Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2020-01-21, n. 202000486

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2020-01-21, n. 202000486
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202000486
Data del deposito : 21 gennaio 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 21/01/2020

N. 00486/2020REG.PROV.COLL.

N. 04068/2017 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4068 del 2017, proposto dal sig. -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato G P, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato G O D S P in Roma, via San Tommaso D’Aquino, 116;

contro

Ministero dell’economia e delle finanze – Comando generale della Guardia di finanza, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliato ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia – Milano - Sezione Terza, n-OMISSIS-, resa tra le parti, concernente la presa d’atto della cessazione dal servizio permanente nella Guardia di finanza a seguito di condanna alla pena accessoria della rimozione dal grado inflitta in sede penale.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Amministrazione intimata;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 dicembre 2019 il consigliere L L e uditi per le parti l’avvocato G P e l’avvocato dello Stato Maria Letizia Guida;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Oggetto del presente giudizio è la determinazione prot. n. 22718 del 15 aprile 2016, con cui il Comandante regionale della Lombardia della Guardia di finanza ha dato atto che il -OMISSIS-, già sospeso precauzionalmente dall’impiego a titolo discrezionale, è rimosso dal grado a decorrere dal 25 novembre 2015 con decorrenza, ai soli fini giuridici, dal 17 luglio 2010.

Nel provvedimento si osserva che:

- con determinazione del 16 luglio 2010 il Comandante interregionale dell’Italia Nord-Occidentale aveva adottato, nei confronti del-OMISSIS-, il provvedimento di sospensione precauzionale dall’impiego a titolo facoltativo con decorrenza 17 luglio 2010, in conseguenza della condanna penale inflitta al militare in primo grado per il reato di cui all’art. 317 c.p.;

- in data 25 novembre 2015 era divenuta definitiva (a seguito di dichiarazione di inammissibilità del ricorso in Cassazione) la condanna penale alla pena della reclusione per anni 3 e mesi 8 per il reato di cui all’art. 319- quater c.p. (così riqualificata l’originaria imputazione), inflitta con la sentenza della Corte di appello di Milano in data 10 gennaio 2014;

- con ordinanza in data 29 marzo 2016 la Corte di appello di Milano aveva corretto la citata sentenza del 10 gennaio 2014, applicando al condannato la pena accessoria della rimozione, non specificamente menzionata nel corpo della sentenza;

- con istanza del 5 aprile 2016 la locale Procura generale aveva chiesto la correzione dell’errore materiale contenuto in siffatta ordinanza, consistente nell’indicazione della pena principale comminata, quantificata in anni 4 di reclusione anziché in anni 3 e mesi 8.

Ritenendo che, “ ai sensi dell’art. 130 c.p.p., la correzione delle ordinanze inficiate da errori od omissioni che non determinano nullità e la cui eliminazione non comporta una modificazione essenziale dell’atto è disposta, anche d’ufficio, dal giudice che ha emesso il provvedimento e che, pertanto, la richiamata ordinanza del 26 marzo 2016 non è affetta da nullità, continuando ad esplicare i propri effetti ”, il Comandante regionale, a tenore dell’art. 867, commi 3 e 5, cod.ord.mil. e sulla base della delega di funzioni conferita dal Comandante generale del Corpo, ha dato atto dell’effetto giuridico della rimozione di diritto del -OMISSIS-a decorrere dal 25 novembre 2015, con decorrenza giuridica retrodatata all’inizio della sospensione precauzionale dall’impiego.

Con coevo provvedimento prot. n. 227266 il Comandante regionale ha, altresì, disposto la chiusura del procedimento disciplinare di stato in corso nei confronti del-OMISSIS-, in considerazione del venire meno del requisito soggettivo dell’appartenenza al Corpo.

2. L’interessato ha impugnato i predetti provvedimenti (oltre agli altri connessi) avanti il T.a.r. per la Lombardia, chiedendone l’annullamento (con conseguente condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno) sulla scorta delle seguenti censure.

a) In primo luogo, il ricorrente ha osservato che, ai sensi dell’art. 2149, comma 8, cod.ord.mil., “ Fermo restando quanto previsto dall'articolo 866, per il personale del Corpo della Guardia di finanza la perdita del grado è disposta, previo giudizio disciplinare, in caso di condanna definitiva, non condizionalmente sospesa, per reato militare o delitto non colposo che comporti la pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici oppure una delle pene accessorie di cui all'articolo 19, primo comma, numeri 2) e 6), del codice penale ”;
l’art. 866, viceversa, stabilisce che “ La perdita del grado, senza giudizio disciplinare, consegue a condanna definitiva, non condizionalmente sospesa, per reato militare o delitto non colposo che comporti la pena accessoria della rimozione o della interdizione temporanea dai pubblici uffici, oppure una delle pene accessorie di cui all'articolo 19, comma 1, numeri 2) e 6) del codice penale ”.

