Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2019-02-07, n. 201900910

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2019-02-07, n. 201900910
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201900910
Data del deposito : 7 febbraio 2019
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 07/02/2019

N. 00910/2019REG.PROV.COLL.

N. 02802/2013 REG.RIC.

N. 06414/2017 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2802 del 2013, proposto dalla signora -OMISSIS-, rappresentata e difesa dagli avvocati I Z e F G C, con domicilio eletto presso il signor G Z in Roma, viale Eritrea, n. 36;

contro

il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore , rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso cui domicilia ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;



sul ricorso numero di registro generale 6414 del 2017, proposto dalla signora -OMISSIS-, rappresentata e difesa dall'avvocato F G C, con domicilio eletto presso lo studio del difensore, in Roma, via Marianna Dionigi, n. 29;

contro

il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso cui domicilia ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

per la riforma

quanto al ricorso n. 2802 del 2013:

della sentenza del TAR per la Puglia, Sezione Staccata di Lecce, n. 54 del 2013,

quanto al ricorso n. 6414 del 2017:

della sentenza del TAR per la Puglia, Sezione Staccata di Lecce, n. 250 del 2017.


Visti i ricorsi in appello con i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia;

Visti gli atti tutti delle cause;

Relatore alla pubblica udienza del giorno 20 dicembre 2018 il Cons. S M;

Uditi, per le parti rispettivamente rappresentate, l’avvocato Ugo De Luca (su delega dell’avvocato F G C) e l’avvocato dello Stato Luigi Simeoli;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

I. Appello n. 2802 del 2013.

1. L’odierna appellante, assistente capo di Polizia penitenziaria, dichiarata temporaneamente non idonea al servizio per “ disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso ”, patologia a suo dire insorta a seguito delle difficoltà riscontrate nell’ambiente lavorativo, impugnava innanzi al TAR per la Puglia, Sezione staccata di Lecce (ricorso n. 588 del 2012), le note di diniego del Direttore della Casa Circondariale di Lecce - ove era in forza organica - a essere assegnata, al suo rientro in servizio, a un settore diverso rispetto a quello originario.

Con istanza presentata ai sensi dell’art. 59 del c.p.a., ella impugnava, inoltre, il successivo ordine di servizio del medesimo dirigente che, in formale esecuzione dell’ordinanza cautelare di accoglimento da parte dello stesso TAR, n. 332/2012, aveva disposto l’assegnazione della stessa presso il locale Nucleo traduzioni e piantonamento, in qualità di addetto alle traduzioni esterne dei detenuti.

L’interessata chiedeva altresì, il risarcimento dei danni subiti per l’aggravamento della patologia causata dai provvedimenti impugnati.

Il danno veniva commisurato ai giorni intercorsi tra l’ordine di servizio del 23 febbraio 2012 e l’esecuzione del nuovo auspicando provvedimento cautelare, in considerazione della “ sofferenza che comporta la patologia, la lontananza dal lavoro e la forzata inattività, gli effetti negativi sulla vita di relazione, le conseguenze nell’ambiente familiare ”.

In subordine, laddove l’azione amministrativa non fosse stata ritenuta ab origine foriera di danno, la ricorrente proponeva azione di condanna ai sensi degli artt. 59 e 112, comma 3 c.p.a., per violazione o elusione dell’ordinanza cautelare del TAR n. 332/12, non appellata.

L’interessata domandava, altresì, al TAR di fissare una penalità di mora per ogni violazione o inosservanza successiva dell’ordinanza cautelare n. 332/2012, dalla notifica, avvenuta in data 4 luglio 2012, dell’ordine di servizio n. 45/2012 fino alla integrale esecuzione della misura cautelare.

