Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2010-09-17, n. 201006931

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2010-09-17, n. 201006931
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201006931
Data del deposito : 17 settembre 2010
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 04612/2009 REG.RIC.

N. 06931/2010 REG.DEC.

N. 04612/2009 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

Sul ricorso numero di registro generale 4612 del 2009, proposto da:
U.D.C. - Unione dei Democratici Cristiani e dei Democratici di Centro, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv. G G e C M, con domicilio eletto presso il secondo, in Roma, P.le Don Minzoni, 9;

contro

Democrazia Cristiana, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituito in giudizio;
G D C, P A, A A, non costituiti in giudizio;

nei confronti di

Ufficio Elettorale Centrale presso la Corte di Appello di Milano, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
R R L G e P S, rappresentati e difesi dagli avv. G G, Riccardo Marletta e Simone Pisani, con domicilio eletto presso il primo, in Roma, via Gregoriana 56;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. Lombardia – Milano, Sezione IV, n. 3869/2009, resa tra le parti, di accoglimento del ricorso presentato dal Partito della Democrazia Cristiana nonché dai sigg.ri Davide Carlo Galeone, Alessandro Patelli e Achielle Abbiati, per l’annullamento della deliberazione dell’Ufficio elettorale Centrale presso la Corte di Appello di Milano del 9.5.2009, “con cui è stato ricusato” il contrassegno della lista denominata “Democrazia Cristiana Libertas” presentato per la partecipazione alle competizioni elettorali per il rinnovo del Consiglio Provinciale di Milano.


Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di R R L G e di P S, nonché dell’Ufficio Centrale Elettorale presso la Corte d’Appello di Milano;

Vista la memoria prodotta dal Ministero dell’Interno a sostegno delle proprie difese;

Visto il Decreto cautelare n. 2732 del 2009;

Vista la propria ordinanza n. 2749 del 2009;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore, nella udienza pubblica del 13.7.2010, il Consigliere A A e uditi per le parti l’avv. Galoppi e l’avvocato dello stato Caselli, come specificato nel verbale;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.


FATTO

Con ricorso al T.A.R. Lombardia, Milano, il partito denominato “Democrazia Cristiana “ ed i signori G D C, P A ed A A hanno impugnato il verbale del 9.5.2009 dell’Ufficio Elettorale Centrale presso la Corte d’Appello di Milano, con cui tale Ufficio, nel verificare la regolarità della presentazione delle liste dei candidati alla competizione, prevista per i giorni 6 e 7 giugno 2009, per la elezione del Presidente e del Consiglio Provinciale di Milano, ha “ricusato” il contrassegno della lista denominata “Democrazia Cristiana Libertas”, nell’assunto che esso sarebbe stato confondibile con quello della già ammessa lista del partito politico “U.D.C.” (Unione di Centro).

La IV Sezione del citato T.A.R. ha accolto il ricorso con sentenza n. 3869 del 2009, ritenendo che il censurato provvedimento fosse immediatamente impugnabile e che, pur includendo entrambi i contrassegni un elemento comune rappresentato dallo scudo crociato, emergesse con sicurezza la presenza, in essi, di significativi elementi di differenziazione tali da escludere la loro confondibilità, atteso che il contrassegno del partito “U.D.C.” mostrava visivamente e portava ad identificare ed a connotare la lista da esso presentata per le elezioni di cui trattasi come lista “U.D.C. – CASINI”, mentre il contrassegno del partito “Democrazia Cristiana Libertas” mostrava visivamente e portava ad identificare ed a connotare la lista da esso presentata per le elezioni in discorso come quella del partito “Democrazia Cristiana”.

Con il ricorso in appello in epigrafe indicato il partito politico denominato “U.D.C. Unione dei Democratici Cristiani e dei Democratici di Centro” ha chiesto l’annullamento della citata sentenza, deducendo i seguenti motivi:

1.- Inammissibilità del ricorso al Giudice Amministrativo avverso atti del procedimento elettorale preparatorio e contrasto della sentenza appellata con i principi stabiliti dalla A.P. del Consiglio di Stato n. 10 del 2005.

