolgere, pertanto con rammarico ci vediamo costretti a comunicarle il licenziamento immediato”), che si connota per il suo carattere squisitamente disciplinare, ma dal quale non è possibile evincere in alcun modo in cosa consista l'addebito, in ciò mancando l'elemento essenziale per valutare l'eventuale carattere ingiustificato del suo licenziamento – con riflessi in punto di esercizio del diritto di difesa - e dunque per apprezzare la sussistenza del presupposto giustificativo della giusta causa
Deduce parte resistente solo in seno alla memoria difensiva che la ricorrente “nei giorni immediatamente precedenti il licenziamento disciplinare ha assunto, sul posto di lavoro, atteggiamenti incompatibili con il proprio obbligo di assolvere agli impegni assunti. La stessa, per come ben noto, alla ricorrente, nell'arco delle quattro ore lavorative, trascorreva più tempo fuori dai locali in cui il Sig. CP_1 esercita la sua attività che all'interno, in quanto si intratteneva a chiacchierare con le amiche e con il fidanzato che la venivano a trovare..”. Inoltre assume il resistente di avere “Più volte … invitato la dipendente ad essere presente all'interno della sala giochi e di fornire l'assistenza necessaria ai clienti, ma la arroganza plateale con cui quest'ultima respingeva i richiami del datore di lavoro, hanno ripetutamente messo in estremo imbarazzo il resistente, anche perché avvenivano in presenza dei clienti stessi…”, integrando tale condotta grave violazione dei doveri fondamentali del dipendente, suscettibile di venire in considerazione a prescindere dalla affissione del codice disciplinare e comunque essendo venuto meno irrimediabilmente il rapporto fiduciario.
Parte ricorrente ha contestato di aver mai assunto alcun "comportamento non consono all'attività da svolgere".
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Nel caso di specie, all'esito dell'attività istruttoria svolta, non è stata fornita alcuna dimostrazione della asserita condotta della dipendente integrante grave violazione dei suoi doveri fondamentali nonché giusta causa del recesso.
Invero, a fronte - a monte - delle generiche deduzioni riguardanti le circostanze in tesi integranti la giusta causa di licenziamento, le offerte probatorie fornite al riguardo dalla parte resistente non hanno trovato positivo vaglio nel presente giudizio, vertendo su “circostanze genericamente formulate” (cfr ordinanza del
10/09/2019) e pertanto non sono state accolte, risultando in ogni caso ininfluenti ai fini del decidere, stante la estremamente generica articolazione, carente di qualsivoglia riferimento temporale e non adeguatamente circostanziata e comunque non atta a condurre - anche in caso di positivo riscontro - ad un giudizio circa la sussistenza di causa idonea.
Ne consegue, con assorbimento di ogni altra questione riguardo a detto licenziamento, che la prospettazione di parte ricorrente, in merito alla insussistenza di una giusta causa del licenziamento è rimasta priva di controdeduzione e di confutazione.
Analogamente difettano i caratteri di un licenziamento legittimo con riferimento al recesso intimato dal resistente con lettera raccomandata a. r. del 10.09.2018 (doc. 4 fasc. ricorrente), perché i "motivi aziendali legati all'andamento dell'attività lavorativa" peraltro rimasti indimostrati, non rappresentano di certo un'ipotesi di
"giusta causa".
In merito alle conseguente sanzionatorie, nel contratto di lavoro a tempo determinato, qualora il datore di lavoro prima della scadenza del termine abbia intimato illegittimamente il recesso, perchè privo dei presupposti, non potendo applicarsi la tutela contro i licenziamenti illegittimi ex L. 604/1966 e art. 18 L. 300/1970 prevista solo per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato, al lavoratore spetta solo il risarcimento del danno commisurato all'ammontare delle retribuzioni non corrisposte dal momento del recesso alla scadenza del rapporto.