2. Il TAR respingeva l’istanza cautelare, attesa la vicinanza dell’udienza di merito, già fissata.

3. A sostegno del gravame, nella parte impugnatoria, la ricorrente deduceva i seguenti motivi:

a) eccesso di potere per contraddittorietà, illogicità, falsa rappresentazione, travisamento dei presupposti di fatto, inconferente, omessa e insufficiente motivazione e disparità di trattamento ;

b) violazione degli artt. 6, 15 e 18 del d.P.R. n. 461/2001, dell’art. 32 Cost., dell’art. 2087 c.c., degli artt. 11 e 13 del Protocollo di Intesa locale del 12 giugno 2006, dell’art. 21 del d.P.R. n. 82/1999, dell’art. 9, comma 3, lett. c) dell’Accordo Nazionale di Lavoro del 24 marzo 2004, dell’art. 2, comma 2, del Protocollo di Intesa Regionale del 22 dicembre 2005 e degli artt. 1 e ss. dell’Accordo Regionale del 20 dicembre 2005 nonché elusione dell’ordinanza n. 332/2012 del Tribunale ;

c) nullità ex art. 21 septies della l. n. 241/1990 .

4. Nella resistenza dell’amministrazione intimata, il TAR:

- accoglieva il ricorso nella parte impugnatoria;

- respingeva la domanda di risarcimento del danno, in base alla considerazione che l’annullamento degli atti gravati costituisse risarcimento in forma specifica del danno lamentato;

- compensava le spese.

5. La sentenza forma oggetto di appello da parte della signora -OMISSIS-, relativamente al capo che ha respinto la domanda di risarcimento, nonché nella parte in cui ha disposto la compensazione delle spese.

L’interessata deduce:

1) Contraddittorietà e illogicità. Violazione degli artt. 2087 o 2043, 2058 c.c..

I provvedimenti impugnati sono stati considerati irragionevoli, nonché contrari alla copiosa normativa interna adottata dall’amministrazione penitenziaria, in considerazione delle condizioni di salute della ricorrente, odierna appellante, accertate anche dalla C.M.O. che, in data 28 ottobre 2011 aveva dichiarato l’idoneità al servizio in un “ contesto lavorativo più accogliente ” e che, successivamente, riscontrava la permanenza di “ diagnosi di disturbo dell’adattamento con ansia, note depressive e aspetti emotivi misti, in fase di trattamento psicofarmacologico ” (verbale del 3 settembre 2012).

La sentenza del TAR sarebbe errata perché l’annullamento degli atti impugnati di fatto non ha eliso i danni già prodottisi.

E’ la stessa motivazione della sentenza che ha dato ampio risalto ai danni arrecati dagli ordini di servizio ovvero:

- i primi due (del 23 febbraio e del 7 aprile 2012) hanno causato una recrudescenza della patologia e impedito il rientro in servizio;

- l’o.s. n. 45 del 19 giugno 2012 ha causato un ulteriore aggravamento, ben più duraturo, come si ricaverebbe dal verbale della C.M.O. del 9 novembre 2012;

2) Errato contenuto dell’epigrafe e omissione nella parte “fatto”.

L’epigrafe della pronuncia riporta la domanda di risarcimento del danno “in subordine”. Invece il risarcimento del danno veniva domandato dalla ricorrente in via principale dal 23 febbraio 2012 e in subordine dall’o.s. n. 45 del 19 giugno 2012;

3) Omessa pronuncia sulla violazione degli artt. 59 e 112, comma 3, c.p.a. e violazione delle stesse norme. Contraddittorietà.

Anche la violazione dell’ordinanza cautelare n. 332/2012, di per sé, avrebbe dovuto costituire causa di risarcimento;

4) Omessa pronuncia sulla domanda ex art. 59 e 114, comma 4, c.p.a..

La ricorrente aveva domandato la fissazione di una somma di denaro a carico della parte resistente per l’inosservanza dell’ordinanza cautelare n. 332/2012. Di tale domanda non si fa però cenno nella parte narrativa della sentenza. Da un canto, sussisterebbe quindi la mancata pronuncia nel merito. Dall’altro vi sarebbe comunque contraddizione con il fatto che il comportamento dell’amministrazione resistente è stato considerato illegittimo, senza tuttavia trarne le conseguenze di legge;

5) Violazione del combinato disposto dagli artt. 91 c.p.c. e 39 c.p.a. Ulteriore contraddittorietà .