2.- Difetto di legittimazione del partito “Democrazia Cristiana” per precedenti provvedimenti giudiziari di inibizione all’uso del simbolo dello scudo crociato.

3.- Illegittimità dell’utilizzo del simbolo dello “scudo crociato” da parte del partito “Democrazia Cristiana”. Confondibilità.

Con decreto n. 2732 dell’1.6.2009 è stata respinta la domanda di adozione di misure cautelari provvisorie.

Con memoria depositata il 3.6.2009 si sono costituiti in giudizio i sigg.ri R R L G e P S, che erano intervenuti “ad opponendum” nel giudizio di primo grado, ed hanno dedotto la fondatezza del ricorso in appello, hanno eccepito la improcedibilità e la inammissibilità del ricorso di primo grado (per impossibilità di impugnazione degli atti endoprocedimentali e per acquiescenza della “DC” all’invito contenuto nell’atto impugnato a sostituire o modificare in modo appropriato il contrassegno per cui è causa, avendo presentato un secondo contrassegno con il quale essa è stata ammessa alla competizione elettorale), concludendo per l’accoglimento del gravame.

Con atto depositato il 4.6.2009 si è costituito in giudizio l’Ufficio Elettorale Centrale presso la Corte di Appello di Milano.

Con ordinanza 5 giugno 2009 n. 2749 la Sezione ha accolto la istanza cautelare e sospeso l’efficacia della sentenza impugnata, considerato che appariva fondato il motivo di appello relativo alla improponibilità del ricorso di primo grado (Cons. Stato A.P. n. 10 del 2005).

Con memoria depositata il 4.6.2006 il Ministero dell'Interno ha chiesto la “conferma della sentenza impugnata in considerazione della inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio per difetto assoluto, ma temporaneo di giurisdizione ovvero per improponibilità di un ricorso” avverso un atto endoprocedimentale, concludendo per la reiezione dell’appello e per la declaratoria di inammissibilità o di improponibilità del ricorso introduttivo del giudizio.

Alla pubblica udienza del 13.7.2009 il ricorso è stato trattenuto in decisione alla presenza degli avvocati delle parti come da verbale di causa agli atti del giudizio.

DIRITTO

1.- Con il ricorso in appello, in epigrafe specificato, il partito politico denominato “U.D.C. - Unione dei Democratici Cristiani e dei Democratici di Centro” ha chiesto l’annullamento della sentenza del T.A.R. Lombardia, Milano, Sezione IV, n. 3869 del 2009, di accoglimento del ricorso presentato dal Partito denominato “Democrazia Cristiana” nonché dai sigg.ri P A, G D C e A A, per l’annullamento della deliberazione dell’Ufficio Elettorale Centrale presso la Corte d’Appello di Milano del 9.5.2009, di invito a sostituire o modificare in modo appropriato il contrassegno della lista denominata “Democrazia Cristiana Libertas” in vista delle competizioni elettorali per la elezione del Presidente ed il rinnovo del Consiglio Provinciale di Milano.

2.- Con il primo motivo di appello è stata eccepita la inammissibilità del ricorso al Giudice Amministrativo avverso atti del procedimento elettorale preparatorio ed è stata dedotta la sussistenza di contrasto della sentenza appellata con i principi stabiliti dalla A.P. del Consiglio di Stato con sentenza n. 10 del 2005.

Il ricorso sarebbe stato precluso dall’art. 83, “comma 1” (recte: 83 undecies) del D.P.R. n. 570 del 1960 che, secondo la citata Adunanza Plenaria, è interpretabile nel senso che gli atti del procedimento elettorale non possono essere immediatamente impugnati prima della proclamazione degli eletti, in base al principio generale di concentrazione della tutela giurisdizionale, al quale consegue l’accorpamento di tutte le eventuali impugnative, riferibili allo stesso procedimento elettorale, al suo momento conclusivo (al fine di garantire lo svolgimento della consultazione elettorale nel termine stabilito e di assicurare il rispetto degli interessi pubblicistici sottesi).

