Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2020-10-08, n. 202005985

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2020-10-08, n. 202005985
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202005985
Data del deposito : 8 ottobre 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 08/10/2020

N. 05985/2020REG.PROV.COLL.

N. 03145/2010 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 3145 del 2010, proposto da
L M e S M R, rappresentati e difesi dall’avvocato E L ed elettivamente domiciliati in Roma, alla Via Lucio Papirio, n. 147;

contro

Comune di Terracina, in persona del Sindaco pro tempore , rappresentato e difeso dall’avvocato L V, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

nei confronti

D A, non costituita in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione staccata di Latina) n. 5 del 12 gennaio 2010, resa tra le parti, con la quale veniva respinto il ricorso per l'annullamento dell’ordinanza n. 351 del 21 aprile 1998, con la quale il Sindaco di Terracina aveva ingiunto ai ricorrenti di demolire una costruzione ritenuta abusiva sita in Terracina, alla Via Ceccaccio n. 97.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Terracina;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 29 settembre 2020 il Cons. R P e uditi per le parti gli avvocati Nessuno comparso;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. Con ricorso N.R.G. 723 del 1998, proposto innanzi alla Sezione staccata di Latina del T.A.R. del Lazio, gli odierni appellanti signori Lilliu e Scarselletti hanno chiesto l’annullamento del provvedimento comunale precedentemente indicato.

2. A sostegno della proposta impugnativa, hanno dedotto i seguenti argomenti di doglianza:

- violazione di legge per errata applicazione dell'art. 9 della legge 47/1985 e mancata applicazione, invece, dell'art. 4, comma 13, del decreto legge 398/1993, convertito in legge 493/1993, come sostituito dall'art. 2, comma 60, della legge 662/1996;

- eccesso di potere per errata rappresentazione della realtà e travisamento dei fatti;

- violazione di legge per errata applicazione dell'art. 9 della legge 47/1985 e mancata applicazione, invece, dell'art. 10 della stessa legge in relazione agli artt. 31 e 48 della legge 47/1985, come integrati dall'art. 7 del decreto legge 9/1982;

- violazione di legge ed eccesso di potere per errata applicazione dell'art. 9 della legge 47/1985 e mancata applicazione, invece, della disposizione dell'art. 12 della stessa legge, nonché carenza del presupposto o condizione di eliminabilità di cui al secondo comma del predetto art. 12;

- violazione di legge per errata applicazione del comma 1 dell'art. 9 della legge 47/1985 e mancata applicazione, invece, del comma 2 dello stesso art. 9.

3. Costituitasi l’Amministrazione comunale intimata, il Tribunale ha respinto il ricorso, con compensazione delle spese di lite.

4. In particolare, il Tribunale ha ritenuto che:

- gli interventi edilizi posti in essere dai ricorrenti, rientrando nell'ambito di una vera e propria “ristrutturazione edilizia” (e non essendo, invece, qualificabili come “manutenzione straordinaria”, “restauro” o “risanamento conservativo”), necessitassero di permesso di costruire;

- i ricorrenti stessi non avrebbero provato, inoltre, che l’eventuale demolizione delle opere ritenute abusive non sarebbe potuta avvenire senza pregiudizio per la restante parte dell’edificio conforme alle norme urbanistiche.

5. Avverso tale pronuncia, veniva interposto appello, notificato il 22 marzo 2010 e depositato il successivo 13 aprile.

Con esso, si sostiene che avrebbe errato il Tribunale nel ritenere che le opere realizzate consistano in una “ristrutturazione edilizia” e non in un restauro e/o risanamento conservativo, atteso che esse (come illustrato dai rilievi planimetrici depositati in atti nel corso del giudizio di prime cure):

- non hanno dato vita ad un organismo edilizio nuovo, ma hanno lasciato praticamente inalterato quello preesistente;

- non hanno comportato aumento di unità immobiliari, ma solo la diversa distribuzione di quelle preesistenti;

- non hanno apportato all'immobile preesistente modifiche volumetriche, di sagoma, dei prospetti e delle superfici (eccezion fatta per la limitatissima superficie creata da una piccola tettoia da considerarsi elemento accessorio alla struttura preesistente).

Soggiungono gli appellanti che, dovendo adibire ad abitazione familiare un immobile risalente ad epoca anteriore al 1967, hanno proceduto ad introdurre o eliminare elementi accessori od impianti in ragione delle mutate esigenze d'uso, senza alterazione alcuna della tipologia dell'immobile stesso (già adibito in parte a magazzino ed in parte a civile abitazione, seppur con una diversa distribuzione degli ambienti interni), lasciandone immutata la struttura preesistente.