Il ricorrente ha, pertanto, sostenuto che, di regola, il personale della Guardia di finanza possa essere rimosso dal grado solo a seguito di procedimento disciplinare, salvo il caso in cui la sentenza penale di condanna abbia, altresì, irrogato la sanzione accessoria della rimozione.

Nel caso di specie, tuttavia, da un lato la sentenza della Corte di Appello del 10 gennaio 2014 non menzionava siffatta pena accessoria, dall’altro la successiva ordinanza del 29 marzo 2016 era oggetto sia di un procedimento di correzione di errore materiale radicato dalla locale Procura Generale, sia di impugnazione presso la Corte di cassazione formulata dal medesimo ricorrente.

Ad avviso del ricorrente, tali procedimenti, ancora pendenti, impedirebbero di annettere valenza di giudicato all’ordinanza del 29 marzo 2016, con conseguente assenza del presupposto normativo cui è subordinato l’effetto ex lege della rimozione.

b) In secondo luogo, il ricorrente ha lamentato che l’applicazione della rimozione senza previo procedimento disciplinare sarebbe contraria a pronunce della Corte costituzionale (si fa riferimento, in particolare, alla sentenza n. 363 del 30 ottobre 1996), al principio generale contenuto nell’art. 9 della l. n. 19 del 1990, nonché al disposto dell’art. 2149, comma 8, cod.ord.mil.;
ove, tuttavia, tale ultima disposizione fosse interpretata come ammissiva della possibilità di disporre la rimozione senza previo giudizio disciplinare, il ricorrente ha dedotto questione di legittimità costituzionale per violazione degli articoli 3, 97, 52 e 117 (nonché anche 4, 24 e 35) della Costituzione.

c) In terzo luogo, il ricorrente ha contestato la retrodatazione al 17 luglio 2010 degli effetti della rimozione, che, di contro, avrebbe dovuto decorrere “ dal momento della notifica del provvedimento all’interessato o, a tutto concedere, dal momento del passaggio in giudicato della pena accessoria della rimozione ”.

d) In quarto luogo, il ricorrente ha lamentato l’illegittimità della sospensione, a decorrere dal mese di maggio 2016, del trattamento economico in godimento, in assenza “ di alcun preventivo decreto ministeriale che avesse disposto la perdita del grado ovvero la cessazione permanente dall’impiego e dal diritto alla riscossione del relativo stipendio ”.

3. Costituitasi in resistenza l’Amministrazione, con la sentenza indicata in epigrafe il T.a.r. ha respinto il ricorso, confutando tutte le censure ivi articolate.

4. Il-OMISSIS- ha interposto appello, riproponendo criticamente –attraverso l’articolazione di tre mezzi di gravame (da pagina 6 a pagina 18 del ricorso) - le censure di prime cure.

Si è costituita l’Amministrazione.

Il ricorso è stato trattato alla pubblica udienza del 12 dicembre 2019, in vista della quale le parti hanno versato in atti difese scritte.

5. Il ricorso in appello non merita accoglimento.

5.1. Il Collegio, preliminarmente, rileva la tardività della memoria depositata da parte ricorrente in data 29 novembre 2019, di cui, dunque, non si terrà conto.

Ai sensi dell’art. 73 c.p.a., infatti, le parti possono versare in atti difese scritte “ fino a trenta giorni liberi prima dell’udienza ”: nella specie, detto termine scadeva in data 11 novembre 2019.

Né il fatto che tale memoria contenga anche la nomina di nuovo difensore può legittimare la violazione dei termini processuali, difettando un’apposita norma che autorizzi una deroga di tal fatta.

5.2. Quanto al merito, il Collegio esamina direttamente il ricorso di primo grado - che, del resto, individua e perimetra ab origine l’oggetto del giudizio, ai sensi dell’art. 104 c.p.a. - ed evidenzia quanto segue, con riferimento all’ordine delle doglianze articolato nel ricorso di primo grado.

