Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2016-07-20, n. 201603299
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N. 03299/2016REG.PROV.COLL.
N. 02316/2015 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2316 del 2015, proposto dal Ministero dell’Interno, in persona del Ministro
pro tempore
, e dall’U.T.G. - Prefettura di Crotone, in persona del Prefetto
pro tempore
, rappresentati e difesi
ex lege
dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici sono domiciliati in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
contro
La-OMISSIS-, in persona del legale rappresentante
pro tempore
, rappresentato e difeso dall’Avvocato P M e dall’Avvocato M D G, con domicilio eletto presso l’Avvocato L Lnte in Roma, piazza Conca d’Oro, n. 25;
nei confronti di
Il Comune di Cutro, appellato non costituito;
il Comune di Cirò, appellato non costituito;
il Comune di San Nicola dell’Alto, appellato non costituito;
il Comune di Pallagorio, appellato non costituito;
il Comune di Carfizzi, appellato non costituito;
il Comune di Melissa, appellato non costituito;
il Comune di Crucoli, appellato non costituito;
il Comune di Cirò Marina, appellato non costituito;
il Comune di Strongoli, appellato non costituito;
il Comune di Cariati, appellato non costituito;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. per la Calabria, Sede di Catanzaro, Sez. I, n. 2227/2014, resa tra le parti;
visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
visto l’atto di costituzione in giudizio della -OMISSIS-;
viste le memorie difensive;
visti tutti gli atti della causa;
visto l’art. 52, commi 1 e 2, del d. lgs. n. 196 del 2003;
relatore nell’udienza pubblica del giorno 23 giugno 2016 il Consigliere Massimiliano Noccelli e uditi per le Amministrazioni appellanti l’Avvocato dello Stato Attilio Barbieri e per l’appellata -OMISSIS- l’Avvocato M D G;
ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. La odierna società appellata, -OMISSIS- (di qui in avanti, per brevità, -OMISSIS-), svolge la propria attività nel settore della raccolta e del trattamento dei rifiuti solidi urbani e, in tale qualità, ha ottenuto diversi affidamenti, anche in forma diretta, da parte di Comuni del territorio calabrese, aventi ad oggetto lo svolgimento di tali attività.
1.1. La società è stata destinataria di un’informazione antimafia interdittiva, emanata dalla Prefettura di Crotone ai sensi degli artt. 84 e 91 del d. lgs. n. 159 del 2011, essendo stata riscontrata a suo carico la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa da parte della criminalità organizzata, tendenti a condizionarne le scelte e gli indirizzi.
1.2. A tale provvedimento prefettizio si sono succedute le conseguenti determinazioni, pure impugnate nel primo grado di giudizio, adottate dei Comuni committenti, dirette a interrompere i rapporti contrattuali posti in essere con -OMISSIS-
2. Col ricorso n. 708 del 2014, la società interessata ha quindi impugnato tali atti al T.A.R. per la Calabria, sede di Catanzaro, ed ha dedotto, in sintesi, i seguenti motivi di diritto, afferenti al provvedimento prefettizio interdittivo: il vizio di violazione di legge con riguardo agli artt. 84 e 91 del d. lgs. n. 159 del 2011 e all’art. 3 della l. n. 241 del 1990;vizio di eccesso di potere per falsità del presupposto di fatto, per difetto assoluto di istruttoria e per palese apoditticità ed illogicità della motivazione del provvedimento interdittivo.
