Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2017-04-21, n. 201701878

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2017-04-21, n. 201701878
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201701878
Data del deposito : 21 aprile 2017
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 21/04/2017

N. 01878/2017REG.PROV.COLL.

N. 04059/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4059 del 2011, proposto dall’Istituto Visitandine dell'Immacolata, in persona del legale rappresentante “pro tempore”, rappresentato e difeso dagli avvocati M T B e P B, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. M T B in Roma, via Caio Mario, 7;

contro

-il Ministero per i beni e le attività culturali e il turismo (in prosieguo, Mibact), in persona del legale rappresentante “pro tempore”, costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma in Via dei Portoghesi, 12;
-il Comune di Bologna, non costituitosi in giudizio;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. EMILIA -ROMAGNA -BOLOGNA -SEZIONE II, n. 8085 del 2010, resa tra le parti, concernente diniego di nulla -osta per concessione in sanatoria per opere edilizie abusive;


Visti il ricorso in appello, con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di mera forma del Mibact;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del 13 aprile 2017 il cons. Marco Buricelli e uditi per le parti gli avvocati Luigi Fedeli per dichiarata delega dell'avv. M T B, e Sergio Fiorentino dell'Avvocatura generale dello Stato;

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1.Con la sentenza n. 8085 del 2010 il Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia -Romagna –sede di Bologna, ha respinto il ricorso proposto dall’Istituto Visitandine dell’Immacolata contro il provvedimento prot. n. 15218 del 3.9.1997 con il quale il Soprintendente per i beni architettonici di Bologna aveva negato il rilascio del nulla -osta domandato per ottenere la concessione edilizia in sanatoria in relazione ad alcuni interventi abusivi eseguiti su un immobile vincolato sito in Bologna.

La sentenza di primo grado, premesso che il diniego di nulla –osta riguarda “alcune opere abusive costituite dalla creazione di camere e servizio al piano sottotetto con realizzazione di tagli di copertura per la formazione di pozzi luce e la realizzazione di un ascensore esterno posto in un cortile interno in quanto incompatibili con la tutela gravante sull’immobile poiché modificano gravemente l’estetica, gli spazi e le strutture dell’edificio, mentre è stato rilasciato parere favorevole per i servizi igienici del piano primo ed ammezzato e di alcuni tramezzi per la formazione di camere da letto”;
dopo avere respinto l’eccezione d’inammissibilità sollevata dall’Avvocatura dello Stato con riferimento all’asserita natura endo -procedimentale dell’atto impugnato ha, nel merito, giudicato infondata anzitutto la censura con la quale l’Istituto ricorrente aveva sostenuto che il decorso del termine di 180 giorni previsto dal d. m. 13.6.1994, n. 495, per la conclusione dei procedimenti amministrativi di competenza dell’Amministrazione per i beni culturali e ambientali, comporta il formarsi del silenzio assenso in ordine alla richiesta di sanatoria.

La tesi di parte ricorrente è stata ritenuta infondata alla luce del disposto di cui all’art. 20 della l. n. 241 del 1990 che espressamente esclude, con disposizione avente carattere generale, la possibilità del formarsi del silenzio assenso in materia di vincolo culturale e paesistico -ambientale.

“Ciò comporta, invero –ha soggiunto il T- che la normativa di riferimento del procedimento per accertare la compatibilità paesistica non può essere assoggettata all'interpretazione estensiva propugnata dal ricorrente, che pretende di superare l'indiscutibile assenza al suo interno di disposizioni recanti la previsione di silenzio assenso, non essendo certamente equipollente a tal fine, la sola previsione dell'obbligo di provvedere entro termini prestabiliti, seguita dall'inattività dell'amministrazione…” .

La sentenza ha poi respinto il secondo motivo, concernente difetto di istruttoria e di motivazione.