La sentenza sarebbe ingiusta anche perché ha compensato le spese, pur riconoscendo il comportamento colpevole della p.a.;

6) Domanda ex art. 104 c.p.a. – Ulteriore risarcimento .

Successivamente all’udienza di trattazione del merito del ricorso di primo grado, la patologia della ricorrente è stata nuovamente certificata dalla A.S.L. di Lecce;
mentre la C.M.O., nella seduta del 9 novembre 2012, l’ha dichiarata non idonea fino al 5 maggio 2013, salvi ulteriori accertamenti.

6. Nella memoria del 19 dicembre 2017, l’appellante ha rappresentato che, nelle more del giudizio, è stata dichiarata inidonea al servizio di polizia penitenziaria ed è stata trasferita all’impiego civile.

Anche l’amministrazione ha depositato una memoria difensiva conclusionale, con la quale ha sostenuto, in particolare, che, nel suo complessivo comportamento non è rilevabile alcun intento persecutorio, quanto, invece, la necessità dei superiori gerarchici di far fronte all’organizzazione del servizio di sicurezza, tenuto conto della grave carenza di organico che da sempre connota il reparto femminile della Casa Circondariale di Lecce.

7. L’appello n. 2802 del 2013 è stato trattenuto in decisione alla pubblica udienza del 20 dicembre 2018.

II. Appello n. 6414 del 2017.

8. Con ricorso iscritto al n. R.G. n. 2467 del 2014 del TAR per la Puglia, sezione staccata di Lecce, la signora -OMISSIS- domandava il risarcimento dei danni biologici, morali e da demansionamento che riteneva avere subito in conseguenza del comportamento di “ mobbing ” che asseriva essere stato tenuto nei suoi confronti durante lo svolgimento del servizio presso la casa circondariale di Lecce.

L’interessata richiamava, a tal fine, anche le circostanze accertate dalla sentenza n. 54 del 2013, che, come si è in precedenza riportato, aveva annullato gli ordini di servizio con cui il Direttore dell’Istituto le aveva negato, al suo rientro da un periodo di congedo per malattia, l’assegnazione ad un reparto diverso da quello originario.

Il TAR riteneva che, quanto al periodo considerato dalla sentenza testé citata, vi fosse già una pronuncia espressa, di rigetto della domanda di risarcimento del danno.

Operava dunque, attesa l’identità delle parti, del petitum (il risarcimento dei danni subiti dalla ricorrente per effetto della condotta tenuta nei suoi confronti dall’amministrazione penitenziaria in seno al relativo rapporto d’impiego) e della causa petendi (l’illegittimità e l’illiceità di quella medesima condotta), il principio del ne bis in idem , per il quale il giudice dello stesso grado di giurisdizione non può nuovamente pronunciarsi su questioni già definite con sentenza, sia pure non ancora passata in giudicato.

Con riguardo al periodo successivo a tale pronuncia, il TAR rilevava che la valutazione di non idoneità permanente al servizio d’istituto nella Polizia (con idoneità al transito nei ruoli civili) successivamente intervenuta, non era stata impugnata né, comunque, concretamente censurata.

Il TAR, pertanto, dichiarava il ricorso in parte inammissibile per violazione del ne bis in idem e in parte lo respingeva, compensando le spese.

9. Anche questa sentenza è stata appellata dalla signora -OMISSIS-, alla stregua dei motivi che possono essere così sintetizzati.

1. Violazione di legge, in relazione al principio del ne bis in idem;
omessa motivazione
;

2. Eccesso di potere sub specie di illogicità della motivazione, travisamento dei fatti, illogicità, contraddittorietà e irragionevolezza dell’azione amministrativa. Ingiustizia manifesta. Erroneità dei presupposti ;

3. Violazione di legge, omessa pronuncia in relazione ai danni lamentati, demansionamento, perdita di chance, danno biologico, riduzione del reddito e aumento dell’età pensionabile in relazione agli articoli 32 e 36 Cost. e al d.lgs. n. 95 del 2017 .