2.1. In sostanza, riassumendo le censure proposte in primo grado, -OMISSIS- lamentava che:
a) sotto il profilo qualitativo, l’unico elemento indiziante posto a base del provvedimento interdittivo sarebbe costituito dalla figura e dalle qualità morali di alcuni operai dipendenti dell’impresa, che sarebbero legati alla criminalità organizzata locale;circostanza alla quale sarebbe, però, stata conferita una rilevanza sproporzionata, senza specificare alcun collegamento con i quadri dirigenziali o societari ovvero senza alcuna specificazione in merito alla idoneità di tali elementi ad influire sulle scelte aziendali;
b) sotto il profilo quantitativo, in ogni caso, non si tratterebbe, contrariamente a quanto rappresentato nel provvedimento prefettizio, di una ‘presenza massiva’ dei dipendenti (aventi rapporti parentali con soggetti malavitosi di spicco delle cosche di stampo mafioso locali o specifici precedenti penali), trattandosi di quindici persone, su un organico complessivo di novanta dipendenti, dislocati peraltro nei diversi cantieri operativi (ed, in particolare, di sessanta dipendenti con mansioni di operaio e di trenta con mansioni impiegatizie).
2.2. La società precisava, inoltre, che, di questi quindici, sei sarebbero stati assunti in attuazione del vincolo imposto dal CCNL del 21 marzo 2013 FISE Assoambiente, applicabile ai rapporti di lavoro subordinato in questione, per effetto del « subentro nella commessa appalto/affidamento » del precedente gestore, uno su segnalazione dei servizi sociali e più volte sottoposto a controlli mentre effettuava le sue mansioni e tre risultavano già al servizio degli stessi enti committenti, prima della esternalizzazione del servizio e dell’affidamento a terzi.
2.3. La ricorrente, in primo grado, ha rappresentato inoltre che alcuni di questi operai avrebbero già subito sanzioni disciplinari e che due di essi sarebbero titolari di licenza per porto d’armi per uso venatorio, circostanza che presupporrebbe comunque la previa valutazione positiva della sussistenza dei richiesti requisiti morali da parte dell’Amministrazione resistente.
2.4. Nel primo grado di giudizio si è costituito il Ministero dell’Interno, chiedendo il rigetto del ricorso e depositando, in data 13 giugno 2014, gli atti istruttori posti a fondamento del provvedimento interdittivo, tra cui, in particolare, la relazione del Prefetto della Provincia di Crotone n. 7830 del 18 aprile 2014, dalla quale emergerebbero a carico di diversi dipendenti dell’azienda gravi e molteplici pregiudizi penali, anche per associazione a delinquere di stampo mafioso, nonché rapporti di parentela e di frequentazione con esponenti delle cosche note come ‘ -OMISSIS- ’ e ‘ -OMISSIS- ’, operante in Cirò, nei paesi limitrofi e nel Nord Italia.
3. Il T.A.R., con la sentenza n. 2227 del 20 dicembre 2014, ha annullato l’interdittiva antimafia e gli atti applicativi posti in essere dalle diverse stazioni appaltanti, ritenendo che il provvedimento interdittivo – pure supportato da elementi indiziari a carico di quindici dipendenti della società ricorrente – sia illegittimo, non avendo l’Amministrazione sufficientemente motivato circa la possibile incidenza di tali elementi sulla gestione aziendale e, quindi, sulla effettiva capacità di condizionamento sulle scelte imprenditoriali.
3.1. Avverso tale sentenza hanno proposto appello il Ministero dell’Interno e l’Ufficio Territoriale del Governo – Prefettura di Crotone, lamentandone l’erroneità con un unico articolato motivo, incentrato essenzialmente sulla violazione degli artt. 84, comma 3, e 91, commi 5 e 6, del d. lgs. n. 159 del 2011, e ne hanno chiesto, previa sospensione, la riforma, con conseguente reiezione del ricorso proposto in primo grado dalla società.
3.2. Quest’ultima si è costituita nel presente giudizio di appello, con memoria, per resistere all’appello proposto dall’Amministrazione.
3.3. Con l’ordinanza n. 1758 del 23 aprile 2015, la Sezione ha disposto il deposito, da parte dell’appellante, degli avvisi di ricevimento della notifica, avvenuta ai sensi dell’art. 45, comma 3, c.p.a., a mezzo del servizio postale.
