Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2022-11-25, n. 202210400

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2022-11-25, n. 202210400
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202210400
Data del deposito : 25 novembre 2022
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 25/11/2022

N. 10400/2022REG.PROV.COLL.

N. 07230/2020 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7230 del 2020, proposto da
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato A O, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Ministero dell'Interno, Ufficio Territoriale del Governo Napoli, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania (Sezione Quinta) n. -OMISSIS-, resa tra le parti;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno e di Ufficio Territoriale del Governo Napoli;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 novembre 2022 il Pres. Michele Corradino e viste le conclusioni delle parti come da verbale di udienza;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. Con decreto emesso e notificato in data -OMISSIS-, la Prefettura di Napoli ha vietato al signor -OMISSIS- la detenzione di armi, munizioni e materiale esplodente ai sensi dell’art. 39 R.D. n. 773 del 1931, sul rilievo che l’interessato era stato deferito all’Autorità Giudiziaria per i reati di accensioni ed esplosioni pericolose, previsto all’art. 703 c.p., e danneggiamento, di cui all’art. 635 c.p., per aver esploso, in diverse occasioni ed a scopo intimidatorio, colpi di fucile in aria, attingendo abitazioni limitrofe, nonché per i reati puniti dagli artt. 697 c.p. e 20-bis l. n. 110 del 1975, per aver detenuto munizioni eccedenti quelle dichiarate e custodito le armi in dotazione, alcune con numero di matricola irregolare, non ottemperando alle cautele necessarie.

2. Con ricorso -OMISSIS-, proposto al Tar Campania, l’interessato ha impugnato il citato provvedimento ed il verbale del ritiro cautelare delle armi -OMISSIS-, redatto dalla Stazione dei Carabinieri di -OMISSIS-, che, con nota pervenuta alla Prefettura il successivo -OMISSIS-, aveva proposto l’adozione del decreto inibitorio.

Il signor -OMISSIS- ha dedotto: a) l’eccesso di potere per violazione del principio di proporzionalità, l’irragionevolezza, il travisamento dei fatti e la violazione dell’art. 39 R.D. n. 773 del 1931;
b) il difetto di motivazione e di istruttoria;
c) la violazione dell’art. 11 R.D. n. 773 del 1931.

3. Il Tar Campania, sezione V, con sentenza -OMISSIS-, pronunciata a norma dell’art. 60 c.p.a., ha respinto il ricorso.

4. Con appello notificato -OMISSIS- e depositato -OMISSIS-, è stata impugnata detta sentenza del Tar Campania, sezione V, insistendo per l’accoglimento dei motivi prospettati tramite il ricorso introduttivo, ponendoli in chiave critica rispetto all’avversata pronuncia, lamentando, in primo luogo, l’illogicità della motivazione, la violazione degli artt. 11, 39 e 43 R.D. n. 773 del 1931 e l’eccesso di potere. Il giudice di prime cure, ritenendo legittima la valutazione di inaffidabilità espressa dalla Prefettura, avrebbe ignorato il peculiare contesto nel cui ambito si sono consumate le condotte per le quali l’odierno appellante era stato deferito, considerato che i colpi di fucile sarebbero stati esplosi, verso la campagna disabitata ed in orario notturno, per respingere un tentativo di furto in atto presso la sua abitazione e che la violazione punita dall’art. 20-bis l. n. 110 del 1975, contestata dai Carabinieri nel verbale del ritiro cautelare delle stesse, potrebbe giustificarsi proprio alla luce di quanto accaduto soltanto poche ora prima del sopralluogo eseguito dalle forze dell’ordine. Il provvedimento reso dalla Prefettura, inoltre, non terrebbe conto della personalità del soggetto, incensurato e -OMISSIS-, e sarebbe stato emesso non ricorrendo i necessari presupposti di cui all’art. 11 R.D. n. 773 del 1931 ed in assenza di adeguata motivazione circa il mutato convincimento da parte dell’autorità, che, -OMISSIS-, aveva rilascio all’interessato un porto di fucile per uso tiro a volo.

