Cass. pen., sez. III, sentenza 07/11/2018, n. 50129
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DEPOSITATA - SENTENZA sui ricorsi proposti da: - 7 1,1CW 2018 D P F, nato a Milano il 20 aprile 1947;D A, nato a Milano il 9 dicembre 1976;IL CA Luana avverso la sentenza n. 199/2018 del Tribunale di Milano del 11 gennaio 2018;letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e i ricorsi introduttivi;sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. A G;sentito il PM, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. P G, il quale ha concluso chiedendo la dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi.RITENUTO IN FATTO Il Tribunale di Milano, con sentenza del 11 gennaio 2018, ha dichiarato la penale responsabilità di D P F e di D A in ordine, quanto al primo, al reato a lui ascritto sub A) della rubrica, riguardante la normativa in tema di gestione dei rifiuti e, quanto al secondo, al reato di cui al capo B) della rubrica, concernente la violazione delle norme in tema di abusivismo edilizio, dal quale era stato, invece, assolto il precedente imputato, per non aver commesso il fatto;il Tribunale li ha, pertanto, condannati il primo alla pena di euro 10.000,00 di ammenda ed il secondo alla pena di euro 5.000,00 di ammenda. In particolare D P F è stato ritenuto responsabile del reato di cui all'art. 256, comma 1, lettera a), del dlgs n. 152 del 2006, per avere, in qualità di legale rappresentante della DAF Sri, effettuato un'attività di gestione di rifiuti non autorizzata, consistente nella messa in riserva di rifiuti speciali non pericolosi derivanti dalla attività svolta dalla predetta società di demolizione e simili;il secondo invece era stato ritenuto responsabile della violazione dell'art. 44, comma 1, lettera a), del dPR n. 380 del 2001 per avere realizzato delle opere edili, consistenti in una pesa elettronica con platea impermeabilizzata in cemento armato e relativa recinzione, in assenza di permesso a costruire ed in zona che, per trovarsi entro la fascia di rispetto di 60 m dalla autostrada Milano Serravalle, non era suscettibile di essere edificata. Hanno interposto ricorso per cassazione i due imputati con separati atti. Il primo ricorrente ha sostenuto che la sentenza impugnata sia viziata in quanto il Tribunale non ha tenuto conto del fatto che in realtà non si sarebbe trattato altro che di un'attività di deposito, temporaneo penalmente irrilevante, dei residui delle opere di manutenzione eseguite dalla DAF. Il secondo ricorrente ha, invece, dedotto che il manufatto realizzato, data la sua natura, non necessitava di permesso a costruire e non vi erano elementi per affermare che lo stesso fosse stato fatto nella zona di rispetto autostradale prevista dal Codice della strada. CONSIDERATO IN DIRITTO I due ricorsi sono entrambi inammissibili.Quanto al primo, cioè quello di D P F, si rileva che è destituita di fondamento la tesi difensiva sostenuta dal ricorrente, secondo la quale i materiali da lui depositati, nella spiegata qualità di legale rappresentante della DAF Srl, non potevano essere qualificati, alla luce della normativa dì settore, come rifiuti. Osserva il Collegio la assoluta estraneità alla fattispecie ora in esame della normativa richiamata dal ricorrente, cioè, rispettivamente, l'art. 230 del dlgs n. 152 del 2006, il quale disciplina, nell'ambito delle speciali categorie di rifiuti di cui agli artt. 227 e ss del citato dlgs, quelli derivanti dalla manutenzione delle infrastrutture, per tali non potendosi ritenere i rifiuti derivanti della svolgimento della ordinaria attività di manutenzione edilizia svolta dalla DAF Srl, ma solo quelli derivante dalla manutenzione delle infrastrutture di rilevanza pubblica (per le quali effettivamente vige un criterio derogatorio in ordine alla individuazione del sito di deposito dei rifiuti in tal modo prodotti laddove gli stessi possano essere destinati al riutilizzo senza la necessità di alcun tipo di trattamento: cfr. Corte di cassazione, Sezione III penale, 9 maggio 2018, n. 20410), e l'art. 266, comma 4, del medesimo dlgs n. 152 del 2006, il quale, secondo la esegesi che ne ha dato il ricorrente, prevederebbe che, in caso di produzione di rifiuti derivanti dallo svolgimento della attività di manutenzione, anche edilizia, la qualifica di rifiuto ai materiali prodotti dalla attività predetta sarebbe predicato di essi solo una volta che gli stessi siano materialmente trasferiti dal luogo di loro produzione alla sede ovvero al domicilio del soggetto che ha svolto l'attività manutentiva;ove si desse credito a tale opzione ermeneutica si giungerebbe alla inaccettabile conseguenza che il produttore di rifiuti del genere in discorso potrebbe sia lasciarli sul luogo di produzione indefinitamente, in tal modo impedendo ai medesimi di acquisire la qualifica normativamente significativa di rifiuti, sia, addirittura, trasferirli, senza che gli stessi acquistino la qualifica di rifiuti, dal luogo di loro produzione verso un luogo diverso dalla sua sede o domicilio. Né può aderirsi alla tesi che nel caso