3.4. Tale deposito è stato ritualmente effettuato dall’appellante il 18 maggio 2015.
3.5. Con la successiva ordinanza n. 2409 del 5 giugno 2015, la Sezione ha respinto la domanda cautelare di sospensione proposta ai sensi dell’art. 98 c.p.a. dall’Amministrazione.
3.6. Infine nella pubblica udienza del 23 giugno 2016 il Collegio, sentiti i difensori delle parti, ha trattenuto la causa in decisione.
4. Ritiene la Sezione che l’appello è fondato e deve essere accolto.
4.1. La articolata motivazione del primo giudice poggia su una centrale ratio decidendi e, cioè, che nessun elemento indiziario o sintomatico sarebbe stato evidenziato dall’informativa a carico dei soggetti aventi un ruolo di vertice, nell’ambito dell’organizzazione aziendale, o ai quali possano essere comunque riferiti livelli decisionali inerenti all’esercizio dell’impresa, laddove i soggetti interessati dagli elementi istruttori svolgono tutti mansioni esecutive e non decisionali, né sarebbe emerso che, nonostante la mancanza di un formale riconoscimento di responsabilità gestionali in capo ai dipendenti controindicati, vi fossero gli estremi per la configurabilità di eventuali posizioni sostanziali di amministratori di fatto.
4.2. Le considerazioni del primo giudice, pur ampiamente argomentate, ad avviso della Sezione non sono tuttavia condivisibili, per le ragioni che ora si esporranno.
5. Come emerge dalla vasta giurisprudenza formatasi sul punto nel corso di oltre venti anni, vi sono numerose situazioni, non tipizzate dal legislatore, che costituiscono altrettante ‘spie’ dell’infiltrazione (nella duplice forma del condizionamento o del favoreggiamento dell’impresa), anche se non ricomprese nel ‘catalogo’ dell’art. 84 del d. lgs. n. 159 del 2011.
5.1. Gli elementi di inquinamento mafioso, ben lungi dal costituire un numerus clausus , assumono infatti forme e caratteristiche diverse secondo i tempi, i luoghi e le persone e sfuggono ad un preciso inquadramento, per l’insidiosa pervasività e mutevolezza, anzitutto sul piano sociale, del fenomeno mafioso (Cons. St., sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743).
5.2. Quello voluto dal legislatore, ben consapevole di questo, è dunque un ‘catalogo aperto’ di situazioni sintomatiche del condizionamento mafioso, come si desume chiaramente dall’art. 91, comma 6, del d. lgs. n. 159 del 2011.
5.3. Tra queste situazioni sintomatiche non tipizzate dal legislatore, come la Sezione ha già chiarito nella citata sentenza n. 1743 del 2016, figura anche « l’assunzione esclusiva o prevalente, da parte di imprese medio-piccole, di personale avente precedenti penali gravi o comunque contiguo ad associazioni criminali ».
5.4. Con riferimento al caso di specie, occorre qui precisare ulteriormente che la presenza di un ‘numero rilevante’ di dipendenti – come lo è il numero di 15 su 90 – legati alle cosche mafiose e gravati da specifici precedenti penali in una piccolo-media impresa può assurgere ad elemento di inquinamento mafioso, anche indipendentemente dal loro ruolo di ‘amministratori di fatto’, se tale anomala presenza non è giustificata né preceduta da un efficace attività di vigilanza e di selezione da parte degli organi decisionali o gestionali dell’impresa.
5.4.1. Consentire, infatti, che la propria attività esecutiva sia affidata a soggetti contigui o affiliati alle cosche non può far ragionevolmente escludere che anche le decisioni e la vita stessa dell’impresa siano affidati ad una ‘direzione esterna’, per il tramite di uomini di fiducia posti dalle cosche all’interno dell’impresa.