Sarebbe quindi errata l’affermazione, relativa ad un rilevante aumento di superficie-cubatura, evincibile dal testo dell'ordinanza impugnata, atteso che tale circostanza sarebbe confutata proprio dal contenuto del medesimo provvedimento (laddove la superficie complessiva dell'immobile preesistente sarebbe stata indicata in misura pari a circa mq. 152, mentre la superficie dell'immobile “ampliato” si ragguaglierebbe a circa mq. 160: dovendosi, quindi, ritenere che le due superfici siano praticamente identiche, con conferma anche della inalterata destinazione d'uso ad abitazione e magazzino).

Conseguentemente, le opere realizzate dai signori Lilliu e Scarselletti non avrebbero dovuto essere assistite dal rilascio di concessione edilizia, atteso che gli interventi posti in essere necessitavano della sola autorizzazione ai sensi degli artt. 31 e 48 della legge 457 del 1978, così come integrata dall'art. 7 del decreto legge 9/1982, convertito in legge 94 del 1982 (autorizzazione, peraltro, richiesta dai ricorrenti in prime cure e rilasciata dal Comune di Terracina).

In ogni caso, gli interventi realizzati – laddove possa predicarsene il carattere abusivo – avrebbero dovuto essere assoggettati alle meno gravi sanzioni pecuniarie previste dall'art. 37 del Testo Unico dell’Edilizia (anteriormente, dall’art. 4 della legge 493 del 1993) nel caso di opere eseguite in assenza della denuncia di inizio attività, e dall'art. 10 della legge 47 del 1985, ma non alla più grave sanzione della demolizione.

6. In data 25 febbraio 2020, l’Amministrazione comunale appellata si è costituita in giudizio.

Ed ha sostenuto:

- in primo luogo, l’inammissibilità dell’appello, in quanto recante la mera riproposizione delle doglianze già avanzate in primo grado, senza alcuna nuova argomentazione e/o critica alla decisione del giudice di prime cure;

- nel merito, l’infondatezza delle argomentazioni esposte dagli appellanti;

con conseguente richiesta di declaratoria di inammissibilità, ovvero, subordinatamente, di rigetto del proposto mezzo di tutela.

7. L’appello viene trattenuto per la decisione alla pubblica udienza del 29 settembre 2020.

DIRITTO

1. Non merita favorevole considerazione l’eccezione di inammissibilità del proposto mezzo di tutela, come sopra formulata dall’appellata Amministrazione comunale di Terracina.

1.1 Nell’atto introduttivo del giudizio, parte appellante ha rappresentato che:

- “la motivazione principale che il T.A.R. di Latina ha posto a fondamento del rigetto del precedente ricorso risiede essenzialmente nella considerazione che le opere realizzate dai ricorrenti consistano in una vera e propria “ristrutturazione edilizia” e non, come invece da noi affermato, in un restauro e/o risanamento conservativo”;

- “la valutazione del T.A.R. appare tuttavia alquanto superficiale ed approssimativa, in relazione alla effettiva portata dei lavori posti in essere dai ricorrenti, e ben lontana dal considerare adeguatamente la loro effettiva entità tra l'altro ben documentata dagli allegati tecnici in atti”.

Anche di seguito, parte appellante risulta aver indirizzato le svolte argomentazioni difensive:

- non soltanto (ancorché precipuamente) nei confronti dell’ordinanza comunale impugnata in prime cure, riproducendo le doglianze in tale sede articolate;

- ma anche avverso la decisione appellata;
laddove (cfr. pag. 6 dell’atto introduttivo), leggesi che “occorre evidenziare un particolare aspetto che il T.A.R. pare non abbia tenuto nella dovuta considerazione (ed anzi pare sia stato del tutto fuorviante ai fini del giudizio finale) e cioè il fatto che anche nell'ordinanza sindacale n. 351/98 di sospensione e demolizione originariamente impugnata vengono espressamente indicate sia la superficie originaria dell'immobile preesistente e sia la superficie dell'immobile, per così dire, “ampliato” dopo gli interventi operati dai ricorrenti e ritenuti “abusivi”.