Non contrasterebbe la impossibilità di chiedere immediate misure cautelari con il principio che il potere di sospensione della esecuzione degli atti è connaturato al sistema di tutela giurisdizionale, perché essa sarebbe ragionevolmente giustificata dall’intendimento del legislatore di consentire lo svolgimento della consultazione nel termine stabilito.

Né sarebbe condivisibile la interpretazione fondata sul termine “operazioni” contenuta nella impugnata sentenza, atteso che sarebbe evidente che con detto termine il legislatore ha inteso comprendere l’intero percorso del procedimento elettorale, allo scopo di evitare interruzioni nel suo iter, causa di disfunzioni ed ostacoli che detta disposizione ha inteso eliminare.

2.1.- Osserva il Collegio che con la sentenza della Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 24 novembre 2005 n. 10 è stata affermata l’impugnabilità degli atti endoprocedimentali riguardanti le operazioni elettorali solo in epoca successiva alla proclamazione degli eletti in base al disposto dell’art. 83 undecies, primo comma, del D.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (dettato per le elezioni comunali, ma applicabile anche alle elezioni provinciali, in forza dell’art. 7, secondo comma, della legge 23 dicembre 1966 n. 1147).

La sentenza del T.A.R. Lombardia impugnata si è discostata dal principio fissato dalla citata Adunanza Plenaria, e seguito da ulteriore giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sezione V, sentenza n. 3113 del 2009), sostenendo la tesi che è consentita la immediata impugnabilità in sede giurisdizionale degli atti di ricusazione di liste elettorali perché il citato art. 83 undecies, primo comma, interpretato alla luce principi di cui agli artt. 24 e 113 della Costituzione, deve ritenersi che si riferisca solo alle “operazioni” elettorali, e non già agli atti amministrativi inerenti alla materia in questione (che sono vere e proprie manifestazioni di volontà dell’Amministrazione);
ciò considerato anche che fa riferimento solo alle operazioni elettorali, e non ad atti o provvedimenti amministrativi, l’art. 6 della L. n. 1034 del 1971, che assegna alla giurisdizione amministrativa i ricorsi elettorali.

2.2.- Rileva tuttavia la Sezione che, nelle more, si è al riguardo espressa la Corte Costituzionale con sentenza della n. 236 del 7 luglio 2010, che ha osservato che il potere di sospensione dell’esecuzione dell’atto amministrativo è «elemento connaturale» di un sistema di tutela giurisdizionale incentrato sull’annullamento degli atti delle pubbliche amministrazioni e che la posticipazione dell’impugnabilità degli atti di esclusione di liste o candidati ad un momento successivo allo svolgimento delle elezioni precluderebbe la possibilità di una tutela giurisdizionale efficace e tempestiva delle situazioni soggettive immediatamente lese dai predetti atti, con conseguente violazione degli artt. 24 e 113 della Costituzione.

Posto che l’interesse del candidato è quello di partecipare ad una determinata consultazione elettorale, ogni forma di tutela intervenuta ad elezioni concluse, è, secondo detta Corte, inidonea ad evitare che l’esecuzione del provvedimento illegittimo di esclusione abbia, nel frattempo, prodotto un pregiudizio e non può trovare giustificazione nelle peculiari esigenze di interesse pubblico che caratterizzano il procedimento in materia elettorale, in particolare quello preparatorio alle elezioni, nel quale è inclusa la fase dell’ammissione di liste o di candidati, gli atti relativi al quale debbono poter essere impugnati immediatamente, al fine di assicurare la piena tutela giurisdizionale, ivi inclusa quella cautelare, garantita dagli artt. 24 e 113 della Costituzione;
ciò considerato che lo stesso legislatore, con l’art. 44 della legge n. 69 del 2009, ha delegato il Governo ad adottare norme che consentano l’autonoma impugnabilità degli atti cosiddetti endoprocedimentali immediatamente lesivi di situazioni giuridiche soggettive.

