Trib. Siena, sentenza 17/04/2024, n. 250

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Sul provvedimento

Citazione :
Trib. Siena, sentenza 17/04/2024, n. 250
Giurisdizione : Trib. Siena
Numero : 250
Data del deposito : 17 aprile 2024

Testo completo

REPUBBLICA ITALIANA TRIBUNALE DI SIENA (Sezione Lavoro)
“In nome del popolo italiano” Sentenza
causa n. 414/2024 rgl separata dalla n. 799/2021 rgl
Svolgimento del processo.
e altri/e 8 ricorrenti Parte_1
(difesa e difese/i dagli avv. E M C e F C) a mezzo ricorso depositato il 11/11/2021 (causa n. 799/2021 rgl)
contro
Controparte_1
(che sarà difesa, in origine, dall'avv. M G, dalle avv. A N e A G S, dagli avv. P B, A L)(successivamente cessato l'avv. B).
esercitavano azione giudiziale di accertamento e condanna formulando le conclusioni contenute in ricorso, alle pp. 11-12.
La convenuta si costituiva in giudizio, contestando la fondatezza della CP_1 do chiedendone in sintesi il rigetto (conclusioni: memoria difensiva, p. 37).
*
All'udienza 20/5/2022, nella causa n. 799/2021 rgl sono comparsi, da remoto (Teams): per e altri, l'avv. F C;
Parte_1 per la , l'avv. A G S. Controparte_1
Ai fini della pratica forense le dott.sse e e il Persona_1 Persona_2 dott. . Persona_3
Il giudice sente le parti, che allo stato si richiamano ai propri atti, argomentazioni, richieste e conclusioni, anche istruttorie, contestando rispettivamente la fondatezza della difesa avversaria.
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Il giudice tenta la conciliazione della causa. Si dà atto allo stato del fallimento del tentativo.
In ordine ai conteggi prodotti parte ricorrente sin d'ora argomenta la genericità e la inconferenza della contestazione avversaria (pp. 33-37 memoria difensiva). Il giudice invita espressamente le parti ad affrontare anche il profilo contabile controverso nelle note difensive finali.
La in ogni caso ribadisce la propria contestazione anche sull'an. CP_1
Il giudice fissa per la discussione l'udienza del 26/9/2022, ore 10:00 stessa modalità (aula virtuale in possesso delle parti) con termine per note al 16/9.
All'udienza 26/9/2022, nella causa n. 799/2021 rgl sono comparsi, da remoto (Teams): per e altri, l'avv. F C;
Parte_1 per la , l'avv. A G S e Controparte_1
l'avv. ai fini della pratica forense la dott.ssa . Persona_4
Le parti si richiamano nuovamente e infine ai propri atti, argomentazioni, richieste e conclusioni, contestando rispettivamente la fondatezza della difesa avversaria.
Discussa oralmente la causa, il giudice si ritira in camera di consiglio.
*
Successivamente alle ore (attestazione telematica di deposito) in pubblica udienza, concordemente assenti le parti, il giudice pronuncia al termine ordinanza: rilevato, come noto alle parti, che nel più vasto ambito del contenzioso di riferimento, il giudice ha ritenuto opportuno l'ampliamento oggettivo e soggettivo della controversia, coinvolgendo coattivamente ex art. 107 cpc e per comunanza di causa e opportunità;
CP_2 CP_3 ritenuto opportuno, prima di provvedere eventualmente in modo analogo anche nella controversia in esame, verificare nell'ambito del contenzioso, di imminente trattazione (26/10/2022), se i terzi si siano costituiti e quale attività difensiva abbiano nel caso svolto;
si riserva in ordine alla ulteriore programmazione, eventualmente anche decisoria, della causa.
Sciolta la riserva assunta nella causa n. 799/2021 rgl, a mezzo ordinanza 9/6/2023, il giudice fissava per la discussione l'udienza del 6/12/2023 ore 11:00, autorizzando note al 26/11.
