Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2020-11-27, n. 202007456

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2020-11-27, n. 202007456
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202007456
Data del deposito : 27 novembre 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 27/11/2020

N. 07456/2020REG.PROV.COLL.

N. 06838/2016 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello numero di registro generale 6838 del 2016, proposto da
Inerti Adinolfi S.r.l., in persona del legale rappresentante pro-tempore , rappresentata e difesa dall'avvocato M F, con domicilio eletto presso l’avvocato G L in Roma, via XX Settembre, 98/E;

contro

Regione Campania, in persona del Presidente pro-tempore , rappresentata e difesa dall'avvocato M I, con domicilio eletto presso l’ufficio di rappresentanza della Regione Campania in Roma, via Poli, 29;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Sezione staccata di Salerno (Sezione Seconda) n. 1629/2016, resa tra le parti, concernente delocalizzazione attività estrattiva;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio della Regione Campania;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 novembre 2020 il Cons. R P e data la presenza degli avvocati Fortunato ed Imparato ai sensi dell’art. 4, comma 1, ultimo periodo, d. l. n. 28/2020 e dell'art. 25 d. l. n. 137/2020;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

Con ricorso proposto dinanzi al TA.R. della Campania, Sezione Staccata di Salerno, la S.r.l. Inerti Adinolfi, proprietaria di una cava di materiali calcarei ubicata in località Castelluccia nel Comune di Battipaglia, impugnava il decreto n. 138/741 con il quale il dirigente della U.O.D. Genio Civile di Salerno aveva respinto l'istanza della Società ai fini della delocalizzazione dell'attività estrattiva, contestandone la legittimità e chiedendone l’annullamento.

Nello specifico, la ricorrente deduceva la violazione delle norme di attuazione del piano regionale delle attività estrattive della Regione Campania, che avrebbero consentito a suo dire la delocalizzazione dell’attività, l’eccesso di potere e il difetto di motivazione.

La Regione Campania si costituiva in giudizio, sostenendo l’infondatezza del ricorso e chiedendone il rigetto.

Con sentenza n. 1629 dell’8 luglio 2016 il Tribunale amministrativo respingeva il ricorso, in primo luogo sulla base dell’assunto che l’unica parte di cava autorizzata era quella relativa alla particella n. 32 per 10.000,00 mq. e dunque la parte restante non era stata autorizzata e risultava perciò abusiva, con la conseguenza che in assenza di idoneo titolo autorizzatorio alla coltivazione, la delocalizzazione si sarebbe tradotta in un illegittimo rilascio ex post dell’autorizzazione.

Né poteva essere seguita la ricostruzione fornita dalla società ricorrente riportata al secondo motivo di ricorso. I decreti n. 145/2009 e 118/2010 hanno chiaramente ritenuto la cava abusiva e per tale motivo avevano comminato la relativa sanzione, autorizzando solo il recupero ambientale della stessa, con il chiaro ed indicativo divieto di commercializzare il materiale estratto.

In secondo luogo la delocalizzazione non poteva essere chiesta per il solo recupero ambientale, in quanto tale recupero è una mera attività accessoria a quella di estrazione di cava di cui si era chiesta la delocalizzazione e ciò anche alla stregua delle previsioni dell’art. 28 delle N.T.A. del Piano regionale delle attività estrattive.

In terzo luogo era ancora infondata la richiesta di delocalizzare la cava in relazione almeno all’area di 10.000,00 mq. Il decreto 1005/343 dell’1 aprile 2003 aveva autorizzato l’attività estrattiva, esercitata ai sensi dell’art. 36 L.R. 54 del 1985 sull’area in questione facente parte della particella 32 del foglio di mappa n. 2 del Comune di Battipaglia e risultava dalla nota del 19 febbraio 2007 della ricorrente che tale area era stata già in gran parte recuperata con la messa a dimora di piante di ulivo e per il resto era interessata da viabilità di accesso alla cava e da area di manovra.

Con appello in Consiglio di Stato proposto il 25 agosto 2016 la Inerti Adinolfi impugnava la sentenza in questione, censurandola nella parte in cui la stessa aveva ritenuto che l’interessata sarebbe stata autorizzata solo alla riqualificazione e non anche alla coltivazione, deducendo in particolare quanto segue:

1.Error in iudicando. Violazione dell’art. 28 co. 6, 12 e 13 delle n.t.a. del piano regionale delle attività estrattive della Regione Campania. Eccesso di potere sotto vari profili. Il decreto n. 118/2000 aveva negato l’autorizzazione alla ricomposizione dell’intera area ricava dalla espressamente atto della legittimità quantomeno all’area pari a 10.000 mq.: quindi almeno parte dell’area in questione risultava regolarmente autorizzata dell’attività estrattiva e quindi sussisteva il presupposto per la richiesta delocalizzazione con eventuali contestazioni eventualmente limitate all’effettiva superficie.