L’appellante ha evidenziato che il procedimento avviato nel 2012 e conclusosi con la sentenza del TAR Lecce n. 54/2013 aveva ad oggetto un petitum sostanzialmente differente da quello invocato con il ricorso instaurato nel 2014 e conclusosi con la pronuncia n. 250/2017: infatti mentre la prima azione era finalizzata all’annullamento degli atti impugnati ed al ristoro derivante da quegli atti specifici, l’odierna azione sarebbe finalizzata al ristoro di danni diversi.

Per quanto concerne il periodo successivo in cui è stata dichiarata permanentemente inidonea al servizio e trasferita all’impiego civile, ella ha precisato che il provvedimento della C.M.O. di Taranto che l’ha dichiarata non idonea al servizio di Polizia è stato impugnato innanzi alla Commissione medica interforze di II istanza di Roma che, con provvedimento n. 645 del 26 giugno 2013, ha motivato la “ non idoneità permanente ” della ricorrente in ragione del riscontrato “ Disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso in trattamento farmacologico ”, a suo dire derivante direttamente dal contegno mobbizzante e temerario assunto dai dirigenti della Casa Circondariale di Lecce.

In ogni caso, il TAR non ha esaminato, nel merito, le domande risarcitorie, che ha quindi riproposto in appello.

La signora -OMISSIS- fa risalire l’inizio delle sue vicissitudini all’utile collocazione conseguita nella graduatoria dell’interpello indetto per ricoprire l’Ufficio Servizi del Reparto Femminile delia Casa Circondariale di Lecce, in seguito al quale ottenne l’incarico di sostituto della titolare.

Tuttavia, già in occasione della comunicazione telefonica dell’incarico, nel marzo 2008, ella poté percepire il disappunto del suo interlocutore che non le espresse alcuna parola di apprezzamento.

Da quel momento i turni di lavoro vennero aumenti in modo esponenziale, procurandole un carico di stress sempre più gravoso.

Sarebbe apparso subito evidente che l’incarico di sostituto della titolare ottenuto non era stato gradito dai suoi diretti superiori i quali, a suo dire, avrebbero tentato in ogni modo di scoraggiarla, anche relazionando, a sua insaputa, in merito alla sua inidoneità.

L’accumulo di stress e umiliazioni le ha poi causato la patologia che, suo malgrado, l’ha fatta allontanare dal servizio attivo nel Corpo della Polizia Penitenziaria.

La situazione sarebbe degenerata con l’avvicendarsi di una nuova dirigenza, nel febbraio 2012, che avrebbe posto in essere nei suoi confronti un comportamento ancora più “mobbizzante”.

Al riguardo, ella sottolinea ad esempio il fatto che sia stata disattesa indicazione della C.M.O. (verbale del 23 ottobre 2011) che ha aveva consigliato di assegnarla ad un Reparto diverso da quello di provenienza, comportamento che, peraltro, è stato poi stigmatizzato dallo stesso TAR di Lecce con la sentenza n. 54 del 2013.

L’appellante ha evidenziato altresì che, in passato, non aveva mai sofferto di patologie psichiatriche e che aveva sempre affrontato con scrupolo e diligenza il suo lavoro, ricevendo le lodi dei superiori.

Le circostanze obiettive, le certificazioni mediche e le risultanze delle visite presso la C.M.O., il contenuto dei provvedimenti giudiziari, dimostrerebbero il nesso eziologico tra la patologia generatasi e le condizioni di lavoro subite dall’aprile 2008 all’aprile 2010, e, in seguito, coi tentativo di rientro in servizio, osteggiato dalla direzione, dal febbraio 2012 al giugno 2013.

Tale situazione ha poi condotto al suo definitivo allontanamento dalla Casa Circondariale, con il trasferimento nei ruoli civili ed il conseguente demansionamento.