Con il secondo motivo, l’appellante ha censurato la violazione degli artt. 7 e 10-bis l. n. 241 del 1990, non avendo l’amministrazione inviato la comunicazione dell’avvio del procedimento, con conseguente pregiudizio delle garanzie partecipative riconosciute dalla legge.

5. Si sono costituiti in giudizio il Ministero dell’Interno e la Prefettura di Napoli.

6. All’udienza pubblica del 10 novembre 2022, la causa è stata trattenuta per la decisione.

DIRITTO

1. L’appello deve essere respinto e non merita accoglimento, per infondatezza del primo motivo di ricorso ed inammissibilità, stante il divieto di nova, del secondo.

2. La materia del divieto di detenzione di armi, munizioni e materiale esplodente è disciplinata all’art. 39 di cui al R.D. 18 giugno 1931, n. 773. Il legislatore nella materia de qua affida all’Autorità di pubblica sicurezza la formulazione di un giudizio di natura prognostica in ordine alla possibilità di abuso delle armi, da svolgersi con riguardo alla condotta ed all’affidamento che il soggetto richiedente può dare.

Il potere di rilasciare le licenze per porto d’armi o per detenzione delle stesse costituisce una deroga al divieto sancito dall’art. 699 c.p. e dall’art. 4, comma 1, l. n. 110/1975.

La regola generale è, pertanto, il divieto di detenzione delle armi, al quale l’autorizzazione di polizia può derogare in presenza di specifiche ragioni ed in assenza di rischi anche solo potenziali, che è compito dell’Autorità di pubblica sicurezza prevenire.

La Corte Costituzionale, sin dalla sentenza del 16 dicembre 1993, n. 440, ha affermato che «il porto d’armi non costituisce un diritto assoluto, rappresentando, invece, una eccezione al normale divieto di portare le armi, che può divenire operante soltanto nei confronti di persone riguardo alle quali esista la perfetta e completa sicurezza circa il buon uso delle armi stesse».

Il Giudice delle leggi ha osservato, altresì, che «dalla eccezionale permissività del porto d’armi e dai rigidi criteri restrittivi regolatori della materia deriva che il controllo dell’autorità amministrativa deve essere più penetrante rispetto al controllo che la stessa autorità è tenuta ad effettuare con riguardo a provvedimenti permissivi di tipo diverso, talora volti a rimuovere ostacoli e situazioni giuridiche soggettive di cui sono titolari i richiedenti».

Proprio in ragione dell’inesistenza, nell’ordinamento costituzionale italiano, di un diritto di portare armi, il Giudice delle leggi ha aggiunto, nella sentenza del 20 marzo 2019, n. 109, che «deve riconoscersi in linea di principio un ampio margine di discrezionalità in capo al legislatore nella regolamentazione dei presupposti in presenza dei quali può essere concessa al privato la relativa licenza, nell’ambito di bilanciamenti che - entro il limite della non manifesta irragionevolezza - mirino a contemperare l’interesse dei soggetti che richiedono la licenza di porto d’armi per motivi giudicati leciti dall’ordinamento e il dovere costituzionale di tutelare, da parte dello Stato, la sicurezza e l’incolumità pubblica: beni, questi ultimi, che una diffusione incontrollata di armi presso i privati potrebbe porre in grave pericolo, e che pertanto il legislatore ben può decidere di tutelare anche attraverso la previsione di requisiti soggettivi di affidabilità particolarmente rigorosi per chi intenda chiedere la licenza di portare armi».

La giurisprudenza, riprendendo i principi espressi dalla Corte Costituzionale, è consolidata nel ritenere che il porto d’armi non costituisce oggetto di un diritto assoluto, rappresentando invece un’eccezione al normale divieto di detenere armi e potendo essere riconosciuto solo a fronte della perfetta e completa sicurezza circa il loro buon uso, in modo da scongiurare dubbi o perplessità, sotto il profilo prognostico, per l’ordine pubblico e per la tranquilla convivenza della collettività (cfr., ex multis, Cons. St., Sez. III, 25 marzo 2019, n. 1972;
Cons. St., Sez. III, 7 giugno 2018, n. 3435).