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All'udienza di rinvio del 28/2/2024, nella causa n. 799/2021 rgl sono comparsi, da remoto (Teams): per e altri, l'avv. F C;
Parte_1 per , l'avv. A G S. Controparte_1
Il giudice, rilevata la possibilità conciliativa per la maggior parte delle posizioni interessate per approfondimento di auspicata ipotesi transattiva aggiorna la causa, stessa modalità (aula virtuale accessibile alle parti) al 17/4/2024, ore 10:30.
Mentre le altre parti ricorrenti aderivano infine ad ipotesi conciliativa, all'udienza 17/4/2024 per separazione dalla causa n. 799/2021 rgl sono comparsi, da remoto (Teams) nella causa adesso iscritta al n. 414/2024 rgl:
per i ricorrenti e l'avv. F C;
Parte_2 Parte_3 per la , l'avv. A G S;
Controparte_1 per l'avv. L M;
CP_2
Le parti si richiamano infine ai propri atti, argomentazioni, richieste e conclusioni, contestando rispettivamente la fondatezza della difesa avversaria.
Discussa la causa il giudice si ritira in camera di consiglio.
*
Successivamente, alle ore (attestazione di deposito telematico) concordemente assenti le parti pronuncia sentenza ex art. 429, co. 1 cpc, pt. I (d.l. 2008/n. 112, conv. l. 2008/n. 133, art. 53)(ricorso depositato dopo il 25/6/08, ex artt. 56, 85 d.l. e l. cit.)(lettura della esposizione delle ragioni di fatto e diritto della decisione);

Motivi della decisione.
Indice:
§ 1. Il diritto affermato dal/la lavoratore/rice a fronte dell'inottemperanza della . Controparte_1
§ 1-b x art. 100 cpc.
§ 1-ter: l'ombra dell'art. 3 e dell'art. 36 Cost.
§ 2. Corte Cost. sent. 2019/n. 29 e la giurisprudenza di legittimità più recente (materiali).
§ 2-bis: osservazioni sparse su alcuni argomenti della giurisprudenza di legittimità e altri argomenti.
§ 3. La questione assicurativa-contributiva e Cass. SL ord. 2023/n. 9143, tra principi ed anomalie.
§ 4. E la subordinazione?
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§ 5. Cenno al rapporto di lavoro di fatto.
§ 6. Brevi rilievi e osservazioni sulla tematica dell'appalto e sua interferenza sull'oggetto del giudizio. Una discriminazione ulteriore.
§ 7. A proposito della mora del creditore.
§ 8. La persistenza dell'obbligazione retributiva del cedente dichiarato illegittimo, tra natura risarcitoria, aliunde perceptum e sottintese istanze coercitive.
§ 9. Giudici legislatori, grandi e piccoli.
§ 10. Orientamenti giurisprudenziali dissenzienti e aggiornamento giurisprudenziale.
§ 11. Il rilievo del criterio di ragionevolezza e conclusioni decisorie.
*
§ 1. Il diritto affermato dal/la lavoratore/rice a fronte dell'inottemperanza della . Controparte_1
Il/la lavoratore/rice ha prestato attività alle dipendenze della
[...]
. Controparte_1
Dall'1/1/2014 è passato/a alle dipendenze di CP_2
La nuova, contestatissima, titolarità datoriale consegue a cessione di ramo di azienda ex art. 2112 c.c. La cessione, già invalida e inefficace, per effetto di sentenze di merito, sottoposta al vaglio della Cassazione, a mezzo sent. n. 7364 del 2021, si è confermata tale, avendo il giudice di legittimità rigettato il ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di Firenze, confermativa della pronuncia di primo grado di accoglimento delle domande di lavoratori/rici, già dipendenti della di accertamento della perdurante esistenza del rapporto di lavoro CP_1 in ra ella "dedotta illegittimità e inefficacia della successione di CP_2 in tali rapporti ex art. 2112 c.c. in esito alla cessione da parte della
[...] CP_1 ramo d'azienda cui i lavoratori erano addetti”. Anche il Tribunale di Siena ebbe ad occuparsi della vicenda, con sentenza del 13/4/2015, ad es. in causa n. 988/2013 rgl, accertando la invalidità (nullità) e inefficacia del trasferimento di azienda oggetto di controversia, tra la cedente e la cessionaria del Controparte_1 CP_2 nte permanente s i un rapporto di lavoro subordinato tra la parte ricorrente e la
[...]