1.2 Per completezza espositiva, va precisato come il percorso motivazionale della pronunzia appellata:

- nell’evidenziare i tratti differenzianti la ristrutturazione edilizia rispetto agli interventi di manutenzione straordinaria e di restauro o risanamento conservativo,

- abbia dato conto che “l'intervento di trasformazione eseguito dal ricorrente non può ascriversi ad un intervento del tipo di quello descritto, ove si tenga conto del consistente ampliamento dei manufatti esistenti, nonché delle rilevanti modifiche introdotte nel corpo dell'organismo originario, che hanno condotto alla realizzazione di una nuova e più estesa struttura muraria, sull'intera area occupata dal vecchio manufatto e dalla nuova costruzione”;

- ed escluso che “nella specie sia stato conservato l'organismo originario, nel rispetto dei suoi preesistenti elementi tipologici, formali e strutturali”, come confermato dagli stessi ricorrenti, laddove “affermano (pag. 6 del ricorso) che le difformità riscontrate dall'amministrazione sussistono, ancorché le stesse “non sono giuridicamente rilevanti”.

La stessa sentenza n. 5/2010, peraltro, si è data carico di confutare “le ragioni in base alle quali le contestate difformità sarebbero pressoché totalmente insussistenti e … la struttura dell'opera escluderebbe una demolizione “senza pregiudizio” per la restante parte dell'edificio”: in proposito, escludendo che i ricorrenti abbiano soddisfatto l’onere probatorio, sui medesimi incombente, circa l’impossibilità di ripristino delle parti di opera difformi rispetto alla concessione edilizia senza pregiudizio delle parti conformi.

1.3 Ciò osservato, il raffronto fra il precipitato motivazionale dell’appellata sentenza ed il contenuto dell’atto di appello, consente di escludere che quest’ultimo si sia risolto nella mera riedizione delle censure articolate in prime cure;
e che il medesimo non rechi critica alcuna nei confronti della gravata pronunzia del T.A.R. di Latina.

Va rammentato come la giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. ex multis, Sez. V, 20 marzo 2020, n. 1987), abbia affermato che il “principio di specificità dei motivi di impugnazione, posto dall'art. 101, comma 1, c.p.a., impone che sia rivolta una critica puntuale alle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, non essendo sufficiente la mera riproposizione dei motivi contenuti nel ricorso introduttivo;
il giudizio di appello dinanzi al giudice amministrativo, infatti, si presenta come revisio prioris instantiae i cui limiti oggettivi sono segnati dai motivi di impugnazione”.

Analogamente, Cons. Stato, Sez. V, 11 dicembre 2019, n. 8415 ha ribadito che il ricorso in appello deve necessariamente contenere “ le specifiche censure contro i capi della sentenza gravata ”: integrando “ specifico onere dell’appellante formulare una critica puntuale della motivazione della sentenza impugnata, atteso che l’appello al Consiglio di Stato non si può limitare a una generica riproposizione dei motivi di ricorso disattesi dal giudice di primo grado, ma deve contenere una critica obiettiva ai capi di sentenza appellati (di recente, Cons. Stato, IV, 10 settembre 2018, n. 5294;
III, 26 gennaio 2018, n. 570)”.

1.4 Nell’osservare come l’appello all’esame, ancorché contenutisticamente “sbilanciato” sulla critica al provvedimento gravato in prime cure, nondimeno rechi sufficienti elementi assertivi in ordine all’affermata erroneità dell’apprezzamento che ha condotto alla pronunzia della contestata sentenza, deve escludersi la fondatezza della eccezione all’esame.

2. Nel merito, nondimeno, il ricorso è infondato.

2.1 L’autorizzazione rilasciata – e, quindi, rinnovata – nei confronti del sig. Pecchia Sandro (precedente proprietario dell’immobile) riguardava lavori di manutenzione ad una stalla, ad una piccola abitazione e ad un magazzino, per una superficie completa di mq. 120 circa ed un’altezza interna di circa mt. 3, oltre che ad un deposito attrezzi e ad un porticato, per ulteriori mq. 32 circa ed un’altezza massima di mt. 3 e minima di mt. 2.

Risulta invece realizzato (e, in punto di fatto, tale rilievo non viene smentito dalla parte appellante) un ampliamento di superficie, portata a complessivi mq. 160 (con altezza di circa mt. 3,20), dei quali mq. 40 adibiti a magazzino e mq. 120 ad uso residenziale.