Al riguardo il giudice di primo grado ha rilevato che l’atto impugnato indica in modo chiaro le ragioni del diniego, poiché “ha ravvisato che gli abusi edilizi in contestazione sono incompatibili con la tutela gravante sull’immobile in quanto modificano gravemente l’estetica, gli spazi e le strutture dell’edificio”.

Le valutazioni espresse con il provvedimento lesivo sono state considerate non contraddittorie rispetto a precedenti pareri favorevoli riguardanti opere diverse e ritenute di diversa incidenza sull’edificio.

Più in generale, “tali valutazioni…dell’amministrazione preposta alla tutela del vincolo gravante sull’immobile sono state qualificate come “valutazioni di merito”, in quanto tali “non sindacabili in questa sede di legittimità”.

2.L’Istituto ha interposto appello.

Dopo avere precisato che gli abusi edilizi “eseguiti tra il 1967 e il 1977 consistono in opere finalizzate all’adeguamento igienico –funzionale dell’unità immobiliare e si concretizzano nella realizzazione di alcuni servizi igienici al 1° e al piano ammezzato (tra il 1° e il 2° piano), per due dei quali è stata prevista l’apertura di una finestra;
di tramezzi per la realizzazione di due camere da letto e di altre piccole modifiche interne, e nella realizzazione nel cortile interno posto vicino all’ingresso del convitto di un ascensore a servizio dei piani fuori terra dell’unità immobiliare”;
con il primo motivo, concernente in particolare violazione dell’art. 20 della l. n. 241 del 1990 e del d. m. 13.6.1994, n. 495, e violazione della l. n. 13 del 1989, parte appellante deduce l’erronea reiezione del primo motivo del ricorso di primo grado, avendo il T ritenuto infondata la censura sulla intervenuta formazione del silenzio assenso in ordine alla richiesta di condonabilità dell’intervento una volta inutilmente trascorso il termine di 180 giorni previsto dal d. m. n. 495 del 1994 per la conclusione del procedimento.

Il rilascio del nulla osta alla Soprintendenza era stato domandato nel novembre del 1996, e l’Amministrazione aveva comunicato l’esito sfavorevole del procedimento soltanto nel settembre del 1997, ben oltre quindi i 180 giorni normativamente prescritti.

La sentenza di primo grado avrebbe errato nel fondare il rigetto del motivo sull’art. 20, comma 4, della l. n. 241 del 1990, poiché tale disposizione è stata introdotta dall’art 21, comma 1, lett. b), della l. n. 15 del 2005, poi sostituito dall’art 3, comma 6 ter, del d. l. n. 35 del 2005, convertito con modificazioni dalla l. n. 80 del 2005, pertanto molto tempo dopo l’avvenuta formazione del silenzio –assenso.

Viceversa, nella specie trova applicazione l’art. 1 del d. m. n. 495 del 1994 secondo cui i procedimenti di competenza dell’amministrazione per i beni culturali e ambientali devono concludersi con provvedimento espresso nel termine stabilito per ciascun procedimento, sicché l’Amministrazione avrebbe dovuto osservare il termine di 180 giorni previsto nella tabella allegata al d.P.R. n. 407 del 1994.

Si rileva inoltre che l’art. 5 della l. n. 13 del 1989, in combinato disposto con l’art. 4, comma 2, della legge medesima, recante “disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati”, avrebbe introdotto una disciplina di favore per i soggetti svantaggiati istituendo la previsione del silenzio –assenso, una volta trascorso il termine di 120 giorni dalla presentazione della domanda, anche nel caso di domanda di autorizzazione dei lavori su immobili vincolati.

Nel caso in esame, poiché la richiesta di parere era stata inviata alla Soprintendenza il 13.11.1996, già in data 13.3.1997 si era formato il silenzio -assenso e, pertanto, il successivo diniego di nulla osta emesso il 3.9.1997 “appare irrimediabilmente tardivo e come tale illegittimo”.