a decorrere dall'1/1/2014, condanna Controparte_1 CP_1 correlata attuazione conformativa con riammissione della parte ricorrente in servizio e ogni necessario adempimento normativo.
La , nonostante l'ordine, la condanna del Controparte_1 giudice, non ha inteso ripristinare effettivamente la titolarità del rapporto, titolarità giuridica che non ha peraltro bisogno di alcuna cooperazione della creditrice della prestazione lavorativa discendendo dalla efficacia dell'accertamento giurisdizionale ancor prima dell'autorità del giudicato, quindi
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sopravvenuto. Così come l'ordine di reintegrazione del/la lavoratore/rice illegittimamente licenziato/a ripristina sul piano giuridico la lex contractus, ma non la fattualità che non può prescindere dalla collaborazione del datore di lavoro, avendo ad oggetto un facere infungibile (v. anche C.Cost. sent. 2018/n. 86). Pur a fronte della costituzione in mora della creditrice ex art. 1217 c.c. proveniente dal/la lavoratore/rice con l'intimazione di ricevere la prestazione e compiere gli atti che sono necessari per renderla possibile, la Banca ha inteso affermare la supremazia del potere economico sul diritto, la forza dell'economia contro la forza dei diritti, la sottoposizione della giurisdizione non alla legge, art. 101, co. 2, Cost., ma al potere economico, senza alcuna buona fede e senza che abbia rilevanza alcuna il precedente prevalente orientamento giurisprudenziale applicativo dell'istituto dell'aliunde perceptum come della disciplina dell'art. 1180 c.c. con conseguente efficacia liberatoria dei pagamenti effettuati dal cessionario, e senza in alcun modo potersi parlare di “un comportamento fino a quel momento lecito” solo in seguito trasformatosi “in un comportamento illecito ex tunc”: non è dubbio essere rimasta non adempiuta la volontà dell'ordinamento impersonata dalla giurisdizione, nell'attesa dapprima di una riforma in appello risultata vana, quindi di un favorevole intervento della Corte di Cassazione, attesa risultata vana anch'essa. Solo “a decorrere dal 01/04/2020 il Suo rapporto di lavoro proseguirà alle Contr dipendenze di in ottemperanza alla sentenza che ha annullato il Suo trasferimento t. 2112 c.c.” - come coloro che non hanno mai fretta - comunicherà la in corso di causa, sia pure ai fini di una riammissione in CP_1 servizio solo in vvisoria e con contestuale distacco alla cessionaria. Queste considerazioni, già svolte in proprio precedente, non sono risultate gradite alla Banca (che vi ebbe a replicare già a suo tempo in specifico § delle note difensive finali), ma non sono molto lontane da quelle svolte dalla Corte di Appello di Trento, sent. 10/12/2020, in causa n. 37/2020 rgl, con il suo riferimento ai “contraenti deboli che subiscono lo strapotere economico di un contraente forte, che rifiuta di riconoscere la pronuncia di regolamento giurisdizionale del conflitto”, p. 15). In questo ordine di considerazione si profonderà giustamente con ampiezza anche la sent. 2022/n. 149 della Corte di Appello di Brescia, p. 22 ss. in specie. Detto questo sul versante imprenditoriale, quanto al/la lavoratore/rice, regolarmente retribuito/a e assicurato/a dalla cessionaria - tutti i/le CP_2 lavoratori/rici appartenenti al ramo back office hanno man medesimo Contr CCNL già applicato da (Credito, come risulta dalla produzione della Banca, accordo sindacale che ha accompagnato il trasferimento di ramo) e la medesima retribuzione – egli/ella esercita oggi azione di condanna contro la cedente, vera ed unica datrice di lavoro, al pagamento delle medesime CP_1 retribuzioni nelle more maturate e percepite.
