Trib. Bergamo, sentenza 17/04/2024, n. 392
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Testo completo
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI BERGAMO
SEZIONE LAVORO in composizione monocratica e in funzione di Giudice del Lavoro, in persona della dott.ssa
G B, ha pronunciato la seguente
SENTENZA CONTESTUALE nella controversia di primo grado RG n. 27/2024 promossa da
Parte_1 con l'Avv. A S
RICORRENTE contro
Controparte_1 con gli Avv.ti G T e C G
RESISTENTE oggetto: retribuzione
Nelle note per l'udienza di discussione il procuratore della parte ricorrente concludeva come in atti
FATTO E DIRITTO
Con ricorso depositato il 16.1.2023 al Tribunale di Bergamo, quale Giudice del Lavoro, la parte ricorrente ha convenuto in giudizio la ex datrice di lavoro al fine di sentire accogliere le seguenti conclusioni:
“In ordine alle retribuzioni per il periodo 1 giugno 2023 – 31 dicembre 2023
Condannare […], al pagamento in favore del ricorrente, in ordine alle retribuzioni per il CP_1 periodo 1 giugno 2023 – 31 dicembre 2023, della somma lorda di € 10.628,01, oltre rivalutazione monetaria, calcolata ai sensi dell'art. 150 disp. att. c.p.c., e gli interessi legali sul totale rivalutato.
In ordine alle ferie per il periodo 1 giugno 2023 – 31 dicembre 2023
In via principale
1
Condannare altresì […] all'accredito in favore della ricorrente di 15,19 giornate di Controparte_1 ferie maturate.
In via subordinata
Condannare altresì […], al pagamento in favore del ricorrente dell'ulteriore somma Controparte_1 lorda di € 689,93 a titolo di indennità sostitutiva delle ferie, oltre rivalutazione monetaria, calcolata ai sensi dell'art. 150 disp. att. c.p.c., e gli interessi legali sul totale rivalutato.
In ordine alla condanna ex art. 96 c. 3 c.p.c.
Condannare , ai sensi dell'art. 96 c. 3 c.p.c., al pagamento in favore di parte Controparte_1 ricorrente, a titolo di condanna ex art. 96 c. 3 c.p.c., di una somma pari ad € 5.314,00, ovvero nella diversa misura ritenuta di giustizia, oltre interessi e rivalutazione dal maturato al saldo.” nonché con condanna alle spese di lite con distrazione.
La parte ricorrente, inoltre, si riservava di agire in giudizio per le somme maturande.
A sostegno della propria domanda, la parte ricorrente deduceva di
- di aver iniziato a lavorare per (ora presso CP_2 Organizzazione_1
l'ipermercato di Bergamo via Carducci n. 55 il 13 aprile 2002,
- di essere stata assunta con contratto di lavoro a tempo indeterminato part time (al 60%), in base al quale la ricorrente veniva inquadrata come “addetta vendita” di livello 4 ai sensi del ccnl Terziario
- che l'ipermercato di Bergamo via Carducci n. 55 è stato oggetto di un trasferimento di ramo d'azienda da a con effetto 13 agosto 2020 Organizzazione_2 Org_3
- che il medesimo ramo di azienda (ossia l'ipermercato di Bergamo di via Carducci) è stato affittato da a con effetto 2 settembre 2020 e tutt'ora in essere, Org_3 Controparte_1
- che dal suddetto ramo d'azienda ceduto e poi affittato veniva illegittimamente esclusa la ricorrente, che veniva contestualmente collocato da in Organizzazione_2
CIGS a zero ore,
- di aver impugnato il suo mancato passaggio ai sensi dell'art 2112 c.c., promuovendo al riguardo avanti a questo Ill.mo Tribunale ricorso ex art. 414 cpc iscritto all'R.G. 173/22
(doc. 4),
- che, nelle more del giudizio, con effetto dall'1 agosto 2022 Organizzazione_2
distaccava la ricorrente presso CP_3
- di essere poi passata alle dipendenze di in forza di una cessione di ramo CP_3
d'azienda, 2
- di aver impugnato il distacco e la cessione,
- che il Tribunale ha accolto interamente la domanda della ricorrente
“definitivamente pronunciando, così provvede:
1) accerta la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra e dal 13 Parte_1 Org_4 al 30 agosto 2020 e dal 31 agosto 2020 in avanti;Controparte_1