Spetta quindi alla ricorrente, in quanto destinataria di un recesso ante tempus illegittimo, ossia senza giusta causa, a titolo di risarcimento del danno, una somma commisurata all'ammontare delle retribuzioni dalla stessa non percepite a decorrere dal momento del recesso e fino alla naturale scadenza del rapporto contrattuale prevista per il 03.01.2019 (ossia dal 13.09.2018 al 03.01.2019), pari ad € 3.530,00 (€ 455,00 per residua retribuzione mese settembre 2018, pari ad € 35,00 al giorno x gg. 13 + € 990,00 per retribuzione mese ottobre 2018 + € 990,00 per retribuzione mese novembre 2018 + € 990,00 per retribuzione mese dicembre 2018 + € 105,00 per residua retribuzione mese gennaio 2019, pari ad € 35,00 al giorno x gg. 3).
Somma nel quantum indicata in ricorso e non oggetto di specifica contestazione dalla parte resistente.
Va disattesa, invece, la domanda volta ad ottenere il pagamento delle differenze retributive che si assume come ancora dovute sulla retribuzione (ordinaria), con riferimento alle differenze tra le somme dalla stessa già dichiarate come percepite
(€ 600,00 al mese) rispetto alle maggiori indicate in busta paga, escluso il mese di
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luglio, che è stato già stato fatto oggetto di pagamento per effetto della ordinanza ex art. 423 cpc del 10/09/2019 (v. copia del bonifico del 26.09.2019 in atti produzione resistente del 31/10/2019).
Per tale causale (retribuzione luglio 2018), stante l'allegato inadempimento e il difetto di prova dell'adempimento da parte del resistente, la somma risulta dovuta nella misura di € 963,00 risultante dalla busta paga in atti e, pertanto, la statuizione di cui alla predetta ordinanza ex art. 423 c.p.c. del 10/09/2019 deve confermarsi anche nella presente sede definitiva, di cui alla parte dispositiva, pur dandosi atto che in corso di causa è intervenuto il pagamento di detta somma (cfr busta paga e bonifico prodotti in data 31/10/2019 da parte resistente).
Quanto alle restanti pretese differenze retributive, si osserva che, ai sensi dell'art.
2697 c.c. (espressione del noto brocardo "onus probandi incumbit ei qui dicit", in virtù del quale l'onere di provare un fatto ricade su colui che lo invoca a sostegno della propria domanda), in tema di inadempimento di obbligazioni e relativa ripartizione dell'onere della prova, nel caso in cui sia dedotto l'inadempimento ovvero l'inesatto adempimento dell'obbligazione, al creditore istante è sufficiente dimostrare l'esistenza dell'obbligazione, gravando invece sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto esatto adempimento ovvero l'impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.).
Nel contratto di lavoro, ai fini del riconoscimento del diritto alla retribuzione, pertanto, il lavoratore è tenuto a provare l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato, gravando invece sul datore di lavoro l'onere della prova dell'avvenuto adempimento delle sue obbligazioni ovvero dell'estinzione dell'obbligazione.
Più specificamente, il lavoratore deve provare lo svolgimento della prestazione lavorativa effettuata (fatto costitutivo), mentre sul datore di lavoro incombe l'onere di provare l'avvenuto pagamento (fatto estintivo).
Per le mensilità dal gennaio all'agosto 2018 (eccetto luglio 2018 per quanto detto), il resistente ha prodotto documentazione sottoscritta dalla ricorrente e dalla stessa sostanzialmente riconosciuta, che costituisce un elemento indiziario della effettiva corresponsione degli importi indicati nelle buste paga in contanti.
Ad avviso della Suprema Corte, la sottoscrizione “con la dicitura per ricevuta/quietanza” fa presumere il pagamento di quanto in essa riportato da parte del datore di lavoro e sorgere in capo al lavoratore (per effetto dell'inversione)
l'onere di provare “la non corrispondenza tra le annotazioni ivi riportate e la retribuzione effettivamente corrisposta” e dunque l'inadempimento datoriale (v.
Cass., sez. lavoro, n. 27749/2020).