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§ 1-bis. Variazioni sull'interesse ad agire ex art. 100 cpc.
La pretesa creditoria del/la lavoratore/rice parrebbe scontare un essenziale difetto di interesse ad agire, ex art. 100 cpc (Interesse ad agire), che notoriamente afferma un principio: “Per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse”. Compiamo riferimento all'istituto processuale consapevolmente in senso improprio, essendosi in presenza di una tutela di condanna, ma in senso descrittivamente efficace. Proviamo a sottoporre il caso, con la massima asetticità possibile, ad un componente qualsiasi di quel Popolo Italiano che fa capolino dall'alto sulla sentenza, ma anche ad un professionista, o ad una sindacalista. Il giudice personalmente lo va facendo da tempo, con scarse varianti di reazione, dall' , allo stupito, all'indignato. Per_5
Una sorta di improprio “reasonable person test”, “a legal concept used in UK law, which seeks to establish a standard of conduct that a hypothetical reasonable person would exhibit in a given situation”, conosciuto anche come
“the objective standard test”. Un lavoratore/rice viene ceduto/a e da quel momento regolarmente assunto, retribuito e assicurato dal/la cessionario/a, che lo/a utilizza per un fine che si ritiene proprio, pur rendendo anche un servizio al cedente. Il/la lavoratore/rice pretende e, scopriremo, giustamente, che non doveva essere ceduto, ma restare assunto, retribuito ed assicurato, dal precedente datore di lavoro che lo ha ceduto, è stato scoperto, illegittimamente. Questo datore di lavoro, per effetto di un ordine giudiziale, da quel momento in poi giustamente lo paga e lo assicura, con arretrati e accessori, per quello stesso lavoro già svolto e che non potrà più essere svolto, per il quale come detto il/la lavoratore/rice è stato/a pagato/a e assicurato/a: ritenete che la retribuzione percepita e i contributi versati per quel lavoro ed esattamente nella stessa misura debbano essere correttamente restituiti, all'uno o all'altro datore?
Ma tutto questo non è utile a fini argomentativi e subito lo abbandoneremo, anche perché il/la lavoratore/rice interessato/a, talora anche espressamente, alla domanda quasi retoricamente posta dal giudice, se abbia intenzione di restituire in caso di accoglimento della domanda a la retribuzione CP_2 percepita, prontamente offre risposta monosillabica: “no”. E' ovvio, che l'ha fatta a fare la causa, se non per essere pagato/a due volte per lo stesso lavoro. Anche di questo oggi si sta occupando il giudice del Lavoro, nella boutique dei diritti e nell'assordante silenzio del popolo degli esclusi.
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§ 1-ter: l'ombra dell'art. 3 e dell'art. 36 Cost.
Parrebbe implicito e talora anche esplicito – nel pensiero del/la lavoratore/rice certo avallato, cementato da un più recente diverso orientamento della
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giurisprudenza di legittimità – avere egli/ella diritto ad una “doppia retribuzione”, che tra gli addetti ai lavori dà gergalmente il nome, che pur viene contestato, al contenzioso in questione, non parendo egli/ella intenzionato/a, in caso di accoglimento della domanda, a restituire la medesima somma alla cessionaria . CP_2
Ma campeggia nella nostra Costituzione il diritto del/la lavoratore/rice ad una retribuzione anzitutto proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro (art. 36), oltre a trovare nobilissime e diversificate radici la teorica del giusto salario, retribuzione/salario che il/la lavoratore/trice già ha percepito. Dobbiamo allora rinvenire in ipotesi altrove l'eventuale fondamento di quella pretesa, e non è difficile trovarlo in un titolo non retributivo, al di là di ogni nominalismo, in una possibile base risarcitoria, peraltro di difficile dimostrazione, ma soprattutto in una implicita, impronunciabile componente sanzionatoria.