5.5. La mafia non si serve necessariamente, infatti, dei soli amministratori o dei soci di una società per condizionare l’impresa e strumentalizzarla ai propri scopi, ben potendo avvalersi di soggetti che nell’impresa svolgono una qualsivoglia mansione, poiché il suo scopo non è solo – o non sempre – la scalata delle gerarchie societarie, ma il controllo delle attività economiche più lucrose con ogni mezzo e con ogni uomo idoneo allo scopo, con una flessibilità di forme interne che sfugge e intende sfuggire, per non attirare controlli esterni, alle ‘armonie prestabilite’ del diritto societario.
5.6. Ne deriva quindi che, sul piano qualitativo , il condizionamento mafioso (ovvero il ‘controllo del territorio’ con la creazione di un clima di paura o di omertà) può derivare anche dalla presenza di soggetti che non svolgano ruoli apicali all’interno della società, ma siano o figurino come meri dipendenti, entrati a far parte dell’impresa senza alcun criterio selettivo e filtri preventivi.
5.7. Sul piano quantitativo, poi, è evidente che non si tratta qui, come ha ritenuto il primo giudice, nemmeno di una questione meramente numerica, apprezzabile cioè soltanto in base alla misura percentuale dei dipendenti ‘controindicati’ assunti dall’impresa rispetto all’organico totale dei dipendenti, sicché l’assunzione di 15 dipendenti contigui ad associazioni mafiose o con gravi precedenti penali, rispetto ad un numero complessivo di 90, si dovrebbe considerare un valore trascurabile.
6. Accade che i ‘protocolli di legalità’ prevedano e precisino, sempre più di frequente, quali attività di vigilanza e di controllo debbano necessariamente porre in essere gli imprenditori, ma anche laddove tali protocolli di legalità non siano stati stipulati l’assenza di tale vigilanza e di controllo ben può formare oggetto di valutazione da parte del Prefetto.
6.1. L’obbligo di vigilanza non ha solo un fondamento pattizio, ex contractu , nei protocolli di legalità, ma trova nelle previsioni del d. lgs. n. 159 del 2011 un sicuro fondamento normativo, ex lege , secondo una lettura sistematica e anche costituzionalmente orientata di tali disposizioni.
6.2. Al di là delle previsioni dei ‘protocolli di legalità’ e degli obblighi da esse previsti, infatti, il condizionamento mafioso, ai sensi dell’art. 91, comma 6, del d. lgs. n. 159 del 2011, si può desumere anche dalla presenza di un solo dipendente ‘infiltrato’, del quale la mafia si serva per controllare o guidare dall’esterno l’impresa, ciò che può risultare da atti investigativi (intercettazioni), frequentazioni, ed altri elementi sintomatici.
6.3. Il condizionamento si può altresì desumere anche dalla assunzione o dalla presenza di dipendenti aventi precedenti legati alla criminalità organizzata, pur quando non emergano specifici riscontri oggettivi sull’influenza delle scelte dell’impresa.
6.4. In presenza di tali situazioni, infatti, la Prefettura ben può trarre elementi per ritenere sussistente un fattore di inquinamento mafioso all’interno dell’impresa, in considerazione dell’atteggiamento dell’impresa, già sul piano della scelta dei suoi dipendenti.
7. Le imprese possono effettuare liberamente le assunzioni che meglio credano, qualora non abbiano o non intendano avere i rapporti economici con la pubblica amministrazione, disciplinati dal d. lgs. n. 159 del 2011.
7.1. Ove però intendano avere tali rapporti, le imprese devono garantire la massima affidabilità, non solo nelle selezione di amministratori e soci, ma anche dei dipendenti, e devono vigilare affinché nella loro organizzazione non vi siano dipendenti risultati contigui al mondo della criminalità organizzata,
7.2. Contrariamente a quanto ha rilevato il T.A.R., tuttavia, l’impresa che intenda intrattenere rapporti con la pubblica amministrazione – fondati sulla affidabilità necessaria ex lege – deve essere vigile e responsabile nella selezione dei dipendenti di cui si avvale.