Si tratta di una normativa speciale che prevale sulla disciplina ordinaria dettata in via generale a tutela degli immobili di elevato pregio culturale.

Con il secondo motivo di appello, imperniato essenzialmente su profili di eccesso di potere per errata valutazione dei presupposti di fatto e di diritto, “insufficiente motivazione e palese carenza di istruttoria”, illogicità manifesta e contraddittorietà, viene dedotta l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui il giudice di prime cure ha affermato in modo apodittico che le ragioni del diniego erano chiare.

La sentenza impugnata sarebbe errata anche nella parte in cui fa riferimento a “valutazioni di merito” dell’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo come “non sindacabili” in sede di giudizio di legittimità.

Diversamente da quanto ritiene il giudice di primo grado, il nulla osta della Soprintendenza è censurabile in sede giurisdizionale per vizi di legittimità, tra i quali va ricompreso il difetto di motivazione.

Nella specie, la motivazione del diniego si riduce a “semplici, generiche locuzioni di stile” quando, invece, sarebbe dovuta essere particolarmente specifica in quanto l’intervento, cioè la realizzazione di un ascensore, è stato realizzato per superare le barriere architettoniche esistenti nell’immobile sicché l’atto impugnato, ai sensi della l. n. 13 del 1989, “avrebbe dovuto dare compiuta ed esauriente emersione alle reali e dimostrabili ragioni di pregiudizio all’interesse tutelato”.

Nell’appello si evidenzia poi che la legge sulle barriere architettoniche n. 13 del 1989 prevede, all’art. 4, comma 4, che il diniego alla esecuzione dei lavori su immobili vincolati può essere opposto “solo nei casi in cui non sia possibile realizzare le opere senza un serio pregiudizio del bene tutelato”, con l’obbligo per l’Amministrazione, nel caso di pronuncia negativa, di specificare la natura e la serietà del pregiudizio, e la sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall’interessato (v. art. 4, commi 4 e 5, della l. n. 13 del 1989). Nel bilanciamento tra l’interesse alla tutela del patrimonio storico –artistico nazionale e quello alla salvaguardia dei diritti alla salute e al normale svolgimento della vita di relazione e di socializzazione dei soggetti in minorate condizioni fisiche si è inteso dare prevalenza ai diritti della persona relegando il diniego dell’autorizzazione ai soli casi di accertato e motivato “serio pregiudizio” per il bene vincolato.

Con l’appello si evidenzia ulteriormente che l’intervento di realizzazione dell’ascensore –indispensabile, tenuto conto dell’età media delle suore nel convento- è stato ridotto al minimo strettamente indispensabile per garantire l’accesso all’immobile a chi ha problemi di deambulazione;
inoltre l’ascensore è sottratto alla visuale poiché è stato realizzato in un cortile secondario interno.

Viene inoltre ribadita la contraddittorietà del provvedimento impugnato atteso che la Soprintendenza aveva in precedenza reso parere favorevole in relazione alla creazione di nuovi servizi igienici e a piccole modifiche interne quali l’apertura e la chiusura di porte e l’apertura di finestre (lucernai), mentre ha espresso parere negativo per le bucature nel coperto che tuttavia avrebbero un’incidenza di poco superiore ai lucernai sui quali la medesima Soprintendenza ha espresso parere di compatibilità favorevole. Di qui, l’illegittimità del diniego, tanto più considerando che tali aperture sono state realizzate su parti non visibili dell’immobile e che pertanto tali interventi non potevano modificare né l’estetica e né la struttura dell’immobile.

3.Il Mibact, rappresentato e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, ha svolto una difesa di mera forma, e all’udienza del 13.4.2017 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

4.L’appello è fondato e va accolto per le ragioni ed entro i limiti che saranno specificati in prosieguo.