2) condanna di alla riammissione della lavoratrice nel posto di lavoro e al Controparte_1 pagamento della somma corrispondente alle retribuzioni non corrisposte dal 13 agosto 2020 sino alla riammissione, con interessi legali e rivalutazione monetaria dal dovuto al saldo, con detrazione di quanto percepito dalla lavoratrice in seguito del distacco dall'1 agosto 2022 in avanti, con interessi legali dal dovuto al saldo”,
- di aver offerto in data 9 e poi 17 novembre 2022 la propria prestazione lavorativa e di Contro aver cessato la propria attività lavorativa in favore di posto che il rapporto instauratosi de facto alle dipendenze della predetta società veniva travolto dalla sentenza accertativa del diritto al passaggio alle dipendenze di (prima) e Org_3 Controparte_1
(poi),
- che non la riammetteva in servizio e non le corrispondeva la Controparte_1
retribuzione sia per il periodo antecedente alla predetta sentenza sia per quello relativo al periodo successivo,
- di non aver percepito per tutto il periodo né la retribuzione né alcuno strumento a sostegno del reddito
La parte ricorrente, in diritto, ha osservato che sebbene non sia possibile l'esecuzione specifica dell'ordine di riammissione in servizio, è certamente attuabile la condanna al pagamento delle retribuzioni omesse dal 1 giugno - 31 dicembre 2023 ha chiesto, inoltre,
l'accredito delle ferie maturate pari a 15,19giorni o, in subordine, l'indennità sostitutiva delle ferie maturate e non godute.
***
Si è ritualmente costituita in giudizio la parte convenuta contestando in fatto e in diritto
l'avversario ricorso;con vittoria di spese.
La convenuta, premettendo di aver la possibilità di impugnare la sentenza della corte
d'appello avanti alla Corte di Cassazione, deduceva:
- che la ricorrente ha percepito almeno fino al 31.7.21 la CIGS,
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- che è stata la titolare del rapporto di lavoro e pertanto ne viene Organizzazione_2
chiesta la chiamata in causa in quanto responsabile solidale,
- che non possono essere richieste le retribuzioni perse a causa del licenziamento trattandosi di danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza.
La convenuta, inoltre, contestava i conteggi perché non intellegibili e in quanto non tenevano conto di quanto percepito e osserva che l'aumento contrattuale dell'aprile 2023 è pari
a € 30 e non a € 130. ha lamentato che la ricorrente, nell'ambito di un giudizio di impugnazione del Parte_2 trasferimento di ramo d'azienda, non ha diritto alla retribuzione per il periodo intercorrente tra la data di cessione del ramo di azienda e quella della pubblicazione del provvedimento giudiziale di illegittimità della suddetta cessione, ma solo diritto al risarcimento del danno dalla messa a disposizione del 17.1.22.
Il Giudice, disposta la trattazione scritta, ritenuta la causa matura per la decisione e lette le note, depositava la sentenza ex art. 127 ter c.p.c..
DIRITTO
Il ricorso è fondato. Sul punto si richiama ex art. 118 disp att. cpc la sentenza di questo tribunale resa in caso esattamente analogo sent. n. 484/23:
Sono documentali in causa il rapporto di lavoro tra le parti, il livello d'inquadramento e
l'orario a tempo parziale.
La parte convenuta, con sentenza n. 703/22, è stata condannata a riammettere in servizio la ricorrente e a corrisponderle le retribuzioni medio tempore maturate dal 31.8.20 all'effettiva riammissione dedotte le retribuzioni ricevute presso la distaccataria:
“accerta il diritto dei ricorrenti al trasferimento del loro rapporto di lavoro, alle medesime condizioni economiche e normative già in essere con alle dipendenze di ex art. 2112 c.c. dal Organizzazione_2 Org_3
13 al 30 agosto 2020 e alle dipendenze di con decorrenza dal 31 agosto 2020;- condanna Controparte_1 ad immettere i ricorrenti nel posto di lavoro e a pagare in favore di ciascuno di loro la somma Controparte_1 corrispondente alle retribuzioni non corrisposte dal 31 agosto 2020 sino alla riammissione, con interessi legali e rivalutazione monetaria dal dovuto al saldo, con detrazione di quanto percepito dai ricorrenti in seguito al distacco dall'1 agosto 2022 in avanti, con interessi legali dal dovuto al saldo”.
