Cass. pen., sez. VI, sentenza 16/04/2021, n. 14402
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la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da B M, nato a Villafranca di Verona 1'08/01/1969 avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Venezia il 18/04/2019;udita la relazione svolta dal Consigliere, P S;udito il Sostituto Procuratore Generale, dott. G L, che ha concluso chiedendo l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata;udito l'avv. L S, difensore della parte civile Comune di Vigasio, che ha concluso riportandosi alle conclusioni depositate;RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Venezia ha confermato la sentenza con cui B M è stato condannato per i reati di peculato, bancarotta fraudolenta per distrazione, autoriciclaggio - bancarotta impropria, in relazione all'art. 2621 cod. civ. A B è contestato: - nella qualità di incaricato di pubblico servizio, in quanto amministratore unico della società GSI Vigasio s.r.l. dal 21.12.2009 al 2.7.2016, (società pubblica interamente partecipata dal Comune di Vigasio), avendo, per ragioni del suo incarico, la disponibilità di somme della società provenienti dai ricavi gestionali della stessa, di essersi appropriato di 1.029.737 euro, mediante l'emissione a sè stesso di numerosi assegni bancari ed il mancato versamento delle somme di denaro contante derivanti dagli incassi da una determinata farmacia comunale (peculato di cui al capo a);- di avere con la condotta appena indicata distratto somme della società, causando in tal modo un grave dissesto economico, sfociato nella sentenza dichiarativa di fallimento (così testualmente l'imputazione sub b) (art. 216, comma 1, n. 1 della legge fallimentare);- di aver reinnpiegato parte rilevante del denaro sottratto indebitamente, destinandolo al rimborso o all'estinzione di rate e di strumenti finanziari elencati nella imputazione (art. 648 ter.1 cod. pen.- capo c);- di avere, attraverso false comunicazioni sociali e, in particolare, attraverso falsi bilanci societari dal 2010 al 2016 predisposti al fine di conseguire l'ingiusto profitto derivante dalla prosecuzione dell'attività distrattiva, cagionato il dissesto della società (art. 223 legge fallimentare in relazione all'art. 2621 cod. civ.- capo d) 2.Ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato articolando quattro motivi. 2.1. Con il primo si lamenta violazione di legge in ordine alle imputazioni contestate ai capi a) e b). Sul presupposto che la dichiarazione di fallimento costituisca una condizione obiettiva di punibilità, si sostiene che la sentenza impugnata sarebbe viziata- in ragione dei principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 200 del 2016 - nella parte in cui ha ritenuto non violato il bis in idem fra i reati di peculato e bancarotta fraudolenta per distrazione. L'assunto difensivo è che il fatto storico, individuato nei suoi elementi materiali di condotta — nesso causale ed evento e depurato da elementi valoristici relativi agli interessi protetti dalle norme, sarebbe lo stesso nel peculato e nella bancarotta fraudolenta per distrazione (al tal fine si cita la sentenza di questa Corte n. 25651 del 2018 in tema di rapporti fra bancarotta e appropriazione indebita). 2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di penale responsabilità per il capo C) . Secondo l'impostazione accusatoria, recepita dai Giudici di merito, l'imputato, dopo aver commesso il reato di peculato e distratto le somme, avrebbe dolosamente "creato" debito e in tal modo reimpiegato il denaro sottratto indebitamente, ostacolando in tal modo l'accertamento della natura delittuosa del denaro. Secondo il ricorrente, la Corte di appello non avrebbe tenuto conto che parte delle somme indicate nella imputazione sarebbero state destinate al pagamento del corrispettivo delle opere di ristrutturazione dell'abitazione principale dell'imputato e, quindi, per un bene ad uso esclusivamente personale, escluso dall'ambito della punibilità della norma. Si aggiunge che per le restanti condotte contestate, si dovrebbe distinguere tra le attività finalizzate all'accesso ad alcuni finanziamenti e quelle relative al pagamento dei ratei scaduti riguardanti i finanziamenti ricevuti. L'assunto difensivo è che l'attività di pagamento delle rate di finanziamento non costituirebbe attività finanziaria, come invece richiesto dall'art. 648 ter.1 cod. pen., così come non costituirebbe attività finanziaria il deposito delle somme sul conto corrente personale dell'imputato in funzione del pagamento delle rate di finanziamento. Le condotte in questione, si argomenta, non sarebbero state idonee ad ostacolare concretamente l'identificazione del denaro e non avrebbero - come invece richiesto dalla giurisprudenza della Corte di cassazione- nemmeno una capacità dissimulatoria e di occultamento;sul punto la motivazione sarebbe omessa. L'imputato avrebbe versato le somme di cui si era appropriato sui propri conti correnti bancari così rendendo facilmente tracciabile il denaro. 2.3. Con il terzo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche;si sarebbe dovuto considerare il comportamento dell'imputato, che avrebbe in realtà tentato di spiegare le motivazioni del proprio gesto e rinunciato sin dall'immediatezza della contestazione dei fatti a tutte la cariche ricoperte. 