6. Premesso che il ricorrente non ha titolo per censurare, in questa sede, assunte violazioni procedimentali in tesi verificatesi nel corso del procedimento penale (i cui esiti e contenuti costituiscono un dato di fatto per l’Amministrazione prima e per il giudice amministrativo poi), il Collegio osserva che l’art. 2149, comma 8, cod.ord.mil. stabilisce che la perdita del grado, con riferimento al personale della Guardia di finanza, consegue, di regola, a procedimento disciplinare, “ fermo restando quanto previsto dall'articolo 866 ”, ai sensi del quale, per quanto qui di interesse, “ la perdita del grado, senza giudizio disciplinare, consegue a condanna definitiva, non condizionalmente sospesa, per reato militare o delitto non colposo che comporti la pena accessoria della rimozione … ”.

Dal combinato disposto delle due norme, dunque, si trae che, nei particolari casi in cui un militare della Guardia di finanza sia attinto da una condanna penale definitiva, non condizionalmente sospesa, per reato militare o per delitto (comune) che comporti la pena accessoria della rimozione, l’effetto giuridico della rimozione si produca di pieno diritto, senza che sia necessario instaurare il procedimento disciplinare (o, eventualmente, proseguire il procedimento in precedenza già avviato).

Come noto, la rimozione:

- costituisce una pena militare accessoria (art. 24 c.p.m.p.);

- “ si applica a tutti i militari rivestiti di un grado appartenenti a una classe superiore all'ultima;
è perpetua, priva il militare condannato del grado e lo fa discendere alla condizione di semplice soldato o di militare di ultima classe. La condanna alla reclusione militare, salvo che la legge disponga altrimenti, importa la rimozione quando è inflitta per durata superiore a tre anni
” (art. 29 c.p.m.p);

- di regola, “ decorre, ad ogni effetto, dal giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile ” (art. 34 c.p.m.p.).

A tenore dell’art. 33 c.p.m.p. la rimozione, inter alia , si applica ex lege ai casi in cui la pena della reclusione cui sia stato condannato, in sede penale, il militare debba essere sostituita, in fase esecutiva, con la pena della reclusione militare.

Nella vicenda di specie accade proprio questo: ai sensi dell’art. 63, n. 3, c.p.m.p., infatti, la condanna inflitta al ricorrente, militare in s.p.e., è sostituita di diritto con la condanna alla reclusione militare “ per egual durata ”, giacché la relativa misura (anni 3 e mesi 8) non importa, ai sensi dell’art. 29 c.p., l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, con conseguente inoperatività della più rigida previsione di cui all’art. 63, n. 2, c.p.m.p..

Il Collegio osserva, incidentalmente, che la rimozione (e le misure interdittive equiparabili), come ripetutamente affermato da questo Consiglio (cfr. da ultimo Sez. IV, ord. n. 1606 del 2016;
Sez. VI, n. 389 del 2014;
Sez. IV, n. 4292 del 2012;
Sez. IV, n. 6437 del 2010) e come, del resto, riconosciuto dallo stesso ricorrente (cfr. atto di appello, pag. 7), proprio in quanto produce, quale effetto ineludibile, specifico e caratteristico, la perdita del grado, determina conseguentemente ed automaticamente, a valle, ai sensi dell’art. 923, comma 1, lett. i], cod.ord.mil., la cessazione del rapporto d’impiego.

Del resto, la Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 268 del 2016), nel dichiarare costituzionalmente illegittimi gli articoli 866, comma 1, 867, comma 3 e 923, comma 1, lettera i], cod.ord.mil. “ nella parte in cui non prevedono l’instaurarsi del procedimento disciplinare per la cessazione dal servizio per perdita del grado conseguente alla pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici ”, ha espressamente e specificamente valorizzato, a sostegno della decisione di accoglimento, il carattere “ provvisorio e, quindi, tale da non escludere la prosecuzione del rapporto momentaneamente interrotto ” proprio della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici.

Vi sono, dunque, evidenti ragioni per ritenere il decisum della Corte non estensibile alle conseguenze delle pene accessorie di carattere perpetuo, quali l’interdizione perpetua dai pubblici uffici (art. 28 c.p.), l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego (art. 32- quinquies c.p.) e, appunto, la rimozione.