Il giudizio che compie l’Autorità di pubblica sicurezza è espressione di una valutazione ampiamente discrezionale, che presuppone una analisi comparativa dell’interesse pubblico primario, degli interessi pubblici secondari, nonché degli interessi dei privati, oltre che un giudizio di completa affidabilità del soggetto istante basato su rigorosi parametri tecnici.

Nello specifico settore delle armi, tale valutazione comparativa si connota in modo peculiare rispetto al giudizio che tradizionalmente l’Amministrazione compie nell’adottare provvedimenti permissivi di tipo diverso. La peculiarità deriva dal fatto che, stante l’assenza di un diritto assoluto al porto d’armi, nella valutazione comparativa degli interessi coinvolti assume carattere prevalente, nella scelta selettiva dell’Amministrazione, quello di rilievo pubblico, inerente alla sicurezza e all’incolumità delle persone, rispetto a quello del privato, tanto più nei casi di impiego dell’arma per attività di diporto o sportiva.

L’apprezzamento discrezionale rimesso all’Autorità di pubblica sicurezza involge soprattutto il giudizio di affidabilità del soggetto che detiene o aspira a ottenere il porto d’armi. A tal fine, l’Amministrazione è chiamata a compiere una valutazione tecnica in ordine al pericolo di abuso delle armi, che deve essere desunta da elementi non meramente immaginari o aleatori. Il pericolo di abuso delle armi è valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipico dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sì da far ritenere “più probabile che non” il pericolo di abuso delle armi.

È in questa prospettiva, anticipatoria della difesa della legalità, che si collocano i provvedimenti con cui l’Autorità di pubblica sicurezza vieta la detenzione di armi, ai quali infatti viene riconosciuta natura cautelare e preventiva (ex multis, Cons. St., sez. III, 2 dicembre 2021, n. 8041). Ne è prova il costante orientamento di questa Sezione, secondo cui l’inaffidabilità all’uso delle armi è idonea a giustificare il ritiro della licenza, addirittura senza che occorra dimostrarne l’avvenuto abuso (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2017, n. 1814).

Tale esegesi è peraltro confermata sul piano legislativo dalla formulazione dell’art. 39 del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, laddove, nel prevedere che «il Prefetto ha facoltà di vietare la detenzione delle armi, munizioni e materie esplodenti, denunciate ai termini dell’articolo precedente, alle persone ritenute capaci di abusarne», considera sufficiente l’esistenza di elementi che fondino solo una ragionevole previsione di un uso inappropriato.

Delineata in questi termini la natura latamente discrezionale dei provvedimenti de quibus, occorre indagare le implicazioni che da essa derivano sul piano dell’intensità del sindacato giurisdizionale.

È noto che dal tradizionale approccio del giudizio amministrativo, teso ad escludere ogni forma di sindacato sulla attività discrezionale, si è passati alla possibilità di riconoscere la piena cognizione dei fatti oggetto dell’indagine e del percorso intellettivo e volitivo seguito dall’Autorità amministrativa, con il solo limite dell’ottica del merito, preclusa al giudice, e comunque del sindacato non sostitutivo. Solo in questo modo, infatti, si garantisce il principio di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale, imposto dall’art. 113 Cost.

Consegue che la natura dei provvedimenti in esame non esclude né può legittimare un indebolimento del sindacato giurisdizionale. Al contrario, quanto più si estendono le maglie della discrezionalità dell’Autorità amministrativa, tanto più è necessario un sindacato penetrante da parte del giudice amministrativo volto ad evitare che sotto il mantello della discrezionalità possa celarsi un esercizio arbitrario della funzione amministrativa.

In questa logica, si pone del resto la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato che, sia pur con riferimento alla discrezionalità tecnica delle Autorità amministrative indipendenti, ha affermato che la tutela giurisdizionale, per essere effettiva, non può limitarsi ad un sindacato meramente estrinseco, teso a riscontrare vizi di manifesta illogicità e incongruenza, ma deve consentire al giudice un controllo intrinseco, attraverso la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato e il controllo sull’attendibilità tecnica della valutazione compiuta dall’Amministrazione, salvo il limite rappresentato dall’oggettivo margine di opinabilità (ex multis, Cons. St., sez. VI, 10 dicembre 2014, n. 6050).