2.4. Con il quarto motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla conferma delle pene accessorie, tenuto conto della sentenza n. 222 del 2018 della Corte costituzionale con riferimento all'art. 216 della legge fallimentare;le pene accessorie inflitte all'imputato nella misura massima sarebbero illegali, in assenza di una motivazione giustificativa adeguata. CONSIDERATO IN DIRITTO 1.11 ricorso è fondato quanto al secondo ed al terzo motivo. 2. È infondato il primo motivo di ricorso. 2.1. L'art. 4 del protocollo n. 7 CEDU - prevede che "nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato";secondo l'art. 649 cod. proc. pen., "l'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto". Quanto alla portata delle due norme, alla portata del divieto di bis in idem ed al rapporto tra detto principio ed il concorso formale di reati, è necessario ripercorrere il senso del ragionamento compiuto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 200 del 2016. Si tratta di una sentenza intervenuta sul tema del se il principio del ne bis in idem in materia penale, enunciato dall'art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, abbia un campo applicativo diverso e più favorevole all'imputato del corrispondente principio recepito dall'art. 649 cod. proc. pen. La Corte costituzionale ha spiegato che: -il fatto storico-naturalistico rileva, ai fini del divieto di bis in idem, secondo l'accezione che gli conferisce l'ordinamento: fatto, in questa prospettiva, è l'accadimento materiale, depurato dal giogo dell'inquadramento giuridico;- il fatto, pur assunto nella sola dimensione empirica, non si restringe all'azione o all'omissione, ma comprende anche "l'oggetto fisico su cui cade il gesto, se non anche, al limite estremo della nozione, l'evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell'agente";- l'identità del "fatto" sussiste — così come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, D) — quando vi sia corrispondenza storico- naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona» (sentenza n. 129 del 2008);- la Convenzione impone agli Stati membri di applicare il divieto di bis in idem in base ad una concezione naturalistica del fatto, ma non di restringere quest'ultimo nella sfera della sola azione od omissione dell'agente;dunque "la disposizione nazionale avrebbe violato l'art. 117, primo comma, Cost., solo se dovesse essere interpretata nel senso di assegnare rilievo all'idem legale, ovvero a profili attinenti alla qualificazione giuridica del fatto";- Costituzione e CEDU si saldano, dunque, nella garanzia che la persona già giudicata in via definitiva in un processo penale non possa trovarsi imputata per il medesimo fatto storico. 2.2. Sulla base di tali presupposti la Corte costituzionale ha quindi verificato e chiarito il tema del rapporto tra divieto di bis in idem e concorso formale di reati. Si è affermato che: - il rinnovato esercizio dell'azione penale è consentito, in presenza di un concorso formale di reati, anche quando il fatto, nel senso indicato, è il medesimo sul piano empirico, ma forma oggetto di una convergenza reale tra distinte norme incriminatrici, tale da generare una pluralità di illeciti;- è possibile che un'unica azione o omissione infranga, in base alla valutazione normativa dell'ordinamento, diverse disposizioni penali, alle quali corrisponde un autonomo disvalore che il legislatore, nei limiti della discrezionalità di cui dispone, reputa opportuno riflettere nella molteplicità dei corrispondenti reati e sanzionare attraverso le relative pene;- escluso da parte del giudice che tra le norme sia configurabile un rapporto di specialità (artt. 15 e 84 cod. pen.), ovvero che esse si pongano in concorso apparente, in quanto un reato assorbe interamente il disvalore dell'altro, non può essere contestato che si debbano attribuire all'imputato tutti gli illeciti che sono stati consumati attraverso un'unica condotta comnnissiva o omissiva, per quanto il fatto sia il medesimo sul piano storico-naturalistico, essendo il concorso formale di reati un istituto di diritto sostanziale;- ciò non viola la garanzia individuale del divieto di bis in idem, che si sviluppa invece in una dimensione esclusivamente processuale, e preclude non il simultaneus processus per distinti reati commessi con il medesimo fatto, ma solo una seconda iniziativa penale, laddove tale fatto storico sia - nel senso indicato in precedenza - lo stesso già stato oggetto di una pronuncia di carattere definitivo;- l'esistenza o meno di un concorso formale tra i reati oggetto della res iudicata e quelli della res iudicanda è un fattore ininfluente ai fini dell'applicazione dell'art. 649 cod. proc. pen., una volta che questa disposizione sia stata ricondotta a conformità costituzionale, "e l'ininfluenza gioca in entrambe le direzioni, perché è permesso, ma non è prescritto al giudice di escludere la medesimezza del fatto, ove i reati siano stati eseguiti in concorso formale";- l'autorità giudiziaria è tenuta a porre a raffronto il fatto storico, secondo la conformazione identitaria che esso abbia acquisito all'esito del processo concluso con una pronuncia definitiva, con il fatto storico posto dal pubblico ministero a base della nuova imputazione (così testualmente la Corte costituzionale).
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