10. Si è costituito, per resistere, il Ministero della Giustizia, sottolineando, in primo luogo, che i fatti storici costitutivi delle domande risarcitorie sono gli stessi che hanno già formato oggetto di cognizione da parte del TAR di Lecce nel giudizio definito con la sentenza n. 54 del 2013, poiché in entrambi i casi la ricorrente ha invocato i primi atteggiamenti ostili asseritamente subiti a partire dal marzo 2008, sino al provvedimento di diniego di trasferimento ad altro Reparto e al trasferimento presso il Nucleo di Traduzione e Piantonamento.

L’Amministrazione ha invocato, pertanto, il divieto di frammentare la domanda di risarcimento del danno derivante dallo stesso illecito in più giudizi distinti (cfr., ex multis , Cass. civ., sentenza n. 23342 del 2006).

Nel caso di specie, al di là dei singoli episodi lamentati dall’appellante, mancherebbe altresì la prova dell’elemento soggettivo e finalistico dell’azione datoriale, elemento caratterizzante il c.d. mobbing .

Dalla documentazione richiamata dalla dipendente, non potrebbe infatti evincersi alcun intento persecutorio dei superiori gerarchici, quanto invece la necessità di far fronte, nella organizzazione del servizio di sicurezza, ad una grave vacanza di organico che da sempre connota il reparto femminile di Lecce.

Per tale ragione, ancora oggi, le unità femminili in organico negli uffici sono spesso impiegate nella sorveglianza di sezione, e ugualmente quotidiana è l’assegnazione di mansioni inferiori a figure apicali del reparto (come il personale appartenente al ruolo dei sovrintendenti), non essendovi altre risorse cui affidare il servizio di vigilanza.

L’amministrazione ha poi fatto presente che, dal 2009 al 2011, gli uffici in cui era presente il personale femminile erano soltanto l’ufficio matricola e gli ingressi esterni, oltre a quelli strettamente connessi alla sezione femminile ovvero l’ufficio servizi, la cucina di sezione, ed il sopravvitto di sezione.

Soltanto a far data dal 2012 è stato possibile per il personale femminile venire adibito “ all’ufficio matricola, segreteria P.P. e Nucleo Traduzioni e Piantonamento, ma non anche a tutti gli altri uffici previsti dalla mobilità se pure in posizione utile nella graduatoria ”.

L’Amministrazione ha poi sottolineato che le relazioni di servizio richiamate dalla appellante sono state redatte in ragione della grave carenza di personale femminile e non certo per un intento persecutorio nei suoi confronti.

Per quanto concerne la mancata impugnazione del provvedimento della C.M.O. che ne ha dichiarato l’inidoneità, il Ministero ha sottolineato che tale giudizio è stato confermato dalla Commissione medica Interforze di II istanza di Roma, sia pure giustificandolo alla luce dell’infermità consistente in “ disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso in trattamento farmacologico ”.

L’appellante è stata poi assegnata agli uffici del Ministero della Giustizia e presta attualmente servizio presso l’Ufficio Notifiche della Corte d’Appello di Lecce.

La definitività del provvedimento di inidoneità costituisce un dato oggettivo dal quale – pur non essendovi più un rapporto di pregiudizialità tra l’azione di annullamento e quella di risarcimento - il giudice non potrebbe prescindere ai fini della formazione del proprio convincimento in ordine alla sussistenza, o meno, di una condotta illecita dell’amministrazione, quantomeno ai sensi dell’art. 30, comma 3, c.p.a.

11. Anche questo appello, infine, è passato in decisione alla pubblica udienza del 20 dicembre 2018.

12. In via preliminare si procede alla riunione degli appelli in quanto soggettivamente e oggettivamente connessi. A tal fine, il Collegio rileva quanto segue.

Nell’ambito dell’appello n. 2802 del 2013, il danno prospettato dall’appellante è quello conseguente al disagio subito al proprio rientro dal servizio da un periodo di malattia, per il fatto di non essere stata assegnata ad un Reparto consono al proprio stato di salute e quindi inserita in un ambiente lavorativo “più accogliente”.

Tuttavia, nel contesto del ricorso instaurativo del giudizio di primo grado, pur evocando genericamente un ambito lavorativo “ostile”, l’odierna appellante non ha mai fatto esplicito riferimento al c.d. “ mobbing” che forma invece oggetto del ricorso n. 2467 del 2014.