Con detta sentenza la Corte Costituzionale ha invero ritenuto non condivisibile la tesi in base alla quale la regola della non impugnabilità dei provvedimenti di esclusione delle liste elettorali sarebbe necessariamente imposta dalle esigenze di speditezza del procedimento elettorale sancite dall’art. 61 della Costituzione, che non solo si riferisce alle elezioni delle Camere, ma non afferma espressamente un principio di speditezza, né tanto meno una prevalenza di detto principio sul diritto, garantito dagli artt. 24 e 113 della Costituzione, a una tutela giurisdizionale piena e tempestiva contro gli atti della pubblica amministrazione.

Quindi la Corte Costituzionale, richiamati gli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ha ritenuto insostenibile la tesi in base alla quale la possibilità dell’intervento del Giudice amministrativo nella fase iniziale del procedimento elettorale rischierebbe di creare incertezze nel corpo elettorale (essendo essenziale assicurare una tutela giurisdizionale piena e tempestiva, nel rispetto degli artt. 24 e 113 della Costituzione) ed ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 83-undecies del D.P.R. n. 570 del 1960, nella parte in cui esclude la possibilità di un’autonoma impugnativa degli atti del procedimento preparatorio alle elezioni, ancorché immediatamente lesivi, anteriormente alla proclamazione degli eletti.

2.3.- Osserva il Collegio che le sentenze della Corte Costituzionale, dichiarative dell'incostituzionalità di norme di legge, hanno, come è noto, effetti retroattivi e incontrano il solo limite dei c.d. diritti quesiti e dei c.d. rapporti esauriti.

La retroattività della pronuncia del Giudice delle leggi, che accerta l'incostituzionalità della norma, può quindi incidere solo su situazioni giuridiche non ancora esaurite o consolidatesi.

Nel caso che occupa, pendendo ancora il giudizio circa i limiti della applicabilità dell’art. 83 undecies del D.P.R. n. 570 del 1960, è quindi doveroso applicare il principio affermato in detta sentenza della Corte Costituzionale e devesi pertanto ritenere che siano da ritenere superate le critiche contenute nell’atto di appello alla affermazione contenuta nella sentenza appellata che detta norma fosse interpretabile nel senso che gli atti di ricusazione di liste elettorali sono immediatamente impugnabili in sede giurisdizionale.

La censura in esame è da valutare quindi come insuscettibile di positiva valutazione.

3.- Con il secondo motivo di gravame è stato eccepito il difetto di legittimazione del partito della “Democrazia Cristiana” in merito alle domande proposte in primo grado, a seguito di precedenti provvedimenti giudiziari di inibizione ad esso partito dell’uso del simbolo dello “scudo crociato”, come l’ordinanza del Tribunale di Roma del 22.4.009, di accoglimento di un ricorso ex art. 700 c.p.c., confermato in sede collegiale dal Tribunale di Roma con ordinanza depositata in data 13.5.2009.

Rileva in proposito la Sezione che il giudizio in esame non verte sulla titolarità del partito denominato “Democrazia Cristiana” a fare uso del simbolo dello “scudo crociato”, ma solo ed esclusivamente sulla legittimità del provvedimento del 9.5.2009 dell’Ufficio Elettorale Centrale presso la Corte d’Appello di Milano, di invito a sostituire o modificare il contrassegno denominato “Democrazia Cristiana Libertas” perché esso “…è facilmente confondibile – sia per gli elementi letterali, sia per gli elementi grafici e cromatici – con altro contrassegno notoriamente e legittimamente usato dal Partito U.D.C. (Unione di Centro)…”.