4.1. Il Collegio ritiene evidenti l’insufficienza della motivazione e la carenza dell’istruttoria, aspetti che la sentenza impugnata non sembra avere considerato e che contrassegnano l’atto contestato in primo grado, con riferimento alla realizzazione dell’ascensore esterno nel cortile interno.

A questo proposito va rammentato, in linea di diritto e in via preliminare, in primo luogo che “si intendono per barriere architettoniche - ai sensi dell'art. 2, lett. A), punti a) e b), del d. m. 14 giugno 1989 n. 236 ("Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e della eliminazione delle barriere architettoniche") - "gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita, in forma permanente o temporanea", ovvero "gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature e componenti". Appare pertanto evidente che fra tali ostacoli debbono annoverarsi le scale dei palazzi a più piani, non affrontabili in assoluto da soggetti deambulanti con sussidi ortopedici, o comunque fonte di affaticamento - e, dunque, di "disagio" - per chiunque, a causa dell'età o di patologie di varia natura, abbia ridotte capacità di compiere sforzi fisici. Invero, non può ragionevolmente negarsi che l'installazione di ascensori costituisca anche rimozione di barriere architettoniche.

In secondo luogo, con riferimento all’asserzione compiuta in sentenza secondo cui la valutazione effettuata dall’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo dev’essere qualificata come “valutazione di merito”, come tale non sindacabile in sede di giurisdizione di legittimità, va ribadito che, a differenza di quanto deciso dal T, il nulla osta della Soprintendenza in materia, pur comportando l’esercizio di poteri tecnico –discrezionali piuttosto ampi, per giurisprudenza costante è comunque sindacabile in via giudiziale con riguardo a qualsiasi vizio di legittimità riscontrabile, incluso l’eccesso di potere in ogni sua figura sintomatica, compresa l’insufficienza della motivazione e il difetto dell’istruttoria.

Ancora in via preliminare si ritiene di poter trasporre nel giudizio odierno talune considerazioni di carattere generale formulate da questa sezione con la sentenza n. 905 del 2016, pronunciata su una fattispecie per alcuni aspetti analoga a quella per cui oggi è causa e che riguardava un parere negativo reso da una Soprintendenza per la realizzazione di un ascensore esterno da collocare nella chiostrina interna di uno stabile.

Si deve ricordare –ha rilevato la sezione con la sentenza n. 905 del 2016- che la legge n. 13 del 9 gennaio 1989, nel dettare “Disposizioni per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati”, ha disciplinato, agli articoli 4 e 5, anche il caso in cui i relativi interventi riguardino i beni sottoposti a disposizioni di tutela per il loro valore paesaggistico o per l’esistenza di un vincolo di natura storico ed artistico.

9.1.- In particolare, l’art. 4 della citata legge, oltre a dettare i tempi per il rilascio dei necessari atti autorizzativi, ha previsto che «l'autorizzazione può essere negata solo ove non sia possibile realizzare le opere senza serio pregiudizio del bene tutelato» (comma 4) e che «il diniego deve essere motivato con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l'opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall'interessato» (comma 5).

9.2.- L’art. 5 della legge n. 13 del 1989 prevede poi che, per gli immobili sottoposti alle disposizioni di tutela per il loro valore storico ed artistico, si «applicano le disposizioni di cui all'articolo 4, commi 2, 4 e 5» e che la «competente soprintendenza è tenuta a provvedere entro centoventi giorni dalla presentazione della domanda, anche impartendo, ove necessario, apposite prescrizioni».

10.- In una valutazione comparativa fra diversi interessi di forte rilevanza sociale, il legislatore ha ritenuto, quindi, che gli interventi di natura edilizia volti a favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche, negli edifici privati che sono sottoposti a disposizioni di tutela per il loro particolare interesse paesaggistico o storico artistico, possono essere non consentiti, dalle amministrazioni cui spetta l’esercizio delle funzioni di tutela, solo se recano un «serio pregiudizio» al bene tutelato.