E’ solo in questo giudizio che gli ordini di servizio originariamente impugnati sono stati inseriti in un più ampio quadro di vicissitudini lavorative che l’appellante ascrive al vero e proprio “ mobbing ”, ovvero, secondo la definizione invalsa in giurisprudenza, ad una condotta persecutoria e discriminatoria dei superiori gerarchici che ne avrebbe minato la salute psico- fisica.

Deve pertanto escludersi la totale sovrapponibilità tra le due azioni come pure la violazione del principio costituzionale del giusto processo, in virtù di un indebito frazionamento di giudizi.

13. Ciò posto, entrambi gli appelli sono infondati e debbono essere respinti.

14. Va anzitutto premesso che l’appellante ha ragione nel lamentare il fatto che la sentenza n. 54 del 2013 non abbia esaminato nel merito la domanda risarcitoria.

Il danno allegato dalla ricorrente era quello derivante dagli ordini di servizio oggetto della contestuale azione impugnatoria. Tali atti (ed in particolare l’ordine di servizio n. 45 del 2012) hanno continuato a produrre effetti fino all’annullamento disposto dal TAR, il quale non poteva ex se elidere il danno che si fosse eventualmente già prodotto.

Occorre dunque esaminare, nel merito, la domanda risarcitoria, siccome riproposta in appello.

14.1. Nell’ambito del ricorso per motivi aggiunti, depositato al TAR l’8 agosto 2012, richiamato nel contesto dell’appello n. 2802 del 2013, il danno prospettato viene definito dalla ricorrente come “ la sofferenza che comporta la patologia, la lontananza dal lavoro e la forzata inattività ” unitamente agli “ effetti negativi sulla vita di relazione, le conseguenze nell’ambiente familiare ”.

Si tratta, in sostanza, non del danno biologico, ovvero di un pregiudizio avente base organica (come la patologia psichica), bensì del danno c.d. esistenziale.

La giurisprudenza amministrativa, ha espresso, in materia, i seguenti principi (cfr., ex plurimis , Cons. St., sez. III, sentenza n. 906 del 25 febbraio 2014).

L’art. 2059 del codice civile, interpretato in modo conforme a Costituzione, prevede una categoria unitaria di danno non patrimoniale per lesione di interessi, inerenti la persona, non connotati da rilevanza economica, in cui rientrano sia il danno alla salute in senso stretto, cd. biologico, sia quello di tipo cd. esistenziale.

Ai fini della sua risarcibilità, tale danno deve essere allegato e provato tanto nella sussistenza che nel nesso eziologico.

In particolare, si ammette, quanto al danno propriamente biologico, che il verificarsi della menomazione della integrità psico-fisica della persona possa essere accertato facendo ricorso alle presunzioni e che la sua quantificazione possa avvenire in via equitativa, occorrendo tuttavia che la motivazione indichi gli elementi di fatto i quali, nel caso concreto, sono stati tenuti presenti e i criteri adottati nella liquidazione equitativa.

Quanto al danno esistenziale, a maggior ragione si ammette il ricorso a presunzioni, trattandosi di pregiudizio ad un bene immateriale, diverso da quello biologico e consistente nel danno, di natura non meramente emotiva ed interiore ma oggettivamente accertabile, arrecato alle attività non remunerative del soggetto passivo, costretto ad alterare le proprie abitudini ed i propri assetti relazionali ed a sottostare a scelte di vita diverse dalle precedenti in ordine alla espressione ed alla realizzazione della sua personalità anche nel mondo esterno.

Anche il danno non patrimoniale, configurabile quale danno-conseguenza derivante dall’effettiva lesione di specifici beni/valori oggetto di tutela (e non quale mero danno-evento), deve però essere puntualmente allegato e dimostrato nella sua consistenza, se del caso attraverso il ricorso a presunzioni, purché plurime, precise e concordanti.