Con specifico riferimento all’interdizione perpetua dai pubblici uffici ed all’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego, infatti, nell’arresto citato supra la Corte ha espressamente sostenuto, con argomentazioni perfettamente riferibili anche all’ipotesi della rimozione, che “ solo eccezionalmente l’automatismo [della destituzione del militare] potrebbe essere giustificato: segnatamente quando la fattispecie penale abbia contenuto tale da essere radicalmente incompatibile con il rapporto di impiego o di servizio, come ad esempio quella sanzionata anche con la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici ex art. 28, secondo comma, cod. pen. (sentenze n. 286 del 1999 e n. 363 del 1996) o dell’estinzione del rapporto di impiego ex art. 32-quinquies c.p..

Queste ragioni di incompatibilità assoluta con la prosecuzione del rapporto di impiego – che giustifica l’automatismo destitutorio non come sanzione disciplinare, ma come effetto indiretto della pena già definitivamente inflitta – non sussiste in relazione all’interdizione temporanea dai pubblici uffici ex art. 28, terzo comma, cod. pen., connotata per definizione da un carattere provvisorio e, quindi, tale da non escludere la prosecuzione del rapporto momentaneamente interrotto ”.

Le esposte considerazioni consentono di ritenere superate le argomentazioni svolte nella precedente pronuncia della Corte costituzionale n. 363 del 1996, oltretutto riferite ad un corpus normativo frattanto abrogato.

7. Non vi sono, di converso, ragioni per sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 2149, comma 8, cod.ord.mil..

La disposizione, come visto, fa salvo “ quanto previsto dall'articolo 866 ”: questa disposizione, a sua volta, fa riferimento a condanne per un reato che “ comporti la pena accessoria della rimozione o della interdizione temporanea dai pubblici uffici, oppure una delle pene accessorie di cui all'articolo 19, comma 1, numeri 2) e 6) del codice penale ”.

Il riferimento, dunque, non è a condanne che esplicitamente irroghino, tra l’altro, la pena accessoria della rimozione, ma a condanne che “ comportino ”, di diritto, siffatta pena accessoria.

In sostanza, la norma che si trae dall’articolo in commento dimostra chiaramente, tramite l’esposta scelta lessicale, di prescindere dal tenore letterale della sentenza di condanna e di guardare, viceversa, alle relative conseguenze in diritto.

Del resto, in una più ampia visione sistemica, la rimozione, quale pena accessoria perpetua che opera ope legis , non ope judicis e che è predeterminata nella specie e nella durata, trova ( recte , deve trovare) applicazione indipendentemente dalla relativa menzione nella sentenza di condanna.

Calando tali considerazioni generali nella fattispecie di cui al presente giudizio, si ha che già all’indomani della sentenza della Cassazione del 25 novembre 2015, l’Amministrazione avrebbe potuto adottare il provvedimento ricognitivo della cessazione del rapporto d’impiego: la sentenza della Corte d’appello di Milano del 10 gennaio 2014, infatti, comportava ex lege la pena accessoria della rimozione.

Tale conclusione è, per vero, confermata:

- sia dall’ordinanza della Corte di appello di Milano del 29 marzo 2016, emessa con la procedura prevista per la correzione dell’errore materiale, ove si precisa che “ è possibile procedere … in quanto la richiesta pena accessoria discende con assoluta automaticità dalla condanna irrevocabile ”;

- sia dalla successiva ordinanza emessa in data 28 novembre 2017, con le forme dell’incidente di esecuzione, dalla medesima Corte a definizione del giudizio di opposizione (così riqualificato dalla Corte di cassazione, con ordinanza del 16 marzo 2017, l’originario ricorso per cassazione radicato dall’odierno ricorrente), ove si sostiene che “ quella richiesta (rimozione dal grado) è una pena accessoria, che a norma degli articoli 29, 33 e 63 del c.p.m.p. consegue di diritto ed in modo automatico alla condanna per il reato di cui all’art. 319-quater c.p. e che, ove sia stata omessa in sentenza dal giudice della cognizione, può essere disposta dal giudice dell’esecuzione nelle forme del relativo procedimento ”.

8. La retrodatazione della decorrenza giuridica della cessazione del rapporto di impiego al momento della prima applicazione della misura della sospensione precauzionale dal servizio risponde al disposto della norma speciale di cui all’art. 867, comma 5, cod.ord.mil., ai sensi della quale “ la perdita del grado decorre dalla data di cessazione dal servizio, ovvero, ai soli fini giuridici, dalla data di applicazione della sospensione precauzionale, se sotto tale data, risulta pendente un procedimento penale o disciplinare che si conclude successivamente con la perdita del grado, salvo che il militare sia stato riammesso in servizio ”.