A prescindere dall’adozione dei sopra citati provvedimenti di inibizione all’uso del simbolo dello “scudo crociato” deve quindi ritenersi che il partito presentatosi alle elezioni di cui trattasi con il contrassegno “Democrazia Cristiana Libertas” fosse, all’epoca di proposizione del ricorso di primo grado, pienamente titolare di interesse ad agire concreto ed attuale e di legittimazione attiva ad impugnare il citato provvedimento di detto Ufficio Elettorale, basato non sull’illegittimo uso del simbolo dello “scudo crociato” ma sulla confondibilità del contrassegno sopra indicato con quello, già ammesso, del partito denominato “U.D.C.”, che ha costituito esclusivo oggetto del ricorso di primo grado e che costituisce questione giuridica del tutto autonoma rispetto a quella relativa alla utilizzabilità del simbolo “scudo crociato”, che non è stata affatto oggetto di apprezzamento di detto Ufficio.

La eccezione in esame non è quindi favorevolmente apprezzabile, non potendo la questione della legittimità dell’uso del simbolo dello “scudo crociato” trovare ingresso nel presente giudizio, il cui oggetto era in primo grado, ed è tuttora, circoscritto all’accertamento della legittimità del citato provvedimento dell’Ufficio Elettorale citato, basato esclusivamente sulla confondibilità dei due contrassegni in questione.

4.- Con il terzo motivo di appello è stata dedotta la illegittimità dell’utilizzo del simbolo dello “scudo crociato” da parte del partito “Democrazia Cristiana”, nonché è stata affermata la confondibilità del contrassegno da esso presentato con quello del partito “U.D.C.”.

L’invito rivolto dall’Ufficio Elettorale al partito della “Democrazia Cristiana” a sostituire il contrassegno depositato per le elezioni provinciali del 6-7 giugno 2009 sarebbe giusto e conforme alla legge, che conferisce alla Amministrazione il potere di intervenire e prevenire tutte le ipotesi in cui i contrassegni siano facilmente confondibili per l’opinione pubblica, al fine di impedire errori dell’elettore o lo sviamento dell'elettorato.

Posto che il partito politico denominato “U.D.C.” con il proprio simbolo ha nell’attuale legislatura circa 40 rappresentanti in Parlamento mentre il partito della “Democrazia Cristiana” non ne ha mai avuto alcuno, sussisterebbe evidente somiglianza e confondibilità tra i contrassegni in esame, come più volte rilevato dall’Ufficio Elettorale Nazionale presso la Corte Suprema di Cassazione, che, in particolare, con provvedimento del 26.4.2009, confermato dal T.A.R. Lazio con sentenza n. 5001 del 2009, ha respinto l’opposizione del partito della “Democrazia Cristiana” riconoscendo prevalenza al contrassegno del partito “U.D.C.” e rilevato che la presenza contemporanea dei simboli presentati da detti partiti sulla scheda elettorale era tale da ingenerare confusione e trarre in errore l’elettore. Detto Ufficio, già con provvedimenti dell’1.5.2004 e dell’8.3.2008, aveva affermato che la presenza contemporanea dei due simboli in questione sulla scheda elettorale era tale da ingenerare confusione e trarre in errore l’elettore e, con provvedimento del 4.3.2006, aveva evidenziato che assumeva rilevanza, per quel che riguarda la confondibilità, la preponderante rilevanza in entrambi i contrassegni del simbolo dello “scudo crociato”.

Anche il T.A.R. Lazio, con sentenza n. 10184 del 2004, aveva respinto il ricorso del partito “Democrazia Cristiana” volto ad ottenere l’uso del simbolo dello “scudo crociato”, sostenendo che l’iniziativa sarebbe stata suscettibile di ingenerare confusione, e la Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 1305 del 2009, ha stabilito che il partito della “Democrazia Cristiana” non ha legittimazione all’uso di detto simbolo.