Sull’erroneità delle conclusioni del giudice di primo grado nella parte in cui il medesimo aveva ritenuto che l’autorizzazione alla riqualificazione non avrebbe consentito la delocalizzazione, veniva dedotto quanto segue:

2.Error in iudicando. Violazione dell’art. 28 co. 6, 12 e 13 delle n.t.a. del piano regionale delle attività estrattive della Regione Campania. Eccesso di potere sotto vari profili. In ogni caso la presenza di un programma di riqualificazione ambientale abilita l’interessato a conseguire la richiesta di delocalizzazione in ragione della disciplina sulle stesse delocalizzazioni e sulle riqualificazioni ambientali, le quali consentono tale operazione in presenza di attività strettamente connessa e funzionale ubicata in prossimità dell’esistente sito di cava, fattispecie che si attaglia in modo del tutto proprio al caso in questione.

E’ altresì errata la considerazione inerente l’avvenuto recupero dell’area di 10.000 mq., poiché l’istanza di delocalizzazione è stata depositata il 10 maggio 2011 allorché l’intervento di qualificazione non era ancora terminato, il diniego non è intervenuto oltre quattro anni dopo, quindi con responsabilità a carico della pubblica amministrazione circa l’esaurimento della riqualificazione ed in ogni caso la delocalizzazione non presuppone una cava in costanza di esercizio, ma solamente una previsione di dismissione.

L’appellante concludeva per l’accoglimento del ricorso ed insisteva inoltre sulla censura proposta in primo grado ed assorbita dal T.A.R., concernente il difetto di motivazione, l’incongruità del provvedimento principalmente impugnato ed infine l’inosservanza del sub procedimento regolato dall’art. 10 bis della L. 241 del 1990.

La Regione Campania si è costituita in giudizio sostenendo l’infondatezza dell’appello e chiedendone il rigetto.

All’udienza del 23 aprile 2020 la causa è passata in decisione.

L’appello è infondato, laddove non lo si intenda addirittura improcedibile.

Si deve premettere che grande parte della cava era abusiva, così come riscontrato in svariati provvedimenti amministrativi e precedenti pronunce giurisdizionali e la stessa era stata interessata da provvedimenti inibitori e sanzionatori mai rimossi e dunque l’autorizzazione riguardante i residui 10.000 mq. regolari doveva ritenersi decaduta ai sensi dell’art. 13 lett. d) della l. reg. 13 dicembre 1985 n. 54, ovverosia per inosservanza delle prescrizioni contenute nell’atto autorizzativo, in questo caso per l’allargamento macroscopico dell’area di cava, così come eccepito nelle difese regionali.

Questa Sezione si è comunque già trovata ad esaminare la fattispecie, da ultimo con la sentenza n. 4137 del 31 agosto 2017, con cui si era affermato che le aree nelle quali la Adinolfi intendeva delocalizzare erano prive della “vocazione cavatoria” ed in particolare si trattava zone a forte antropizzazione con presenza di linee ferroviarie e stradali, esistenza di un pericolo incendio, vocazione agricola dei terreni ed inesistenza sugli stessi di precedenti attività cavatorie.

Ancora, più in particolare, la Regione aveva già ordinato la sospensione dei lavori sull’intera cava – dunque anche sui 10.000 mq. regolari – ed il ricorso presentato dinanzi alla Sezione staccata di Salerno del Tribunale amministrativo della Campania nel 2003 era stato infine dichiarato perento nel 2012 per mancata coltivazione;
di fronte alla mancata esecuzione della sospensione predetta era stato emesso altro provvedimento di sospensione, sospeso cautelarmente dal Tribunale amministrativo per i 10.000 mq. in questione, ma la stessa ditta aveva dichiarato l’anno successivo che tale area da ultimo indicata era stata recuperata in parte con la creazione di un uliveto ed in parte come area di manovra e di accesso per veicoli – si intende nei confronti della cava.

Da ultimo il dirigente del Settore provinciale genio civile di Salerno, con proprio provvedimento n. 145 del 9 giugno 2009 ripercorreva l’intera vicenda, ivi compresi atti inibitori, sanzioni e controversie di seguito attivate senza una reale conclusione nel merito e dichiarava la sola possibilità di riqualificazione ambientale, prendendo anche atto che l’interessata aveva manifestato di recuperare dal punto di vista ambientale l’area autorizzata in parola, disponendo infine che si predisponesse un piano di ripristino.

Detto provvedimento non è stato impugnato.

Per cui l’appello ora in esame non trova alcun fondamento ed appare del tutto superato dai fatti e soprattutto dagli atti intervenuti e di conseguenza deve essere respinto.

La particolare complessità della vicenda e le ordinanze di sospensione cautelari favorevoli intervenute nel corso dei giudizi permettono la compensazione delle spese di giudizio tra le parti.

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