La parte ricorrente ha riferito di non essere ancora stata riammessa in servizio, la circostanza
è stata confermata dalla parte convenuta.
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Va premesso che l'intenzione di introdurre un giudizio di appello avente ad oggetto la sentenza n. 703/22 non incide sul presente giudizio, in quanto, come è noto, sarebbe stato nei pieni poteri dell'odierno convenuto domandare la sospensione dell'efficacia esecutiva della pronuncia oggetto di gravame, ma ciò non è avvenuto, sul punto la lettera del terzo e quarto comma dell'art. 431 c.p.c. è chiaro “Il giudice di appello può disporre con ordinanza non impugnabile che
l'esecuzione sia sospesa quando dalla stessa possa derivare all'altra parte gravissimo danno.
La sospensione disposta a norma del comma precedente può essere anche parziale […]”.
***
Quanto alla debenza delle retribuzioni dal 31.8.20 all'effettiva riammissione in servizio, detratto quanto percepito in sede di distacco, si osserva quanto segue.
In primo luogo, il dispositivo della sentenza n. 703/2022 è molto chiaro e prevede una duplice condanna dell'odierna convenuta, da una parte, alla riammissione e, dall'altra, “a pagare in favore di ciascuno di loro la somma corrispondente alle retribuzioni non corrisposte dal 31 agosto 2020 sino alla riammissione, con interessi legali e rivalutazione monetaria dal dovuto al saldo,”.
In secondo luogo, la ricorrente ha offerto precisa prova delle somme percepite presso la Contro distaccataria (poi cessionaria)
In terzo luogo, come correttamente osservato, dal Tribunale nella sentenza oggetto di attuazione nel presente giudizio “Le somme erogate dall' a titolo di CIGS, anche se oggetto di CP_4 anticipazione da parte del datore di lavoro, non sono entrate nel patrimonio del lavoratore a titolo definitivo e sono divenute indebite per effetto del provvedimento di riammissione: tali somme non possono pertanto essere detratte da quanto dovuto.”.
Da ultimo, si evidenzia che l'eventuale valutazione del rilievo della messa a disposizione per il periodo antecedente al distacco è già stata oggetto di valutazione nel precedente giudizio e, quindi, potrà essere oggetto di gravame.
***
La parte convenuta chiede di detrarre quanto la ricorrente avrebbe potuto percepire se avesse regolarmente lavorato, invece di essere licenziata per giusta causa in ragione delle assenze ingiustificate.
Il licenziamento e ogni atto compiuto da è travolto Organizzazione_2 dall'accertamento dell'illegittimità del presupposto trasferimento di azienda.
Quanto alle conseguenze dell'accertamento dell'illegittimità della cessione con mancata reintegrazione del dipendente si è autorevolmente espressa la Corte d'Appello di Brescia (sent. 5
20/2023 pubbl. il 31/01/2023) che si è conformata al nuovo orientamento giurisprudenziale introdotto da Cass. 17784/19 e consolidatosi con una lunga serie di sentenze (v., tra le tante,
Cass. 16710/20, 23930/20, 23145/21, 26262/21, 33256/21, 34419/21, 5413/22):
“Ai fini di una più agevole comprensione della questione, è opportuno riassumere, brevemente e per sommi capi, le ragioni hanno portato la Corte di Cassazione a modificare il proprio orientamento.
Il problema di causa è stabilire, in primo luogo, la natura dell'obbligazione che grava sul cedente, il quale dopo la sentenza di inefficacia della cessione del ramo d'azienda non adempie l'obbligo di ripristinare il rapporto di lavoro dei lavoratori ceduti. In particolare, si tratta di stabilire se tale obbligazione sia risarcitoria o retributiva, in quanto, nel primo caso il lavoratore ceduto dovrà provare la sussistenza del danno e il datore di lavoro cedente potrà eccepire l'aliunde perceptum, costituito innanzitutto dalle retribuzioni corrisposte dal cessionario durante il periodo di violazione dell'obbligo di ripristino. In secondo luogo e in ogni caso, anche ritenendo la natura retributiva dell'obbligazione, si tratta di stabilire se il pagamento della retribuzione da parte del cessionario estingua l'obbligazione del cedente, effetto che presuppone l'affermazione che l'obbligazione resta unica, ancorché adempiuta dal cessionario che non è il vero debitore.