In particolare, la sottoscrizione “per quietanza”, apposta alla busta paga da parte del lavoratore, libera il datore di lavoro (debitore) dal relativo obbligo di pagamento
(v. docc. da 2 a 8 - fascicolo resistente).
Laddove si sia “in presenza di prospetti paga contenenti tutti gli elementi della retribuzione, ed altresì di una regolare dichiarazione autografa di quietanza del lavoratore (come nella fattispecie, in cui tra l'altro, la firma non è mai stata contestata dal prestatore d'opera), l'onere della prova della non corrispondenza
8 tra le annotazioni della busta paga e la retribuzione effettivamente erogata grava sul dipendente…” (cfr., Cass. n.27749/2020 citata che richiama Cass. nn.
9503/2015;
7310/2001;
1150/1994).
Nel caso in esame, il creditore (parte ricorrente) non è riuscito a fornire la prova del mancato pagamento delle maggiori somme indicate nelle buste paga quietanzate
(mancata corrispondenza tra le annotazioni della busta paga e la retribuzione effettivamente corrisposta), atteso il fatto che nessuno dei testi escussi all'udienza del 04.02.2020 è apparso in grado di fornire alcun sostegno probatorio a tale allegazione (cfr dichiarazioni testimoniali in atti).
Va, inoltre, disattesa la domanda di parte ricorrente volta ad ottener il pagamento delle differenze retributive e relative maggiori somme per TFR per il lavoro supplementare in tesi dalla stessa disimpegnato, atteso che, anche sotto questo aspetto, l'attrice non ha assolto agli oneri probatori sulla stessa gravanti.
Secondo l'orientamento consolidato della Corte di Cassazione, dal quale non v'è motivo di discostarsi, è onere del lavoratore fornire la prova di avere prestato attività lavorativa oltre l'orario contrattualmente stabilito e oltre l'orario normale di lavoro (cfr Cass.16/02/2009 n.3714: “Il lavoratore che agisca per ottenere il compenso per il lavoro straordinario ha l'onere di dimostrare di aver lavorato oltre l'orario normale di lavoro e, ove egli riconosca di aver ricevuto una retribuzione ma ne deduca l'insufficienza, è altresì tenuto a provare il numero di ore effettivamente svolto, senza che eventuali - ma non decisive - ammissioni del datore di lavoro siano idonee a determinare una inversione dell'onere della prova.).
Invero vige per tali voci il criterio generale in materia di onere della prova ex art.
2697 c.c. (affirmanti incumbit probatio).
Costituisce, infatti, ius receptum che in materia lavoristica l'onere probatorio sarà differenziato a seconda dell'oggetto della prova: in particolare sono assoggettate al criterio generale in materia di onere della prova ex art. 2697 c.c. (affirmanti incumbit probatio) le seguenti voci: lavoro straordinario e/o supplementare, maggiorazione lavoro festivo e domenicale…tra cui voci in questa sede richieste
(laddove sono assoggettate al vantaggioso criterio di riparto ex art. 1218 c.c. le pretese relative alla retribuzione ordinaria, alla 13a, alla 14a, al TFR, a tutto ciò che il CCNL di settore riconosce al lavoratore, nonché l'indennità di mancato preavviso)
(cfr., in tal senso, Cass. SS.UU. 13533/2001).
Nella specie, la ricorrente non ha assolto all'onere probatorio posto a suo carico visto che non è emersa in maniera adeguata e sufficiente la prova dello svolgimento di un orario di lavoro diverso e superiore a quello contrattualmente stabilito e risultante come svolto (cfr. contratto, buste paga, deduzioni della parte resistente).
Deve, infatti, osservarsi come, in proposito, le uniche testimonianze acquisite in giudizio appaiono vaghe, generiche e tra loro in forte contraddizione e pertanto, non sufficienti ed attendibili a suffragare in l'assunto attoreo.