7.3. Sia in sede di assunzione che nel corso dei rapporti di lavoro, infatti, essa si deve organizzare in modo tale da avere una struttura su cui non possa interferire la criminalità organizzata, ben potendo l’impresa far valere anche la giusta causa del recesso da rapporti di lavoro già instaurati, rappresentando che la loro prosecuzione, con chi ne sia risultato contiguo, può indurre la Prefettura a disporre misure interdittive.
8. La Prefettura del tutto ragionevolmente rileva la sussistenza del rischio di infiltrazioni, quando l’impresa – per disattenzione o per ‘quieto vivere’ – non abbia disposto controlli o abbia esercitato filtri selettivi sulle assunzioni (in un contesto per di più ad alta densità criminale).
9. Sotto tale profilo, dunque, le disposizioni del codice antimafia (d. lgs. n. 159 del 2011) – nella misura in cui costituiscano, come detto, la fonte ex lege di obblighi di vigilanza dell’impresa in ordine alla gestione delle proprie strutture e dei propri dipendenti – rinvengono una propria giustificazione nell’art. 41, terzo comma, Cost., per il quale « la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali »
9.1. Ciò risponde ad una interpretazione di tale disposizione costituzionale che, superata la originaria matrice dirigistica, evolva invece verso una più matura e democratica visione del rapporto tra autonomia imprenditoriale e pubblico potere, intesa a responsabilizzare massimamente e a rendere consapevoli le imprese, che intendano svolgere la loro attività economica con lo Stato e per lo Stato, circa il fondamentale presupposto e, insieme, il « fine sociale » di tale rapporto, riguardato sul versante della legislazione antimafia, ossia la loro alta affidabilità e la loro impermeabilità al fenomeno mafioso.
10. L’informativa impugnata in primo grado ha dettagliatamente evidenziato, seppure nella chiave preventiva che le è propria, lo spessore e anche i precedenti dei dipendenti, molti dei quali sono risultati affiliati, in posizioni non secondarie, alla cosca ‘-OMISSIS-’ o al -OMISSIS-.
10.1. La gravità di tale quadro, al di là del dato della ‘presenza massiva’ o meno dei dipendenti in un numero che, comunque, non è certo esiguo, pienamente giustifica la constatazione del rischio che – con riferimento alla data di emanazione del provvedimento impugnato in primo grado - le scelte strategiche della società possano essere considerate condizionabili dalle cosche.
10.2. Per le ragioni sopra esposte, la Prefettura ha legittimamente attribuito rilevanza alla presenza dei dipendenti risultati contigui alle cosche (pur se alcuni di essi sono stati assunti in base alla ‘clausola sociale’), ravvisando la indubbia esistenza di un grave quadro indiziario che, secondo la logica del « più probabile che non », rende verosimile e non remoto il rischio di condizionamento mafioso dell’impresa, priva del fondamentale requisito richiesto dalla normativa antimafia, di cui si è detto, ossia la sua massima affidabilità e la sua credibile impermeabilità al condizionamento mafioso.
10.3. Resta salva, ovviamente, la possibilità, per l’impresa, di richiedere l’aggiornamento e il riesame dell’informativa, ai sensi dell’art. 91, comma 5, del d. lgs. n. 159 del 2011, una volta rimosse le ragioni del possibile inquinamento mafioso (e impregiudicati i provvedimenti adottati dal giudice del lavoro, in sede contenziosa, sui licenziamenti intimati per giusta causa ai singoli dipendenti dalla società, come emerge dalla documentazione depositata dall’appellata, da ultimo, il 10 maggio 2016).
11. In conclusione, per le ragioni esposte, l’appello deve essere accolto, sicché – in riforma della sentenza impugnata – va respinto il ricorso di primo grado n. 708 del 2014.
12. Le spese del doppio grado di giudizio, attesa la novità della specifica questione, possono essere interamente compensate tra le parti.
12.1. Rimane definitivamente a carico dell’odierna appellata il contributo unificato corrisposto per la proposizione del ricorso in primo grado.