La giurisprudenza precedente (Cass. 19740/08, ma anche Cass. 18955/14 e Cass. 24817/16) affermava la natura risarcitoria dell'obbligazione, facendo leva sul fatto che il contratto di lavoro è un contratto a prestazioni corrispettive in cui l'erogazione del trattamento economico in mancanza di lavoro costituisce un'eccezione che deve essere oggetto di espressa previsione di legge o di contratto (es. riposo settimanale e ferie (artt.
2108 e 2019 cod. civ.).
Peraltro, il rigore del principio della corrispettività tra le reciproche obbligazioni di eseguire la prestazione e pagare la retribuzione era stato superato dalla Corte costituzionale chiamata a pronunciarsi sull'indennità risarcitoria onnicomprensiva introdotta dall'art. 32, co. 5, L. 183/2010 per i casi di conversione del contratto a termine («Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva…»). Con sentenza n. 303/11 la Corte costituzionale, nel dichiarare non fondata la questione di costituzionalità, premesso che la stabilizzazione del rapporto costituisce la «sanzione più incisiva» per il datore di lavoro, ha affermato che il risarcimento del danno forfettizzato copre solo il periodo intermedio che va dalla cessazione del termine illegittimo al giorno della sentenza. Con la conseguenza che per il periodo successivo alla sentenza spettano al lavoratore, in base a un'interpretazione costituzionalmente orientata della novella introdotta dall'art. 32, co. 5, L. 183/2010, le retribuzioni dovute, altrimenti la tutela offerta dall'ordinamento al lavoratore sarebbe completamente svuotata con vanificazione della statuizione giudiziale. Dopo la pronuncia della Corte costituzionale non si dubita più che il datore di lavoro, il quale non ripristini la funzionalità del rapporto dopo la sentenza che ha dichiarato la 6
nullità del termine apposto al contatto di lavoro, sia tenuto nei confronti del lavoratore che abbia offerto la propria prestazione al pagamento delle retribuzioni. Né si dubita che il datore di lavoro possa eccepire l'aliunde perceptum in riferimento alle retribuzioni medio tempore percepite dal lavoratore che, nell'attesa della stabilizzazione formalmente richiesta con la messa a disposizione, abbia reperito un'altra occupazione.
In materia di inadempimento del datore di lavoro all'obbligo giudiziale di ripristino del rapporto, il principio di corrispettività tra le reciproche obbligazioni ha poi subìto una vera e propria rivisitazione di carattere generale ad opera della Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 2990/18, resa a Sezioni unite, si è occupata del caso in cui il committente, dopo la sentenza che accerti l'illiceità dell'appalto e quindi l'intermediazione illecita, non ripristini il rapporto di lavoro. In estrema sintesi, le Sezioni unite hanno individuato in Corte cost. 303/11
l'affermazione di principi tendenzialmente di carattere generale che impongono di superare l'orientamento circa il nesso sinallagmatico tra prestazione di lavoro e retribuzione affermato dalla precedente giurisprudenza proprio in tema di illegittima cessione di azienda. In particolare, le Sez. unite hanno affermato che esigenze di effettività della tutela giurisdizionale e di piena attuazione dei diritti del lavoratore, portano a una soluzione interpretativa rispettosa degli artt. 3, 36 e 41 Cost. in forza della quale il datore di lavoro il quale, nonostante la sentenza che accerta il vincolo giuridico, non ricostituisca il rapporto di lavoro senza alcun giustificato motivo, dovrà pagare le retribuzioni, pur senza ricevere la prestazione lavorativa offerta dal lavoratore.
Le Sez. unite hanno avuto cura di precisare che tale soluzione interpretativa è l'espressione di una regola generale che non è contraddetta dalla disciplina risarcitoria propria dell'indennità prevista dall'art. 18 Stat. lav., dato che questa integra una fattispecie diversa e costituisce una deroga alla regola generale.