Per effetto delle indicate disposizioni può essere, pertanto, anche ammesso un pregiudizio ad un bene che è tutelato, per il suo particolare valore paesaggistico o storico artistico, tenuto conto del rilievo sociale che assumono (anche) le opere necessarie ad eliminare le barriere architettoniche, purché tale pregiudizio non sia serio e quindi non comprometta in modo rilevante il bene tutelato.

11.- Alle amministrazioni che esercitano le funzioni di tutela spetta quindi il delicato compito di valutare la rilevanza del pregiudizio che il bene tutelato potrebbe subire per effetto dell’intervento edilizio progettato al fine di eliminare le barriere architettoniche.

Tale attività valutativa si connota peraltro di una sua peculiarità rispetto alle valutazioni che sono da tali amministrazioni normalmente compiute nell’esercizio del loro potere/dovere di tutela, perché, quando l’intervento edilizio è progettato al fine di eliminare le barriere architettoniche, le amministrazioni di tutela possono ritenere possibili anche interventi in grado di arrecare un pregiudizio (purché non sia rilevante) al bene tutelato e consentire, quindi, anche una parziale alterazione di un bene che altrimenti non potrebbe essere alterato.

12.- L'indicata normativa, per rafforzare tale previsione, prevede quindi che l’Amministrazione, quando si esprime in modo negativo sulla autorizzazione richiesta deve indicare gli elementi che caratterizzano il pregiudizio e la sua serietà, in concreto e in rapporto alle caratteristiche proprie del bene culturale in cui l'intervento andrebbe a collocarsi (in termini, Consiglio di Stato. Sez. VI, 12 febbraio 2014, n. 682)……dal testo e dalla ratio della legge n. 13 del 1989 non può desumersi la vigenza di un principio di superabilità e derogabilità assoluta ed automatica dei vincoli posti sugli immobili per finalità di tutela storico culturale o paesistico ambientale che permangono anche quando vi sono esigenze di tutela di soggetti portatori di minorazioni fisiche se la realizzazione delle opere rechi un serio pregiudizio all'interesse culturale protetto… (non è corretto affermare) che il legislatore ha assegnato una (generale) "prevalenza" alla eliminazione delle barriere architettoniche anche rispetto ai beni vincolati, per il loro valore storico artistico o paesaggistico, "relegando" il diniego di autorizzazione ai soli casi di accertato e motivato serio pregiudizio al bene vincolato…non vi è una generale prevalenza per le opere necessarie alla eliminazione delle barriere architettoniche, (anche) quando da effettuarsi su beni sottoposti a disposizioni di tutela per il loro interesse paesaggistico o storico artistico, dovendo in ogni caso essere valutato l'impatto di tali opere sui beni in questione e potendo tali opere essere consentite solo se non arrecano un serio pregiudizio ai beni vincolati… (così, Cons. Stato, sez. VI, n. 905 del 2016, con cui sono state condivise le conclusioni raggiunte dal T con le quali si era ritenuto che, nella fattispecie, non risultava dimostrato un pregiudizio al bene tutelato tale da poter impedire la realizzazione di un’opera volta al superamento delle barriere architettoniche ).

Tornando alla controversia odierna, per quanto concerne la realizzazione dell’ascensore esterno, la motivazione espressa dalla Soprintendenza a sostegno del parere di incompatibilità (“le opere eseguite abusivamente…consistenti…nella realizzazione di un ascensore esterno posto in un cortile interno…modificano gravemente l’estetica, gli spazi e le strutture dell’edificio”) è oggettivamente alquanto generica.

Essa non fa emergere l’esistenza di un pregiudizio al bene tutelato tanto serio da poter precludere l’assentimento –e comunque la sanabilità- dell’opera.