Al riguardo, la Corte di cassazione ha sottolineato che, in tema di danno non patrimoniale, laddove si accedesse all'opposta tesi del danno in re ipsa , si finirebbe per snaturare la funzione stessa del risarcimento, il quale non conseguirebbe all’effettivo accertamento di un danno, ma si atteggerebbe alla stregua di vera e propria pena privata per un comportamento illecito (in tal senso, per tutte, Cass., Sez. Un. Civ., 11 novembre 2008, n. 26972 e n. 26973).

Pertanto, per conseguire il risarcimento del danno non patrimoniale, il richiedente è tenuto ad allegare e provare in termini reali, sia nell’ an che nel quantum , il pregiudizio subito, anche se collegato a valori riconosciuti a livello costituzionale.

14.2. Nel caso di specie, l’appellante non ha allegato sufficienti elementi probatori, precisi e concordanti, atti a dimostrare il danno sofferto a causa degli ordini di servizio, poi annullati dal TAR.

Infatti, pur volendo convenire con l’appellante che tali provvedimenti siano stati la causa, immediata e diretta, della sua protratta assenza dal servizio, e che tale circostanza sia stata in astratto idonea a ripercuotersi sulla sua vita di relazione, tuttavia spetta pur sempre a chi agisce - essendo il danno esistenziale indissolubilmente legato alla persona - quantomeno allegare quali cambiamenti o alterazioni si siano prodotti negli equilibri, scelte e abitudini di vita in conseguenza degli atti dell’amministrazione successivamente dichiarati illegittimi.

Nel caso di specie, al contrario, parte ricorrente non ha in alcun modo specificato come l’assenza dal servizio si sia effettivamente risolta, in concreto, in un evento peggiorativo della propria condizione esistenziale, non assolvendo quindi all’onere di fornire almeno un principio di prova al riguardo.

Ne deriva che la domanda del risarcimento del danno, c.d. esistenziale, deve essere respinta.

15. Con un distinto mezzo di appello, ripropositivo di una analoga doglianza svolta in primo grado, l’interessata ha lamentato il fatto che il TAR, pur avendole emesso una favorevole misura cautelare con ordinanza n. 332 del 31 maggio 2012, non le abbia poi attribuito la c.d. “penalità di mora”, richiesta unitamente alla domanda di sospensione dell’ordine di servizio n. 45/2012, di cui aveva dedotto il carattere “elusivo”.

Tuttavia, nel riproporre tale istanza, l’appellante non considera che l’ordinanza cautelare è una misura ontologicamente temporanea e rivedibile (cfr., tra le tante, Consiglio di Stato, Sez. III, 8 settembre 2015 n. 4208), che si caduca con l’emanazione della sentenza che definisce il giudizio.

In tale senso, l’art. 114 del c.p.a. prevede espressamente che solo “ in caso di accoglimento del ricorso ”, il giudice, in sede di ottemperanza, possa, tra le altre misure ivi disciplinate, fissare, su “ richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del giudicato ” (lett. e).

Ne deriva che, sia sul piano letterale che su quello logico – sistematico, l’irrogazione di astreintes è inconfigurabile in sede cautelare.

16. Infine, per quanto riguarda le critiche svolte in merito al fatto che il TAR abbia compensato le spese di giudizio, va rilevato che nel processo amministrativo il giudice mantiene amplissimi poteri discrezionali in ordine al riconoscimento, sul piano equitativo, dei giusti motivi per far luogo alla compensazione ovvero per escluderla, con il solo limite che non può condannare, totalmente o parzialmente, alle spese la parte risultata vittoriosa;
la valutazione di merito sulla compensazione delle spese non è quindi sindacabile in appello neppure per difetto di motivazione, eccezion fatta per decisioni manifestamente arbitrarie o irrazionali (Cons. St., sez. V, 17 luglio 2017, n. 3504;
id., 27 marzo 2017, n. 1338).