Premesso che il partito denominato “Democrazia Cristiana” non sarebbe identificabile con lo storico partito della “Democrazia Cristiana”, la sentenza impugnata non solo contraddittoriamente affermerebbe di voler recepire la citata sentenza della Corte di Appello di Roma e poi “sembra accreditare” la tesi del riconoscimento in capo a controparte del ruolo di continuatrice della storica “D.C.”, ma non avrebbe tenuto conto della circostanza che il sopra citato partito politico non ha mai usato il simbolo dello “scudo crociato” in occasione di precedenti competizioni elettorali e non ha rappresentanti in Parlamento.

4.1.- Innanzi tutto il Collegio ribadisce che esulano dall’oggetto del presente giudizio le considerazioni contenute nell’atto di appello circa la legittimità o meno dell’uso del simbolo dello “scudo crociato” da parte del partito della “Democrazia Cristiana”, vertendo il giudizio sulla confondibilità o meno del contrassegno “Democrazia Cristiana Libertas” presentato per la partecipazione alle elezioni di cui trattasi dal gruppo di candidati “n. 12” con quello presentato dal partito “U.D.C.”.

4.2.- La Sezione ritiene inoltre che possa prescindersi dall’esaminare la dedotta censura di contraddittorietà tra il richiamo contenuto in sentenza al contenuto della sentenza della Corte di Appello di Roma n. 1305 del 2009 e la asserzione che il contrassegno “Democrazia Cristiana Libertas” porta ad identificare la lista come la lista della storica “Democrazia Cristiana”, configurando quest’ultima affermazione un “obiter dictum”, esulante dall’iter logico sostanziale seguito dal T.A.R. di Milano per affermare la non confondibilità dei due contrassegni in questione.

4.3.- Nel merito il Collegio deve innanzi tutto rilevare che i due contrassegni in questione presentavano svariati elementi di difformità tra di loro.

Infatti, dal punto di vista grafico il contrassegno della lista del partito “U.D.C.” appare, al contrario dell’altro, delimitato in due parti ben distinte e tra loro e porta impressa nella parte superiore, in caratteri di rilevante grandezza e ben marcati, la scritta “CASINI”. Se pure nella parte inferiore, occupante circa i due terzi dello spazio, di detto contrassegno, è presente, al centro, il simbolo dello “scudo crociato” (con la dicitura “LIBERTAS”), esso non solo appare di misura ridotta rispetto a quello riportato sul simbolo dell'altra lista, ma è anche sovrapposto alla rappresentazione di uno stendardo e di una vela stilizzati, e, al disotto, riporta la dicitura “UDC”, di grandezza pari a quella della scritta “CASINI”.

Il contrassegno della lista” Democrazia Cristiana Libertas” presenta invece soltanto, e a tutto campo, l’emblema dello scudo crociato con la dicitura “LIBERTAS” e, sotto, la scritta “DEMOCRAZIA CRISTIANA” corrente -da sinistra a destra- lungo la parte interna inferiore del cerchio in cui è impresso il contrassegno.

Preso atto delle differenze sussistenti tra i due contrassegni in questione, evidenziate da detta descrizione analitica, ed a prescindere quindi sia dalla legittimità o meno dell'uso da parte del partito denominato “Democrazia Cristiana” del simbolo dello “scudo crociato” e sia dalla circostanza se detto partito sia o meno continuatore dello storico partito della “Democrazia Cristiana”, ritiene il Collegio che correttamente il T.A.R. Lombardia abbia affermato che i due simboli presentati per la partecipazione alle elezioni provinciali di cui trattasi non fossero assolutamente facilmente confondibili da parte degli elettori e tali da comportare errori o il loro sviamento.