Non viene spiegata in concreto la serietà del pregiudizio per il bene tutelato, in relazione alla finalità dell’intervento (dagli atti risulta –secondo verosimiglianza e comunque senza contestazioni puntuali al riguardo da parte del resistente e odierno appellato- che l’impianto è necessario e di utilizzo quotidiano, “tenuto conto che l’età media delle suore che alloggiano nell’edificio è di 74 anni”) e alla collocazione dell’ascensore, avuto riguardo alle caratteristiche specifiche del bene culturale nel quale l’intervento va a inserirsi.

L’atto impugnato in primo grado non poteva basarsi su riferimenti così generici alla struttura dell’edificio.

Esso avrebbe dovuto fondarsi su un’analisi del singolo intervento, “contestualizzata” con riferimento al complesso edilizio entro il quale l’opera si colloca, dovendo valutarsi se l’intervento era tale da arrecare un pregiudizio definibile come “serio”, considerando anche che l’ascensore era stato realizzato in un cortile secondario interno.

4.2. Ma la fondatezza del profilo di censura, riproposto in appello e basato sulla genericità e, comunque, sulla insufficienza della motivazione del parere negativo di compatibilità e sulla consequenziale inadeguatezza dell’istruttoria svolta, contrassegna l’atto impugnato, diversamente da quanto ritenuto dal T, anche in relazione ai restanti interventi edilizi compiuti, meglio descritti sopra al p. 1. .

Oltre infatti all’obbligo motivazionale “rinforzato”, a carico dell’Amministrazione, di cui al citato art. 4, comma 4, della l. n. 13 del 1989, sul quale ci si è soffermati poc’anzi, in considerazione dei rilevanti interessi, connessi alla eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati, posti in rilievo dalla l. n. 13 del 1989, sussiste pur sempre, in termini, per dir così, “generali” od “ordinari”, un obbligo, in capo all’organismo preposto alla tutela dei beni culturali, di motivare in modo congruo, nel rispetto di quanto dispone l’art. 3, comma 1, della l. n. 241 del 1990, eventuali valutazioni negative di (in)compatibilità dell’intervento edilizio sul piano paesaggistico o culturale.

A quest’ultimo riguardo, nel ribadire che le valutazioni compiute dalle Soprintendenze in materia sono espressione di discrezionalità tecnica sindacabile in sede di giurisdizione di legittimità, tra l’altro, per eccesso di potere (anche) sotto i profili del difetto di motivazione e della insufficiente istruttoria, il Collegio, in ordine ai profili di illegittimità denunciati in appello, ritiene di porre in risalto l’omessa precisazione, nell’atto impugnato, delle ragioni specifiche della “grave modifica” di estetica, spazi e strutture dell’edificio, non risultando sufficiente a questo scopo l’assai stringata motivazione contenuta nell’atto impugnato avanti al T.

Dagli atti di causa non risultano individuate in concreto le ragioni di un’alterazione dei luoghi derivante dalla realizzazione degli interventi diversi dalla costruzione dell’ascensore;
non è dato cogliere, nella valutazione di (in)compatibilità compiuta dall’organo statale, un’adeguata manifestazione esterna delle ragioni per le quali le opere sono state considerate in contrasto con i valori tutelati, avuto riguardo alla situazione di contesto evidenziata sopra.

Diversamente da quanto si è ritenuto in sentenza, va condiviso il rilievo di parte appellante secondo cui la Soprintendenza ha motivato l’atto negativo in modo tutt’altro che puntuale, essendosi limitata nel complesso a fare richiamo a formule “generiche e di stile”.

L’appellante lamenta non a torto che l’organo statale non risulta aver dato conto in modo idoneo delle ragioni del proprio intervento sfavorevole, avendo omesso di spiegare in modo circostanziato le ragioni del contrasto coi valori protetti.

Le espressioni impiegate nel parere appaiono del tutto generiche, sicché esse denotano nel complesso un’insufficienza della valutazione effettuata, a sua volta conseguenza di un’istruttoria manchevole.