A maggior ragione, una forma penetrante di sindacato si impone a fronte di un’attività amministrativa che vede una scelta di opportunità afferente alla valutazione dei requisiti di legge. Anche qui la tutela giurisdizionale piena ed effettiva richiede un sindacato del giudice amministrativo pieno e particolarmente penetrante, che può estendersi sino al controllo dell’analisi dei fatti posti a fondamento del provvedimento, al fine di verificare se il potere attribuito all’Autorità amministrativa sia stato correttamente esercitato o presenti elementi di irragionevolezza o di erronea assunzione dei fatti.

Nel caso di specie, il giudice amministrativo è chiamato a valutare la consistenza dei fatti posti a fondamento della determinazione dell’Autorità prefettizia in ordine all’esistenza dei requisiti di legge e al pericolo di abuso delle armi, di modo che il suo sindacato sull’esercizio della funzione amministrativa consenta non solo di vagliare l’esistenza o meno di questi fatti, ma di apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l’autorità amministrativa trae da essi secondo un criterio che, necessariamente, è probabilistico per la natura preventiva – e non sanzionatoria – della misura in esame.

In questa prospettiva, si chiede al giudice una valutazione sull’esercizio del potere amministrativo che, muovendo da un accesso pieno ai fatti rivelatori del pericolo, ne dimostri la ragionevolezza e la proporzionalità.

È opportuno rilevare che il principio di proporzionalità - compreso tra i principi di diritto europeo, ma già insito nella Costituzione, quale corollario del buon andamento ex art. 97 Cost. - si compone di tre elementi: idoneità, necessarietà e proporzionalità in senso stretto. È idonea la misura che permette il raggiungimento del fine, il conseguimento del risultato prefissato. La misura deve essere poi necessaria, vale a dire l’unica possibile per il raggiungimento del risultato prefissato. La proporzionalità in senso stretto richiede, invece, che la scelta amministrativa non rappresenti un sacrificio eccessivo nella sfera giuridica del privato.

Il principio di ragionevolezza postula, invece, una coerenza tra la valutazione compiuta dall’Amministrazione e la decisione assunta.

3. Alla luce di quanto fin qui esposto e dei fatti valorizzati dal provvedimento gravato in primo grado, ritiene il Collegio che la prognosi inferenziale compiuta dalla Prefettura di Napoli resista al vaglio di questo giudice.

La valutazione negativa di affidabilità compiuta dall’amministrazione è stata legittimamente ancorata a fatti che giustificano la prognosi di possibile abuso delle armi ed è il risultato del ragionevole apprezzamento delle circostanze conosciute - pochi giorni prima dell’emanazione del provvedimento - attraverso la nota dei Carabinieri di -OMISSIS-, ricevuta in data -OMISSIS-, con la quale era stata proposta l’emissione del divieto di detenzione di armi e munizioni reso -OMISSIS-.

La suddetta richiesta era stata motivata dal deferimento dell’interessato per diverse violazioni della legge penale direttamente attinenti la materia delle armi.

Ai fini del giudizio sulla capacità di farne buon uso, infatti, risulta significativa la denuncia nei confronti dell’odierno appellante per aver esploso in aria colpi di fucile, attingendo le abitazioni limitrofe. Tale condotta costituisce elemento ragionevolmente apprezzato dall’amministrazione in considerazione del pericolo per l’incolumità pubblica e privata che ne è derivato e del fatto che, comunque, il soggetto non avrebbe potuto porla in essere, essendo in possesso di un porto d’armi per uso tiro a volo e non per difesa personale.

Peraltro, la circostanza per cui siffatta condotta sarebbe stata una mera reazione ad un tentativo di furto presso l’appartamento condiviso dall’odierno appellante con -OMISSIS- non trova adeguato riscontro, non essendovi in atti alcuna denuncia dell’accaduto, malgrado egli abbia prodotto dinanzi al Tar diverse querele per episodi di rapina patiti nell’esercizio della sua attività lavorativa, inconferenti ai fini del presente giudizio. L’asserito tentativo di furto, rileva il Collegio, non risulta dal verbale redatto dalla Stazione dei Carabinieri di -OMISSIS-, ove è indicato che il controllo alla base dell’emanazione del provvedimento impugnato è stato originato dalle segnalazioni di spari nella zona e non da una richiesta di intervento proveniente dall’interessato.