Non soddisfa relegare al “frutto di una equivoca suggestione”, l”istintiva perplessità”, “in ordine ad una presunta duplicazione indebita di retribuzione a fronte di un'unica attività prestata dal lavoratore, che così conseguirebbe una locupletazione non dovuta”, di cui pur dà atto, ad es., Cass. SL 2019/n. 29092. Dire che per effetto di un duplice rapporto giuridico, l'uno di fatto, con il cessionario illegittimo, l'altro di diritto con il cedente illegittimo, il/la lavoratore/rice in forza di un “coerente precipitato logico-giuridico” dell'istituto della mora credendi, abbia pieno diritto ad una doppia retribuzione, rischia di apparire offensivo per chi lavoro non ha mai avuto o lo abbia perduto, sul piano del principio di uguaglianza e dell'art. 36 Cost. Anche la Corte di Appello di Trento, cit., denuncia nell'ipotesi “un arricchimento dei lavoratori senza una causa concreta che giustifichi lo spostamento patrimoniale, introducendo nell'ordinamento conseguenze irrazionali ed ingiustificate disparità di trattamento anche fra datori di lavoro”, pp. 17-18,
“finzioni, irrazionalità di sistema e irragionevoli disparità di trattamento”, p. 23. Non c'è dubbio alcuno che il/la lavoratore/trice pretenda una doppia retribuzione a fronte di una sola prestazione senza proporzione alla quantità e qualità del suo lavoro. Se a questo dato ineliminabile, dietro al nominalismo retributivo non riusciamo a dare un giusto connotato risarcitorio o implicitamente sanzionatorio, a fronte di un comportamento datoriale come detto riprovevole, la risposta giuridica non soddisfa un più profondo sentimento di giustizia.
La Corte Costituzionale, con la sentenza 2018/ n. 86, ha dichiarato conforme al dettato costituzionale l'art. 18, co. 4, della l. 1970/n. 300, nella parte in cui attribuisce natura risarcitoria, anziché retributiva, alle somme di denaro che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere in relazione al periodo intercorrente dalla pronuncia di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro e fino all'effettiva ripresa dell'attività lavorativa, con conseguente applicazione dei meccanismi di aliunde perceptum e percipiendum.
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Nell'occasione la Consulta ha tra l'altro sottolineato che “la nozione di retribuzione ricavabile dalla Costituzione (art. 36) e dal codice civile (artt. 2094, 2099)(è tale) per cui il diritto a percepirla sussiste solo in ragione (e in proporzione) della eseguita prestazione lavorativa”.
Così, in pregresso orientamento di legittimità:“il contratto di lavoro è un contratto a prestazioni corrispettive in cui l'erogazione del trattamento economico, in mancanza di lavoro, costituisce un'eccezione, che deve essere oggetto di un'espressa previsione di legge o di contratto. In difetto di un'espressa previsione in tal senso, la mancanza della prestazione lavorativa esclude il diritto alla retribuzione, ma determina a carico del datore di lavoro, che ne è responsabile, l'obbligo di risarcire i danni, eventualmente commisurati alle mancate retribuzioni. «Proprio perché si tratta di un risarcimento del danno - ed in assenza di una disciplina specifica per la determinazione del suo ammontare - soccorrono i normali criteri fissati per i contratti in genere, con la conseguenza che deve essere detratto quanto il lavoratore possa aver conseguito svolgendo una qualsivoglia attività lucrativa» (Cass. SL, sent. n. 18955/2014).
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§ 2. Corte Cost. sent. 2019/n. 29 e la giurisprudenza di legittimità più recente (materiali).