Generiche appaiono le dichiarazioni della teste Testimone_1 laddove - quanto all'orario di lavoro prestato dalla ricorrente- non riferisce per conoscenza diretta ma solo in via presuntiva dalla considerazione che la ricorrente non riusciva a frequentare il corso di danza che la stessa teneva “il lunedì e il
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mercoledì ed anche il venerdì alle ore 20,30 perché doveva lavorare..” laddove poi dichiara che nei predetti giorni la stessa teste iniziava a lavorare alle ore 16,30 e quando faceva “lezioni di danza completav(a) verso le 21,30/22,00”.
Riferisce di un orario di lavoro dalle 15,00 alle 21,00 dal martedì alla domenica
(cap. 1 del ricorso) la teste dichiarando di avere accompagnato la Testimone_2 ricorrente al lavoro insieme alla madre della ricorrente con l'auto di quest'ultima che pure la conduceva. Analogamente di essersi recata con la madre della ricorrente
a riprenderla al lavoro. Tali dichiarazioni appaiono tuttavia generiche, laddove la teste riferisce che “ciò accadeva circa due o tre volte a settimana ..” ma poi non ha saputo riferire in quali giorni;
inoltre, dette dichiarazioni - ulteriormente precisate dalla teste, richiamata a riferire a prova contraria, con l'affermazione “la ricorrente e la madre avevano un'unica macchina … mi risulta che la ricorrente andava sempre al lavoro con la madre, perlomeno le volte in cui c'ero io, c'era sempre la madre;
non mi risulta che la ricorrente andasse a lavoro da sola con l'auto
” - si appalesano in chiaro contrasto con le affermazioni al riguardo rese dalla suddetta teste (secondo cui la ricorrente posteggiava la macchina vicino casa sua e lì Tes_1 si fermava per un caffè prima di andare al lavoro). Altrettanto generica appare poi
l'aggiunta di questa ultima teste – richiamata a prova contraria – del seguente tenore
mi risulta che a volte la ricorrente andava da sola con la propria auto a lavoro e a volte la accompagnava la madre..” laddove poi precisa “..non ho mai visto la madre accompagnarla al lavoro..”.
Tanto deponendo dunque per la non attendibilità delle superiori dichiarazioni.
Per converso il teste , addotto da parte resistente, ha confermato Testimone_3 un orario di lavoro dalla 15,30 alle 19,30 dal martedì alla domenica (cap. 1 memoria difensiva) affermando che le volte in cui (ordinariamente) svolgeva il turno di lavoro pomeridiano dalle 14,00 alle 20,00 la ricorrente andava via prima di lui. Il teste ha poi affermato che la ricorrente si recava al lavoro sempre da sola con la propria auto, per averla personalmente vista. E non gli risultava che
l'accompagnasse o venisse a prenderla qualcun altro. Inoltre la teste dichiaratasi cliente dell'esercizio ha Testimone_4 riferito di recarsi presso di esso saltuariamente la sera dalle 19,30 in poi – non in un giorno della settimana in particolare - e di permanere presso di esso per circa quindici/venti minuti, intrattenendosi a giocare e di non avere mai visto la ricorrente nei giorni in cui vi si era recata, affermandola di conoscerla per averla vista in paese.
Alla stregua di tali risultanze, la prova rigorosa del lavoro supplementare (e/o straordinario) non può ritenersi raggiunta.
Parte ricorrente non è riuscita a dimostrare l'effettiva ricorrenza dei presupposti per detti emolumenti dedotti in giudizio rimanendo sfornite di prova le allegazioni, peraltro, poco precise formulate in ricorso.
In ragione della parziale soccombenza reciproca e tenuto conto del comportamento delle parti anche in relazione ai tentativi di conciliazione svolti e al tenore delle proposte conciliative formulate (cfr verbali udienze 14/05/2019 e 04/02/2020) e non accolte, le spese di lite vanno compensate in ragione di due terzi (2/3). Per la restante parte (1/3), le stesse, ex art. 91 cpc, sono poste a carico della parte resistente
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e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo, secondo i parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014, come modificati dal D.M. 147/2022, applicabile ratione temporis al presente giudizio.
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