2.2 La disciplina dettata dall’art. 31 della legge 5 agosto 1978, n. 457 ( ratione temporis applicabile alla fattispecie all’esame), prevedeva che “gli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente sono così definiti:

a) interventi di manutenzione ordinaria, quelli che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti;

b) interventi di manutenzione straordinaria, le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso;

c) interventi di restauro e di risanamento conservativo, quelli rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio;

d) interventi di ristrutturazione edilizia, quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistemativo di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, la eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti;

e) interventi di ristrutturazione urbanistica, quelli rivolti a sostituire l'esistente tessuto urbanistico-edilizio con altro diverso mediante un insieme sistematico di interventi edilizi anche con la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale”.

Omogenea latitudine individuativa, nel raffronto sinottico dei due testi di legge, rivela la qualificazione degli interventi “di ristrutturazione edilizia”, qualificati (dall’art. 10, lettera c), del D.P.R. 380 del 2001) come quelli “che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso”.

2.3 Da tale quadro normativo allora vigente è evidente, dunque, la correttezza della qualificazione dell’intervento operata dalla Amministrazione, come intervento di ristrutturazione edilizia realizzato in assenza del prescritto titolo edilizio.

A tale fine, rileva l’incremento della superficie dell’immobile (ancorché quantitativamente modesto), nonché della volumetria (agevolmente argomentabile, ove si consideri l’innalzamento dell’altezza del corpo di fabbrica, portato da mt. 3 a mt. 3,20).

Ne deriva, dunque, la correttezza della qualificazione dell’intervento da parte del Comune;
e, ulteriormente, la condivisibilità della motivazione sul punto esternata nell’appellata sentenza.

Sulla base di tale qualificazione, il provvedimento conseguente era appunto la demolizione di tutte le opere abusivamente realizzate;
e ciò in considerazione del disposto di cui al comma 1 dell’art. 9 della legge 28 febbraio 1984, n. 47 (oggi, sostituito dell’art. 33 del D.P.R. 380 del 2001), in base al quale “le opere di ristrutturazione edilizia, come definite dalla lettera d) del primo comma dell'art. 31 della legge 5 agosto 1978, n. 457, eseguite in assenza di concessione o in totale difformità da essa, sono demolite ovvero rimosse e gli edifici sono resi conformi alle prescrizioni degli strumenti urbanistico-edilizi entro il termine stabilito dal sindaco con propria ordinanza, decorso il quale l'ordinanza stessa è eseguita a cura del comune e a spese dei responsabili dell'abuso”.

3. Quanto, poi, alla censura con la quale parte appellante contesta che l’Amministrazione abbia omesso di verificare che l’adottata misura ripristinatoria, ove eseguita, avrebbe potuto arrecare pregiudizio alla restante parte dell’edificio, si osserva che:

- se la demolizione costituisce la ordinaria misura di reazione dell’ordinamento all’abuso edilizio;

- l'applicazione della sanzione pecuniaria sostitutiva, disciplinata (ora dall’art. 33, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001;
e, ratione temporis) dal citato art. 9 della legge 47 del 1985, rappresenta solo un’ipotesi subordinata alla quale si può fare ricorso quando emergano difficoltà tecniche in sede di esecuzione della demolizione: con la conseguenza che la mancata valutazione della possibile applicazione della sanzione pecuniaria sostitutiva non può costituire un vizio dell’ordine di demolizione (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 10 novembre 2017, n. 5180;
Sez. II, 4 luglio 2019, n. 4588).

Come recentemente osservato da questa Sezione (cfr. sentenza 20 gennaio 2020, n. 463), “ la sanzione pecuniaria … può essere adottata dall’Amministrazione esclusivamente nel caso in cui sia oggettivamente impossibile procedere alla demolizione e, quindi, soltanto qualora risulti in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso senza che, pertanto, possano venire in rilievo aspetti relativi all'eccessiva onerosità dell'intervento ”.

La norma richiede infatti, a fini applicativi, “ la sussistenza di alcuni presupposti, tra cui proprio la previa emanazione dell’ordine di demolizione, l’istanza tempestiva del destinatario dell’ordine ed un motivato accertamento dell’ufficio tecnico comunale sulla impossibilità materiale di ripristinare lo stato dei luoghi, configurabile soltanto quando la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso legittimamente realizzato ” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 15 maggio 2019, n.3138; id ., sez. VI, 17 maggio 2017, n. 2347).

Nel caso di specie, tali presupposti applicativi non ricorrono: e per altro verso, incombeva sui contravventori – odierni appellanti – l’onere di provare la sussistenza della detta situazione, nella fattispecie non assolto.

4. La rilevata infondatezza delle doglianze articolate con il presente mezzo di tutela ne impone la reiezione.

Le spese di lite seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

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