Occorre poi ricordare che successivamente la Corte costituzionale con sentenza 29/19 si è pronunciata sulla costituzionalità delle norme sulla mora del creditore (artt. 1206, 1207, 1217 cod. civ.) che, proprio nei casi di illegittime cessioni d'azienda, non consentivano, secondo l'orientamento tradizionale della Corte di Cassazione, di riconoscere la natura retributiva dell'obbligazione del cedente che non adempie l'obbligo giudiziale di ripristinare il rapporto di lavoro (l'ordinanza di rimessione era anteriore alla sentenza delle Sezioni unite). La Corte
Costituzionale, considerato che le Sezioni unite della Corte di Cassazione avevano superato il precedente indirizzo, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità, invitando il giudice rimettente a decidere in base al nuovo “diritto vivente” la questione circa il diritto del lavoratore ceduto, già retribuito dal cessionario, di rivendicare la retribuzione anche nei confronti del cedente.
A livello di legittimità tale questione è stata decisa dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 17784/19, cui, come detto, hanno fatto seguito numerose pronunce che hanno consolidato il nuovo orientamento. La Corte di
Cassazione, in primo luogo, ha ribadito che, in base del principio stabilito dalle Sezioni unite, l'obbligazione
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gravante sul cedente ha natura retributiva;in secondo luogo, che il cedente non può detrarre i compensi che il lavoratore ha percepito dal cessionario.
Orbene, circa la natura retributiva dell'obbligazione, l'autorevolezza della decisione di Cass., Sez. un.,
2990/18, riscontrata dalla stessa Corte costituzionale, sia con la sentenza n. 303/11, che con la sentenza n.
29/19, unita alla mancanza di diverse norme speciali (es. art. 18 Stat. lav.), non consente di rimettere in discussione la questione: ed invero, una volta messa nel nulla con la dichiarazione di inefficacia la cessione di azienda e una volta che il lavoratore abbia offerto la propria prestazione, sorge per il lavoratore ceduto il diritto alla retribuzione, allo stesso modo di quanto avviene in caso di conversione del contratto a termine e in caso di interposizione illecita di manodopera (ed invero, la Corte di Cassazione già prima del nuovo orientamento introdotto da Cass. 17784/19 aveva abbandonato la tesi della natura risarcitoria, anche se ammetteva l'effetto estintivo dei pagamenti effettuati dal cessionario, v. Cass. 14136/18 e Cass. 16694/18).
Peraltro, anche con riferimento alla questione circa il diritto del lavoratore già retribuito dal cessionario di rivendicare la retribuzione pure nei confronti del cedente, non vi sono ragioni per discostarsi dall'orientamento inaugurato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 17784/19 (della quale si riportano qui solo alcuni tra
i passi più significativi).
In primo luogo, non può essere messa in dubbio l'affermazione che «soltanto un legittimo trasferimento
d'azienda comporti la continuità di un rapporto di lavoro che resta unico ed immutato, nei suoi elementi oggettivi, esclusivamente nella misura in cui ricorrono i presupposti di cui all'articolo 2112 c.c. che, in deroga all'articolo
1406 c.c., consente la sostituzione del contraente senza il consenso del ceduto». Ed invero, è in tanto «il rapporto di lavoro continua con il cessionario», in quanto il trasferimento d'azienda sia legittimo ai sensi dell'art. 2112
c.c.
Ne consegue, che in caso di illegittimità del trasferimento si ha necessariamente l'instaurazione di un secondo rapporto con il cessionario alle cui dipendenze di fatto il lavoratore abbia lavorato dopo la cessione. E peraltro questo secondo rapporto è di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il cedente, sebbene quiescente per l'illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale. Se dunque in caso di invalidità della cessione, il rapporto il rapporto di lavoro non si trasferisce al cessionario, si capisce come i rapporti di lavoro sino due: uno de jure in capo al cedente, l'altro de facto in capo al cessionario. Contr sostiene che, anche volendo ammettere la duplicità dei rapporti, la prestazione di lavoro resa dal lavoratore resta ontologicamente unica, dal che conseguirebbe che il pagamento della retribuzione da parte del cessionario nei cui confronti la prestazione è stata resa estingue il credito del lavoratore.
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L'assunto, per quanto suggestivo, non considera che, pacificamente, al dipendente la retribuzione spetta tanto se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, tanto se, versando il datore di lavoro in una situazione di mora accipiendi, la prestazione non sia stata resa. Secondo le parole di Cass. 17784/19, «una volta offerta la prestazione lavorativa al datore di lavoro giudizialmente dichiarato tale, il rifiuto di questi rende giuridicamente equiparabile la messa a disposizione delle energie lavorative del dipendente alla utilizzazione effettiva, con la conseguenza che il datore di lavoro ha l'obbligo di pagare la controprestazione retributiva. Non si dubita, ad esempio, che in base agli artt. 1218 e 1256 c.c. la "sospensione unilaterale" del rapporto da parte del datore di lavoro sia giustificata ed esoneri il medesimo datore dall'obbligazione retributiva solo quando non sia imputabile
a fatto dello stesso» (in tal senso, tra le tante, Cass. 24886/06, 23316/08).