di specie ci si trovi di fronte, come ipotizzato dal ricorrente, ad un semplice deposito temporaneo. Al riguardo va rilevato immediatamente come sia circostanza del tutto ininfluente il fatto, enfatizzato, invece da parte del ricorrente, che uno dei testi sentito in dibattimento - ancorché si sia trattato di un teste qualificato essendo uno degli agenti che hanno eseguito il sopralluogo da cui è scaturita la notizia di reato - abbia qualificato come deposito temporaneo l'accumulo di rifiuti contestato al Donzelli;invero, la natura schiettamente normativa e non naturalistica della qualificazione in questione rende la stessa esclusivo monopolio dell'Autorità giudiziaria, sicché in relazione ad essa i testi non sono abilitati ad esercitare alcun potere definitorio. Tanto rilevato va considerato che, siffatta figura ricorre, secondo la puntuale definizione che di essa è offerta dal dettato dell'art. 183, lettera bb), del dlgs n. 152 del 2006, solo in quanto, si tratti del raggruppamento dei rifiuti e del loro deposito preliminare alla raccolta ai fini del trasporto dei medesimi in un impianto di trattamento, effettuati, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti, purché ricorrano le condizioni minutamente elencate nella disposizione dianzi citata. Ciò posto, ribadito che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, per luogo di produzione del rifiuto va inteso non solo quello ove lo stesso è stato materialmente prodotto ma anche quello nella disponibilità del produttore che sia funzionalmente collegato al precedente (cfr. Corte di cassazione, Sezione VII penale, 27 aprile 2016, n. 17333;idem Sezione III penale, 20 febbraio 2013, n. 8061), incombendo sulla parte privata l'onere di dimostrare l'esistenza di siffatto collegamento (Corte di cassazione, Sezione III penale, 26 agosto 2016, n. 35494), va ricordato che fra le condizioni necessarie per la individuazione del deposito temporaneo vi è il divieto incondizionato di permanenza dei rifiuti nel sito di deposito per un periodo superiore all'anno ovvero, nel caso in cui gli stessi superino il volume dei 30 mc, al trimestre. Nel caso in esame, secondo quanto rilevato in sede di merito (e sostanzialmente confermato dal ricorrente) non solo i rifiuti erano stati trasferiti dai luoghi di loro produzione al terreno ove la loro presenza è stata riscontrata dagli agenti operanti, in assenza di qualsivoglia dichiarato vincolo funzionale fra il luogo di deposito e quello di produzione, ma i medesimi erano stati lasciati in situ ben oltre il termine legislativamente previsto affinché si possa parlare di solo deposito temporaneo;né, in questa sede, è, infine, eccepibile, trattandosi di circostanza di mero fatto, esclusa peraltro dal Tribunale in assenza di prova in ordine ad una legittima movimentazione di essi, che nel corso dei due accessi nel terreno ove i rifiuti erano stati collocati, avvenuti a distanza di circa sei mesi l'uno dall'altro, i rifiuti rinvenuti non fossero gli stessi rimasti immobili per tutto l'arco di tempo in questione. Il ricorso del D P F e, pertanto, inammissibile. Passando ora a scrutinare il ricorso di D A, rileva la Corte come anche questo sia inammissibile stante la sua manifesta infondatezza.Infatti la tesi difensiva del ricorrente trova come suo presupposto l'affermazione che la realizzazione della pesa elettronica di cui al capo di imputazione sia manufatto per la cui realizzazione non necessiti il permesso a costruire;tale tesi è stata argomentata dal ricorrente sulla base della tipologia del manufatto, definito "pavimentale", e ritenuta, pertanto, non soggetta a licenza amministrativa. Il predetto presupposto, tuttavia, è privo di fondamento;infatti, come questa Corte ha già in passato rilevato integra gli estremi della nuova costruzione anche la opera di pavimentazione di una area esterna scoperta, rientrando nel novero degli interventi di urbanizzazione secondaria ovvero in quello degli interventi infrastrutturali (Corte di cassazione, Sezione III penale, 18 novembri 2008, n. 42896). Ciò posto, correttamente il Tribunale ha rilevato la abusività del manufatto in questione posto che lo stesso, oltre ad essere stato edificato sebbene privo del permesso a costruire, era stato realizzato, come in sostanza riconosciuto dalla stesso ricorrente, in violazione delle distanze minime previste dall'art. 26, comma 2, del dPR n. 495 del 1992, recante il regolamento di esecuzione ed attuazione del nuovo codice della strada, per la edificazione dei manufatti latistanti i tratti stradali qualificabili come "Autostrade" ai sensi dell'art. 2, comma 2, lettera A), del dPR n. 285 del 1992 (Codice della strada). Anche il ricorso di D A, pertanto, va dichiarato inammissibile. Sulla base dei rilievi che precedono, i ricorsi devono, in definitiva, essere dichiarati ambedue inammissibili e, visto l'art. 616 cod. proc. pen., i ricorrenti vanno condannati al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2000,00 ciascuno in favore della Cassa delle ammende.
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