Nella specie, osserva il Collegio, l’odierno ricorrente, per quanto agli atti, non è mai stato riammesso in servizio per tutto il periodo intercorrente tra la prima applicazione della misura precauzionale, disposta allorché era già pendente il procedimento penale a suo carico, e la definizione del giudizio penale stesso: ricorrono, quindi, gli estremi della disposizione in commento.

8.1. Non ha pregio, in senso contrario, l’osservazione del ricorrente, secondo cui la disposizione dell’art. 867, comma 5, cod.ord.mil. non troverebbe applicazione per il personale della Guardia di finanza, in quanto non richiamata nella versione dell’art. 2136 del medesimo codice vigente ratione temporis.

Sul punto, il Collegio osserva che:

a) in base al combinato disposto degli artt. 1, comma 2, cod.ord.mil. e 10, l. n. 189 del 1959, al personale della Guardia di finanza continuano ad applicarsi automaticamente tutte le disposizioni in materia di disciplina previste per gli appartenenti all’Esercito Italiano (e ciò per il carattere strutturalmente militare del Corpo e per la sua sottoposizione alla disciplina militare – cfr. Corte cost. n. 35 del 2000 e n. 30 del 1997);

b) l’art. 2149, comma 8, cod.ord.mil. detta una disciplina di coordinamento che presuppone logicamente proprio l’applicazione, tra l’altro, anche dell’art. 867 cod.ord.mil. (sebbene non espressamente richiamato);

c) la novella apportata dal d.lgs. n. 126 del 2018 (che ha incluso nell’art. 2136 il richiamo, tra l’altro, anche all’art. 867) non ha avuto valenza innovativa, ma semplicemente ricognitiva, in ossequio a ragioni di chiarezza e di qualità della regolazione;

8.2. Più in generale, del resto, il Collegio rileva altresì che:

d) nel regime giuridico rilevante ai fini di causa (ossia quello intercorrente tra il t.u. n. 165 del 2001 e l’entrata in vigore del codice dell’ordinamento militare), al Comandante generale della Guardia di finanza spettavano compiti di gestione del personale, ivi incluso l’esercizio della potestà sanzionatoria (cfr. Cons. giust. amm., n. 435 del 2013);

e) tale assetto è stato espressamente riconosciuto e confermato dai menzionati artt. 2135 e 2149 cod.ord.mil.;

f) l’art. 1375 cod.ord.mil. (ai sensi del quale “ la potestà sanzionatoria di stato compete al Ministro della difesa o autorità militare da lui delegata ”) è applicabile (per espresso richiamo di cui alla lettera ee] dell’art. 2136, comma 1, cod.ord.mil.) al Corpo della Guardia di finanza ma, ovviamente, nei limiti derivanti dal combinato disposto dei su menzionati articoli 2135 e 2136, comma 3, cod.ord.mil.;

g) il riparto delle competenze fra i vari livelli gerarchici del Corpo è operato, in materia di disciplina, dall’art. 2149 cod.ord.mil. (cfr., in particolare, il comma 4, che individua, per il personale diverso dagli ufficiali, la competenza del Comandante regionale).

9. In ordine, infine, all’interruzione del trattamento economico, è sufficiente evidenziare che, nella specie, il Comandante regionale ha agito nell’esercizio della delega rilasciata dal Comandante generale, nel rispetto delle norme che stabiliscono i criteri di gestione del personale sopra illustrate e, in particolare, in applicazione del principio di delegabilità delle funzioni in materia disciplinare, sancito dal menzionato art. 1375 cod.ord.mil. (sulla legittimità della delega dal Ministro ai vertici delle Forze armate, anche prima dell’entrata in vigore del codice dell’ordinamento militare, cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 1213 del 2007).

10. Per le esposte ragioni, dunque, il ricorso deve essere respinto con l’onere delle spese, liquidate come in dispositivo in base ai criteri stabiliti dal regolamento n. 55 del 2014 e dall’art. 26, comma 1, c.p.a.

10.1. In proposito, il Collegio osserva che la pronuncia si basa su ragioni manifeste, sì che risultano integrati i presupposti applicativi dell’art. 26, comma 1, c.p.a., secondo l’interpretazione che ne è stata data dalla giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. IV, nn. 1117 e 1186 del 2018;
Sez. IV, 24 maggio 2016, n. 2200;
Cass. civ., Sez. VI, 2 novembre 2016, n. 2215, cui si rinvia ai sensi dell’art. 88, comma 2, lettera d], c.p.a. anche in ordine alle modalità applicative ed alla determinazione della misura indennitaria).

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