Se così è, ne consegue che la costruzione teorica offerta dalla Corte di Cassazione risulta pienamente condivisibile: accanto ad una prestazione materialmente resa in favore del soggetto con il quale il lavoratore, illegittimamente trasferito con la cessione di ramo d'azienda, abbia instaurato un rapporto di lavoro di fatto, c'è un'altra prestazione giuridicamente resa in favore dell'originario datore, con il quale il rapporto di lavoro è stato de iure (anche se non de facto, per rifiuto ingiustificato del datore) ripristinato, non meno rilevante sul piano del diritto. Contr Neppure possono condividersi le affermazioni di in ordine all'asserita invalidità della messa in mora.
Come chiarito dalla Corte di Cassazione, nelle obbligazioni di fare, là dove l'adempimento della prestazione deve essere preceduto da atti preparatori che devono essere compiuti dal creditore, è sufficiente per la liberazione del debitore che questi provveda all'intimazione del debitore prevista per tali obbligazioni dall'art. 1217 c.c. Ed invero, con l'offerta della propria prestazione il lavoratore ha fatto tutto quanto era in suo potere per poter adempiere la propria obbligazione, cosicché la prestazione rifiutata è equiparata alla prestazione effettivamente resa.
Come affermato da Cass. 17789/19, dal momento in cui il datore di lavoro rifiuta senza giustificazione,
l'offerta del lavoratore, «l'attività lavorativa resa in favore del non più cessionario equivale a quella che il lavoratore, bisognoso di occupazione, renda in favore di qualsiasi altro soggetto terzo: così come la retribuzione corrisposta da ogni altro datore di lavoro presso il quale il lavoratore impiegasse le sue energie lavorative si andrebbe a cumulare con quella dovuta dall'azienda cedente, parimenti anche quella corrisposta da chi non è più da considerare cessionario, e che compensa un'attività resa nell'interesse e nell'organizzazione di questi, non va detratta dall'importo della retribuzione cui il cedente è obbligato».
Nello stesso senso, è utile il paragone con il lavoratore che veda non adempiuto l'obbligo di ripristino dopo la sentenza di conversione del contratto a termine: se egli avesse percepito retribuzioni per effetto di altro rapporto nel frattempo instaurato, non per questo perderebbe il diritto alle retribuzioni dovute grazie all'intervenuta 9
conversione del rapporto;o con il dipendente unilateralmente sospeso che durante l'illegittima sospensione percepisca retribuzioni da altro datore di lavoro: in questi casi non si dubita che il rifiuto dell'offerta fatta dal lavoratore comporti, ai fini del diritto alla retribuzione, l'equiparazione della prestazione rifiutata alla prestazione effettiva, senza che il datore di lavoro inadempiente possa eccepire il pagamento del terzo. Contr Non hanno fondamento neppure gli assunti di circa l'effetto estintivo che comunque dovrebbe riconoscersi al pagamento fatto dal cessionario, in applicazione dell'art. 1180 c.c. o degli artt. 29, co. 2, e 27, co.
2, D.Lgs. 276/03.
Come affermato dalla Cass. 17778/19, una volta acclarata la natura retributiva che grava sul cedente,
«non vi è norma di diritto positivo che consenta di ritenere che tale obbligazione pecuniaria possa considerarsi, in tutto o in parte, estinta per il pagamento della retribuzione da parte dell'impresa originaria destinataria della cessione». In particolare, avuto riguardo alla duplicità di rapporti che sorgono da una cessione d'azienda illegittima, va sottolineato che il cessionario nuovo datore di lavoro è l'utilizzatore effettivo (e non meramente apparente come nelle diverse fattispecie di interposizione nelle prestazioni di lavoro) dell'attività del lavoratore cui corrisponde la retribuzione dovuta e così egli adempie ad un'obbligazione propria, non sicuramente estinguendo un debito altrui (come nel caso di interposizioni fittizie). Sicché l'esistenza di un debito proprio esclude la possibilità di configurare un adempimento ex art. 1180 c.c. in qualità di terzo da parte del destinatario dell'originaria cessione, atteso che il cessionario compensa un'attività lavorativa direttamente resa a vantaggio dell'impresa di cui è titolare.