17. Venendo all’esame dell’appello n. 6414 del 2017, rileva il Collegio che il danno derivante da mobbing - nei limiti in cui può considerarsi rimesso alla cognizione del g.a. - non è sottratto alle regole del processo amministrativo che richiedono, se non l’impugnazione, quantomeno la chiara individuazione dei provvedimenti lesivi (cfr., TAR Lazio, sez. I, sentenza n. 3315 del 17 aprile 2007).

La giurisdizione del giudice amministrativo sussiste infatti nelle sole controversie nelle quali il c.d. mobbing viene ricollegato a specifici atti giuridici, mentre va esclusa nel caso di comportamenti che non costituiscono esercizio del potere di supremazia gerarchica posto a regolazione dello svolgimento del rapporto di lavoro (cfr., ad es. Cons. di Stato, sez. VI, n. 3584/2012 e sez. IV n. 5371/2015).

D’altra parte, l’art. 2087 del codice civile giustifica la proposizione di ‘azioni contrattuali’ in sede di giurisdizione esclusiva – per il personale pubblico ‘non contrattualizzato’ – quando si tratti di azioni riferibili alla salubrità dell’ambiente di lavoro (applicandosi invece l’art. 2049 del codice civile, con la conseguente giurisdizione ordinaria, quando si deduca la sussistenza della responsabilità del ‘datore di lavoro’ per fatti commessi da altri suoi dipendenti).

Occorre poi ricordare che ai fini della configurabilità del “ mobbing ” sono necessari:

- la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;

- l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;

- il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore;

- la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio

Nel caso di specie, la dettagliata descrizione dell’ambiente lavorativo, degli ordini e delle relazioni di servizio adottate dai superiori gerarchici della ricorrente tra il 2008 e il 2012, contenuta nel ricorso instaurativo del giudizio di primo grado, delinea soltanto l’esistenza di un certo grado di conflittualità (peraltro talvolta possibile in un ambiente lavorativo come quello in esame), ma non già l’esistenza di veri e propri comportamenti persecutori o discriminatori posti in essere, in maniera sistematica, nei suoi confronti.

A ciò si aggiunga che l’appellante non ha nemmeno contestato quanto dedotto dall’amministrazione in primo grado, e ribadito in appello, secondo cui, i disagi lamentati hanno avuto origine nella situazione di grave carenza di organico che, all’epoca, caratterizzava la Sezione femminile della Casa Circondariale di Lecce e che gli stessi hanno riguardato non solo l’odierna appellante ma tutto il personale che vi era assegnato;
il che già esclude, in radice, qualsivoglia intento discriminatorio.

Per quanto poi concerne il primo degli elementi in precedenza indicati, consistente nella sistematicità dei comportamenti vessatori nei confronti del dipendente e quindi nella possibilità di individuare una precisa strategia persecutoria, la giurisprudenza richiede, in particolare, il riscontro di una diffusa ostilità proveniente dall’ambiente di lavoro, posta in essere attraverso una pluralità di condotte frutto di una vera e propria strategia avente di mira l’emarginazione del dipendente dalla struttura organizzativa di cui fa parte.

Non sussiste il mobbing, pertanto, quando sia assente la sistematicità degli episodi, ovvero nell’ipotesi in cui i comportamenti su cui viene basata la pretesa risarcitoria siano riferibili alla normale condotta del datore di lavoro, funzionale all’assetto dell’apparato amministrativo (o imprenditoriale nel caso del lavoro privato), o, infine, quando vi sia una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale (Cons. Stato, VI, 6 maggio 2008 n. 2015).

E’ questo, in definitiva, il caso di specie, in cui non è stato allegato alcun elemento da cui possa evincersi che gli atti - che la ricorrente ascrive ad un più complessivo disegno di mobbing - fossero esorbitanti, o incongrui, rispetto all’ordinaria gestione del rapporto di servizio e che quindi siano stati posti in essere, in modo mirato o sistematico, al solo scopo di vessarla, in attuazione di un disegno persecutorio obiettivamente percepibile.

18. In definitiva, per quanto testé argomentato, gli appelli debbono essere respinti.

Il carattere sensibile degli interessi coinvolti induce però a compensare integralmente tra le parti le spese del secondo grado.

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