Dalla comparazione globale dei due contrassegni risulta infatti evidente che essi sono caratterizzati da elementi comportanti diverso impatto visivo, come la diversità dei colori prevalenti, e sostanziale diversità, derivante dalla presenza nel simbolo del partito ”UDC” della indicazione, con grandi caratteri e aspetto cromatico autonomo, della scritta “CASINI”, circostanza questa cui deve attribuirsi grande rilievo considerata la rilevanza che nel presente periodo storico in quasi tutti i contrassegni elettorali assume la indicazione del “leader” del Partito.

Il complesso di detti elementi di diversità, sommati a quella della maggior parte degli elementi letterali e cromatici che contraddistinguono i contrassegni in questione, non può che portare alla affermazione della non confondibilità degli stessi e della impossibilità di ingenerare confusione negli elettori, come correttamente rilevato con la impugnata sentenza.

La censura in esame non può quindi essere oggetto di positivo apprezzamento.

5.- Va poi esaminata da parte del Collegio la eccezione formulata dagli intervenienti sigg.ri R R L G e P S in primo grado e ribadita in grado di appello, di improcedibilità e inammissibilità del ricorso di primo grado per acquiescenza del partito della “DC” all’invito contenuto nell’atto impugnato a sostituire o modificare in modo appropriato il contrassegno per cui è causa, avendo essa formazione politica presentato un secondo contrassegno con il quale è stata ammessa alla competizione elettorale.

Deve essere considerato in proposito che l'acquiescenza, intesa come accettazione espressa o tacita del provvedimento amministrativo lesivo - quale istituto di diritto sostanziale, procedimentale e processuale - si configura solo in presenza di una condotta da parte dell'avente titolo all'impugnazione che sia libera e inequivocabilmente diretta a non più contestare l'assetto di interessi definito dall'amministrazione attraverso gli atti oggetto di impugnazione.

In quanto incidente sul fondamentale diritto di agire in giudizio, l'accertamento in ordine all'avvenuta acquiescenza al contenuto ed agli effetti di un provvedimento lesivo deve essere accurato ed esauriente e svolgersi su tutti i dati fattuali che hanno caratterizzato la dichiarazione negoziale, da cui deve risultare senza alcuna incertezza la presenza di una chiara intenzione definitiva di non rimettere in discussione l'atto lesivo (Consiglio Stato, sez. IV, 31 luglio 2009, n. 4854).

Si verifica dunque acquiescenza ad un provvedimento amministrativo solo nel caso in cui ci si trovi in presenza di atti, comportamenti o dichiarazioni univoci, posti liberamente in essere dal destinatario dell'atto, che dimostrino la chiara ed incondizionata volontà di non contestarlo.

Nel caso che occupa deve escludersi che tutti i dati fattuali indichino senza incertezze la presenza di una chiara intenzione definitiva dei ricorrenti di primo grado di non contestare e fare acquiescenza al provvedimento per cui è causa.

Immediatamente dopo la adozione in data 9.5.2009 da parte dell’Ufficio Elettorale di cui trattasi del provvedimento di invito a sostituire o modificare in modo appropriato il contrassegno definito confondibile, la formazione politica “Democrazia Cristiana” ha infatti presentato e coltivato ricorso giurisdizionale per ottenerne l’annullamento, manifestando così apertamente l’intenzione, nonostante l’avvenuta presentazione nelle more di un simbolo rettificato a seguito di detto invito (evidentemente frutto di insindacabile intento precauzionale), di mettere apertamente in discussione detto provvedimento, definito in sede giurisdizionale illegittimo e lesivo.

Le considerazioni che precedono escludono la possibilità di favorevole apprezzamento della eccezione in esame.

6.- L’appello deve essere conclusivamente respinto e deve essere confermata la prima decisione.

7.- La complessità delle questioni trattate, nonché la peculiarità e la novità del caso, denotano la sussistenza delle circostanze di cui all’art. 92, II c., del c.p.c., come modificato dall’art. 45, XI c., della L. n. 69 del 2009, che costituiscono ragione sufficiente per compensare fra la parti le spese del presente grado di giudizio.

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