Chi ad essa abbia vaghezza di opporsi si trova anche oggi di fronte ad un nuovo muro compatto, soprattutto di legittimità, rapidamente edificato, peraltro, sulle macerie di uno precedente, un nuovo diritto vivente che ne ha appena sepolto altro lungamente vissuto, determinando una improvvisa crisi nomofilattica, non senza possibilità e rischio di intermittenza.
La stessa Corte Costituzionale, infatti, con la sentenza 2019/n. 29, ha dichiarato “non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale del «combinato disposto» degli artt. 1206, 1207 e 1217 del codice civile, sollevate dalla Corte d'appello di Roma, sezione lavoro, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848”.
“Il contrasto con i parametri costituzionali evocati dal rimettente – osserva il giudice delle leggi - trae origine dalla disciplina della mora del creditore, considerata nel suo complesso. Il giudizio principale verte sull'inadempimento di un datore di lavoro che non ha eseguito l'ordine giudiziale di riassunzione e ha rifiutato senza alcun legittimo motivo (art. 1206 cod. civ.) la prestazione ritualmente offerta dal lavoratore, nel rispetto dell'art. 1217 cod. civ.
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Correttamente, pertanto, il giudice a quo richiede a questa Corte uno scrutinio unitario su quello che qualifica come il «combinato disposto» degli artt. 1206, 1207 e 1217 cod. civ., tutti chiamati a regolare la fattispecie controversa e suscettibili, pertanto, di produrre il vulnus che il rimettente ha denunciato”.
“Il giudice a quo – rileva la Corte - si propone di applicare la disciplina generale della mora del creditore, che la Corte di cassazione in quest'àmbito specifico avrebbe interpretato in maniera restrittiva, qualificando in senso meramente risarcitorio le obbligazioni del datore di lavoro cedente che non riammetta nell'impresa il lavoratore ceduto. Si dovrebbe così riespandere, nell'àmbito dei rapporti di lavoro, la disciplina generale, che, a giudizio del rimettente, obbliga il creditore moroso a eseguire in ogni caso la controprestazione e non soltanto a risarcire il danno. Così prospettate, le questioni di legittimità costituzionale si sottraggono ai rilievi di inammissibilità”. Ancora, “il rimettente muove dalla premessa che, sul carattere risarcitorio dell'obbligo del datore di lavoro cedente che non riammette il lavoratore ceduto nell'impresa, l'orientamento della giurisprudenza di legittimità sia oramai consolidato e assurga al rango di diritto vivente. Tale premessa è corretta ed è avvalorata da un indirizzo uniforme del giudice della nomofilachia (fra le molte, Corte di cassazione, sezione sesta civile, sottosezione lavoro, ordinanza 10 maggio 2017, n. 11402). Il rimettente, pur potendo privilegiare una diversa lettura del dato normativo, rispettosa dei precetti della Carta fondamentale, ben può scegliere di uniformarsi a un'interpretazione oramai radicata nella giurisprudenza di legittimità e richiederne, su tale presupposto, la verifica di conformità ai parametri costituzionali (sentenza n. 39 del 2018, punto 3.2. del Considerato in diritto)”.
“Le censure del rimettente si appuntano sulla qualificazione in termini risarcitori dell'obbligo del datore di lavoro che non ottemperi all'ordine di riammettere il lavoratore nell'impresa, dopo l'accertamento della nullità, dell'inefficacia o dell'inopponibilità della cessione del ramo di azienda. Il giudice a quo assume che la configurazione in senso risarcitorio dell'obbligo del datore di lavoro moroso sia lesiva del principio di eguaglianza, tanto in riferimento alla disciplina degli altri rapporti obbligatori quanto con riguardo alla disciplina della nullità dell'apposizione del termine. Nel rapporto di lavoro, a differenza che negli altri àmbiti posti a raffronto, il creditore moroso sarebbe obbligato soltanto a risarcire i danni e non a eseguire la controprestazione. La limitazione della tutela del lavoratore ceduto al risarcimento dei danni comprometterebbe, in pari tempo, l'effettività della tutela giurisdizionale, secondo i molteplici parametri costituzionali evocati (artt. 24, 111 e 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 6 CEDU).