4.3. Esigenze di completezza nell’esame dei motivi proposti (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. , n. 5 del 2015) inducono il Collegio ad aggiungere quanto segue:

-il profilo di censura d’appello basato sull’avvenuta formazione del silenzio –assenso una volta trascorsi 120 giorni dalla domanda di autorizzazione, sulla base di quanto dispongono gli articoli 4 e 5 della l. n. 13 del 1989, integra un profilo di censura nuovo rispetto ai motivi già dedotti nel corso del giudizio di primo grado e come tale dev’essere dichiarato inammissibile, posto che davanti al T la tesi sulla formazione del silenzio assenso era stata sviluppata esclusivamente in relazione al passaggio dei 180 giorni di cui al d. m. n. 495 del 1994, mentre non si era accennato minimamente alla fattispecie del silenzio –assenso di cui agli articoli 4 e 5 della l. n. 13 del 1989 in tema di eliminazione delle barriere architettoniche;

-quanto alla asserita intervenuta formazione del silenzio assenso, ai sensi del d. m. n. 495 del 1994, per essere trascorsi più di 180 giorni tra la presentazione della domanda e l’adozione dell’atto negativo (novembre 1996 –settembre 1997), se è vero che la sentenza di primo grado non pare corretta nell’avere fondato il rigetto del motivo sul riferimento testuale all’art. 20, comma 4, della l. n. 241 del 1990, che considera inapplicabili le disposizioni sul silenzio assenso agli atti e ai procedimenti che riguardano il patrimonio culturale e paesaggistico, poiché tale ultima disposizione è stata introdotta dall’art 21, comma 1, lett. b), della l. n. 15 del 2005, poi sostituito dall’art 3, comma 6 ter, del d. l. n. 35 del 2005, convertito con modificazioni dalla l. n. 80 del 2005, e quindi molto tempo dopo l’asserita, avvenuta formazione del silenzio assenso;
è anche vero che, all’epoca della domanda e dell’adozione dell’atto impugnato in primo grado (1996 -1997), per un verso l’art. 1 del d. m. n. 495 del 1994 si limitava a prevedere l’obbligo, in capo al Ministero, di concludere i procedimenti di propria competenza, con un provvedimento espresso, nel termine stabilito, senza disporre alcunché nel senso del formarsi del silenzio assenso una volta trascorso inutilmente il termine prescritto per il procedimento “de quo”;
per altro verso, trovava applicazione il d.P.R. n. 300 del 1992, modificato con il d.P.R. n. 407 del 1994, recante regolamento concernente le attività private sottoposte alla disciplina di cui agli articoli 19 e 20 della l. n. 241 del 1990, relativo ai casi nei quali la domanda di rilascio di autorizzazioni, nulla osta o altri atti di assenso si considera accolta qualora all’interessato non venga comunicato il provvedimento di diniego nel termine stabilito. A quest’ultimo proposito, le tabelle allegate ai decreti non contemplavano il procedimento di valutazione della compatibilità degli abusi edilizi con la normativa di tutela di cui alla l. n. 1089 del 1939;

-nella fattispecie non è configurabile nessuna contraddittorietà motivazionale significativa atteso che, per stessa ammissione di parte appellante, vi è una differente incidenza sull’estetica del bene culturale, determinata dagli interventi valutati in modo positivo dalla Soprintendenza, rispetto all’intervento sul quale la Soprintendenza stessa si è espressa negativamente. Vengono in rilievo, in definitiva, situazioni distinte, in grado di determinare pregiudizi diversi a parti diverse dell’edificio, con la conseguente insussistenza di contraddittorietà tra valutazioni differenti pure compiute dalla medesima Soprintendenza.

In conclusione, per le ragioni esposte sopra, ai punti 4.1. e 4.2. , la sentenza impugnata va riformata e il ricorso di primo grado accolto, con conseguente annullamento dell’atto impugnato dinanzi al T.

Le spese e i compensi del doppio grado del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano nel dispositivo.

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