Non è pertinente il richiamo all'art. 2112, ult. co., cod. civ., che nei casi di appalto tra cedente e cessionario stabilisce la regola della solidarietà di cui all'art. 29, co. 2, D.Lgs. 276/03. E' infatti evidente che tale disposizione si applica solo in caso di cessioni di ramo d'azienda legittime, a tutela dei lavoratori utilizzati nell'appalto i quali potranno far valere anche contro il cedente appaltante i crediti retributivi maturati nei confronti del proprio datore di lavoro cessionario appaltatore. Ed invero, la disposizione dell'ultimo comma dell'art. 2112 cod. civ. non introduce una nuova disciplina, ma si limita a chiarire che il regime della solidarietà previsto in via generale dall'art. 29, co. 2, D.lgs. 276/03 a favore dei lavoratori dipendenti dell'appaltatore si applica anche nel caso particolare di appalto stipulato tra cedente e cessionario del ramo d'azienda. Insomma: la disposizione serve solo a chiarire che, se in base al comma 2 dell'art. 2112 il cedente è obbligato in solido con il cessionario per tutti i crediti che il lavoratore aveva al momento della cessione, qualora tra cedente e cessionario intervenga un contratto di appalto la cui esecuzione avviene utilizzando il ramo ceduto, il cedente sarà obbligato in solido con il cessionario anche per i crediti retributivi successivi alla cessione, purché il lavoratore sia utilizzato nell'esecuzione dell'appalto.
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Neppure sono applicabili le disposizioni contenute nel D.lgs. n. 276/03 laddove all'art. 27, co. 2, secondo comma (previsto in materia di somministrazione irregolare, ma richiamato anche dall'art. 29, comma 3-bis, in tema di appalto illecito) stabilisce che i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, «valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata». Orbene, l'efficacia dei pagamenti effettuati a vantaggio del soggetto che ne ha utilizzato effettivamente la prestazione, impedisce che nella fattispecie possa applicarsi il meccanismo previsto dall'art. 27, co. 2, D.lgs. 276/03.
Come già affermato dalla Corte di Cassazione, il testo delle disposizioni, che espressamente si riferisce alle fattispecie della somministrazione e dell'appalto, non ne consente l'applicazione diretta alla diversa ipotesi del trasferimento d'azienda. Infatti, «il dato testuale che connette l'effetto liberatorio del pagamento esclusivamente in favore del soggetto che "ha effettivamente utilizzato la prestazione" esclude altresì ogni interpretazione estensiva
(men che meno analogica) che consenta l'applicazione al caso della cessione di ramo d'azienda, ove l'impresa cedente, che dovrebbe beneficiare del pagamento altrui, non utilizza affatto la prestazione del lavoratore ceduto».
La Corte di Cassazione ha avuto cura di sottolineate che somministrazione irregolare o appalto illecito sono fenomeni strutturalmente incomparabili con le cessioni di ramo d'azienda dichiarate illegittime nei confronti del lavoratore ceduto: infatti, nel primo caso il soggetto che ha utilizzato le prestazioni è il datore di lavoro reale al quale è imputabile la titolarità dell'unico rapporto, mentre nel secondo caso l'impresa cedente non è il soggetto che utilizza la prestazione, invece effettuata a vantaggio di una diversa organizzazione d'impresa che diventa titolare di un altro rapporto e che paga un debito proprio.