5.- Sul tema del decidere, così definito, incide la sentenza 7 febbraio 2018, n. 2990, pronunciata dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili. Le Sezioni unite sono state chiamate a dirimere la questione di massima di particolare importanza circa la natura retributiva o risarcitoria delle somme che
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spettano al lavoratore dopo l'accertamento dell'illecita interposizione di manodopera, nell'ipotesi in cui il lavoratore abbia invano messo a disposizione le proprie energie lavorative. In questa complessa opera ricostruttiva, le Sezioni unite hanno preso le mosse proprio dall'orientamento che si è dapprima formato in tema di conseguenze della nullità del trasferimento d'azienda, per essere successivamente esteso alla fattispecie dell'interposizione illecita di manodopera. La Corte di cassazione svolge un'analoga argomentazione per fattispecie che solo in apparenza sono tra loro distanti. Le Sezioni unite puntualizzano che la qualificazione risarcitoria dell'obbligazione del cedente, tanto consolidata da avere indotto la Corte d'appello di Roma a sollevare questioni di legittimità costituzionale della normativa così intesa, si fonda sul principio di corrispettività che permea di sé il contratto di lavoro. Alla stregua di tale principio, al di fuori delle eccezioni tassativamente previste dalla legge o dal contratto, il diritto alla retribuzione sorge soltanto quando la prestazione lavorativa sia stata effettivamente resa. In caso contrario, sussiste, in capo al datore di lavoro, soltanto un obbligo di risarcire il danno. Secondo le Sezioni unite, una prospettiva costituzionalmente orientata impone di rimeditare la regola della corrispettività nell'ipotesi di un rifiuto illegittimo del datore di lavoro di ricevere la prestazione lavorativa regolarmente offerta. Il riconoscimento di una tutela esclusivamente risarcitoria diminuirebbe, difatti, l'efficacia dei rimedi che l'ordinamento appresta per il lavoratore. Sul datore di lavoro che persista nel rifiuto di ricevere la prestazione lavorativa, ritualmente offerta dopo l'accertamento giudiziale che ha ripristinato il vinculum iuris, continua dunque a gravare l'obbligo di corrispondere la retribuzione. Nella ricostruzione delle Sezioni unite la disciplina del licenziamento illegittimo, che ascrive all'area del risarcimento del danno le indennità dovute dal datore di lavoro, si configura in termini derogatori e peculiari. Acquistano per contro valenza generale le affermazioni contenute nella sentenza n. 303 del 2011 di questa Corte, relative alle conseguenze dell'illegittima apposizione del termine (art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183, recante «Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l'impiego, di incentivi all'occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro»). Infatti, come precisato nella suddetta pronuncia, per effetto della sentenza che rileva il vizio della pattuizione del termine e instaura un contratto a tempo indeterminato, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore, «in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in caso di mancata riammissione effettiva» (sentenza n. 303 del 2011, punto 3.3.1. del Considerato in diritto). Da tali princìpi le Sezioni unite evincono, con portata tendenzialmente generale, l'obbligo del datore di lavoro moroso di corrispondere le retribuzioni al lavoratore che non sia stato riammesso in servizio, neppure dopo la pronuncia del giudice che abbia ripristinato la vigenza dell'originario rapporto di lavoro.