A prescindere dalle contestazioni di cui sopra, le ulteriori violazioni per cui vi è stata denuncia sono indici altrettanto pregnanti della congruità del giudizio di inaffidabilità a norma dell’art. 39 R.D. n. 773 del 1931. Ragionevolmente, la Prefettura ha ritenuto rilevante la contestata violazione di cui all’art. 20-bis l. n. 110 del 1975, non potendosi giustificare con l’affermazione secondo cui sarebbe stata riscontrata poche ore dopo il tentato furto, del quale, come detto, non si hanno evidenze. In ogni caso, cioè che rileva è che le armi detenute dall’interessato sono state rivenute nella sua abitazione all’interno di cassettiere e armadi, liberamente accessibili a terzi ed in mancanza di qualsivoglia sistema di sicurezza.

In aggiunta, due tra le pistole rinvenute ed uno dei fucili detenuti presentavano un numero di matricola diverso da quello registrato, circostanza meritevole di particolare considerazione, poiché suscettibile di pregiudicare anche la corretta sorveglianza sulle armi da parte dell’autorità di pubblica sicurezza, ed inoltre l’odierno appellante è stato trovato in possesso di munizioni in misura maggiore rispetto a quanto dichiarato.

In considerazione delle circostanze menzionate, pertanto, non colgono nel segno le censure difensive volte a valorizzare lo stato di incensurato del soggetto. Il giudizio alla base di tale provvedimento inibitorio non è - infatti - un giudizio di pericolosità sociale bensì un giudizio prognostico sull’affidabilità del soggetto e sull’assenza di rischio di abusi, per certi versi più stringente del primo, atteso che, come detto, il divieto può fondarsi anche su situazioni che non hanno dato luogo a condanne penali ovvero a misure di pubblica sicurezza, (Cons. Stato, sez. III, 22 maggio 2019, n. 3337;
7 marzo 2016, n. 922;
id. 12 giugno 2014, n. 2987).

Ne discende che la mancanza di precedenti penali non potrebbe, per sé sola e nella sussistenza di ulteriori e diversi ragioni per dubitare della buona condotta del soggetto secondo i paramenti di cui agli artt. 11, 39 e 43 R.D. n. 773 del 1931, sussistenti nella fattispecie all’esame, condurre ad un giudizio positivo di affidabilità.

Pertanto, il provvedimento questorile risulta legittimamente emesso, essendo parimenti inconferente il richiamo che l’appello riserva alle ipotesi, individuate dall’art. 11 R.D. n. 773 del 1931, di diniego o revoca delle autorizzazioni di polizia in presenza di determinate sentenze penali di condanna, poiché il provvedimento all’esame trova fondamento, come si evince dalla lettura dello stesso, non già nei pregiudizi penali ascrivibili all’istante, soggetto incensurato, bensì nel giudizio di inaffidabilità del predetto reso ai sensi dell’art. 39 R.D. n. 773 del 1931, norma correttamente applicata dall’amministrazione.

4. Con riguardo al secondo dei motivi di appello, il Collegio ne rileva l’inammissibilità, poiché il ricorso introduttivo non ha eccepito l’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento.

Il Collegio non può procedere all’esame delle censure relative alla violazione degli artt. 7 e 10-bis, l. n. 241 del 1990, essendo stata tale questione prospettata soltanto in questo grado di giudizio. Il divieto dei nova, previsto all’art. 104, comma 1, c.p.a., esclude che possano essere introdotti - per la prima volta nel giudizio di secondo grado - profili di doglianze, in fatto e in diritto, ulteriori rispetto a quelli che hanno delimitato in prime cure il perimetro del thema decidendum (ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, n. 1130 del 2016;
sez. V, n. 5865 e 5858 del 2015, sez. V, n. 673 del 2015). Peraltro, la censura è comunque infondata, risultando in atti l’avvenuta comunicazione di avvio del procedimento in data -OMISSIS-.

5. Per le suesposte ragioni l’appello deve essere respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.

6. Sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese del giudizio.

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