Le considerazioni sino a qui svolte rendono ragione della manifesta infondatezza della questione di Contr costituzionalità dell'art. 27, co. 2, D.lgs. 76/2003 (oggi art. 38, co. 3, D.lgs. 81/2015). sostiene che, mentre in caso di appalto illecito il committente è liberato dai pagamenti effettuati dall'appaltatore, «nel caso di appalto lecito tale efficacia è del tutto esclusa», con ciò creando una ingiustificata disparità di trattamento. A prescindere da ogni considerazione sulla fondatezza dell'assunto circa l'esistenza di una disparità di trattamento tra il committente di appalto illecito e quello di appalto lecito, occorre ribadire che i fenomeni di interposizione illecita di manodopera sono strutturalmente diversi da quello oggetto di causa: in essi vi è un solo rapporto di lavoro che intercorre con il datore di lavoro reale effettivo utilizzatore della prestazione, mentre nella fattispecie i rapporti sono due.” Contr
“Orbene, se si abbraccia la tesi oggi sostenuta da è evidente che, da un lato, si lascia libero il datore di lavoro di non adempiere alla sentenza, visto che non sopporta alcuna conseguenza dannosa, dall'altro, si ammette che la sentenza ottenuta dal lavoratore sia completamente inutile, almeno tutte le volte in cui, come nella fattispecie, il lavoratore ceduto non lamenta di ricevere un trattamento retributivo inferiore. 11
Contr Insomma, sembra di poter dire che l'interpretazione sostenuta da non coglie le specificità proprie della tutela del rapporto di lavoro: non si fa questione di un danno legato alla misura della retribuzione, danno che, come dimostra la fattispecie, può non sussistere neppure in minima parte, ma di altri beni e valori che il lavoratore estromesso dalla illegittima cessione di ramo d'azienda si vedrebbe definitivamente pregiudicati, nonostante la sentenza favorevole. E questa è una conseguenza che l'ordinamento non può tollerare.
E' in questa situazione che, in stretta conformità ai principi di Corte Cost. 303/11 circa il diritto del lavoratore alla stabilizzazione e alle retribuzioni spettanti dopo la sentenza, si innesta il nuovo orientamento della Corte di Cassazione. Il fatto che in tal modo il lavoratore percepisca due volte la stessa retribuzione è esattamente uguale a quello del lavoratore a termine che dopo la sentenza di conversione del rapporto vada a lavorare presso terzi in attesa che il datore di lavoro adempia alla stabilizzazione: anche tale lavoratore può non subire alcun danno patrimoniale (ad es. perché assunto con il medesimo inquadramento), ma tuttavia egli vede frustrata la sua aspirazione a tornare a lavorare nell'azienda che lo aveva assunto a termine illegittimamente e presso la quale, per ragioni personali e professionali, aspira a lavorare in conformità al dictum giudiziale.
Il fatto che nella cessione di ramo d'azienda il lavoratore continui a svolgere le stesse mansioni di prima e a percepire la medesima retribuzione non costituisce una valida ragione per una soluzione diversa, perché ciò non toglie che il lavoratore veda frustrato il suo interesse a rientrare presso l'organizzazione imprenditoriale del cedente, unico interesse che lo ha mosso al giudizio. Senza contare che, una volta transitato al cessionario, egli non potrà opporsi al legittimo esercizio dello jus variandi del datore di lavoro e ad essere eventualmente adibito anche a mansioni e professionalità del tutto diverse dalle precedenti, purché equivalenti (si osservi che nel caso di specie i lavoratori sono transitati da un istituito bancario a un'azienda di servizi informatici).”.
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Quanto alla domanda avente ad oggetto l'accredito delle ferie maturate o, in subordine, il pagamento della corrispondente indennità sostitutiva delle ferie maturate e non godute dal
31.8.20 all'effettiva riammissione in servizio, si osserva quanto segue.
Sul punto si è registrato un revirment giurisprudenziale, secondo un più risalente orientamento le ferie non maturavano in caso di mancata effettiva esecuzione dell'attività lavorativa, ciò anche nel caso in cui l'assenza di prestazione fosse dovuta atto o comportamento illegittimo del datore di lavoro, poiché in assenza di prestazione lavorativa non vi è necessità di reintegra delle energie con il riposo “In caso di licenziamento dichiarato illegittimo, l'attribuzione al lavoratore delle retribuzioni non percepite dalla data di intimazione del licenziamento a quella di effettiva reintegrazione nel posto di lavoro non comprende altresì l'attribuzione dell'indennità sostitutiva delle ferie non godute nel periodo di sospensione verificatosi a seguito del licenziamento dichiarato illegittimo, atteso che detta 12
indennità ha natura risarcitoria e non retributiva, e che la sospensione del rapporto di lavoro, sia pure per fatto illegittimo del datore di lavoro, facendo venire meno la prestazione lavorativa, esclude quella esigenza di recupero delle energie psicofisiche che il diritto alle ferie è inteso a soddisfare.” (Cassazione civile sez. lav.,
05/05/2000, n.5624, conforme: Cass.