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In questa prospettiva, riveste un ruolo primario l'accertamento del giudice, che ristabilisce la lex contractus, accertamento che non può essere sminuito nella sua forza cogente dal protrarsi dell'inosservanza. Al profilo processuale fa riscontro, sul versante sostanziale, la particolare pregnanza dei diritti riconosciuti al lavoratore a fronte della mora del datore di lavoro. Tali diritti non si esauriscono nel rimedio risarcitorio, ma includono anche il diritto alla controprestazione, in consonanza con i princìpi generali del diritto delle obbligazioni, che, pur con le peculiarità connaturate alla specialità del rapporto di lavoro, perseguono anche in quest'àmbito un'essenziale funzione di tutela”. Conclude, quindi, il giudice delle leggi: “A tale riguardo, si deve rilevare che l'indirizzo interpretativo, indicato come diritto vivente allorché sono state proposte le questioni di legittimità costituzionale, risulta disatteso dalla suddetta pronuncia delle Sezioni unite, successiva all'ordinanza di rimessione. Tale pronuncia mira a ricondurre a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della mora del creditore nel rapporto di lavoro e consente di risolvere in via interpretativa i dubbi di costituzionalità prospettati. Invero, sul punto della qualificazione retributiva dell'obbligazione del datore di lavoro moroso, che rappresenta il fulcro delle questioni di legittimità costituzionale, si riscontra una piena convergenza tra le enunciazioni di principio delle Sezioni unite e l'assunto del rimettente (Corte di cassazione, sezione sesta civile, sottosezione lavoro, ordinanze 1° giugno 2018, n. 14136, e 31 maggio 2018, n. 14019, punto 5. delle rispettive motivazioni). Questa convergenza vale a privare di fondamento, nei termini indicati, le questioni di legittimità costituzionale, insorte sulla base di un'interpretazione di segno antitetico (ex plurimis, sentenza n. 56 del 1985, punto 4. del Considerato in diritto;
nello stesso senso, sentenza n. 233 del 2003, punto 3.4. del Considerato in diritto). 6.4.- Spetterà alla Corte rimettente rivalutare la questione interpretativa dibattuta nel giudizio principale, che investe il diritto del lavoratore ceduto, già retribuito dal cessionario, di rivendicare la retribuzione anche nei confronti del cedente”.
Non troppo tempo prima, la stessa Corte Costituzionale, sia pure incidentalmente, ebbe modo di dichiarare: “4.4.1- Va poi considerato che il datore di lavoro, ove messo in mora, dal lavoratore, ai fini dell'adempimento del suo obbligo di ottemperanza all'ordine del giudice, nel contesto della disciplina lavoristica ispirata al favor praestatoris, può andare, a sua volta, incontro alla richiesta risarcitoria che, secondo i principi generali delle obbligazioni (artt. 1206 e 1207, secondo comma, cod. civ.), nei suoi confronti, formuli il lavoratore medesimo, per il danno conseguente al mancato reinserimento nell'organizzazione del lavoro, nel periodo intercorrente dalla statuizione di annullamento del licenziamento a quello della sua successiva riforma” (sent. 2018/n. 86).
Quanto alla giurisprudenza di legittimità, il/la lavoratore/rice poteva richiamare in suo favore già alla data del 20/5/2020, ad es. le sentenze nn. 17784,
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17785, 17786, 21158, 21160, 26759, 28500, 29092/2019 e le ordinanze nn. 7977, 7978, 8162, 8163, 8262, 8800, 8802, 8951, 8952, 9093, 9094, 9309/2020.
Co Riportiamo, solo ad es., per la sua completezza, Cass. 2019/n. 29092:
“4. Le questioni devolute con il ricorso a questa Corte riguardano: a) la natura, se retributiva ovvero risarcitoria, dei crediti che il lavoratore ha ingiunto in pagamento a a titolo di emolumenti allo stesso Organizzazione_1 dovuti per effetto del rapporto da parte della società predetta, nonostante l'emissione di un tale ordine del Tribunale con la sentenza di accertamento della illegittimità della cessione del ramo d'azienda (cui egli era addetto) a con decorrenza dalla messa in mora operata Controparte_6 dal lavoratore b) la detraibilità o meno, una volta tanto accertato, di quanto percepito dal lavoratore a titolo di retribuzione per l'attività prestata alle dipendenze della predetta società, già cessionaria del ramo d'azienda.
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