Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2023-09-26, n. 202308514
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Pubblicato il 26/09/2023
N. 08514/2023REG.PROV.COLL.
N. 02150/2017 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso in appello numero di registro generale 2150 del 2017, proposto da
Impresa Loi Giuseppe in persona dell’omonimo titolare, rappresentato e difeso dall’avvocato R P, con domicilio eletto presso Antonia De Angelis in Roma, via Portuense, 104;
contro
A s.p.a., in persona del legale rappresentante
pro tempore
, rappresentata e difesa dall'avvocato M L, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato M S M in Roma, via A. Gramsci, 24;
nei confronti
Fallimento Sacop s.r.l., non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna (Sezione prima) n. 675/2016, resa tra le parti.
Visto il ricorso in appello;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di A s.p.a.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del 15 giugno 2023 il Cons. Anna Bottiglieri e viste le conclusioni delle parti come da verbale;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.
FATTO
I. L’Impresa Loi Giuseppe, che si era aggiudicata nel novembre 1997 la licitazione privata indetta dal Consorzio per l’Acquedotto sul Rio Govossai, ora A s.p.a., per l’affidamento dei lavori di costruzione di un impianto depurativo di acque reflue, era esclusa dalla procedura in via di autotutela amministrativa con atto del febbraio 1998, adottato in esito al provvedimento cautelare reso dal Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna (ordinanza 15 gennaio 1998, n. 36) sul ricorso proposto avverso l’aggiudicazione dalla concorrente Sacop s.r.l., che contestava l’ammissione in gara di tutti quei partecipanti che, come l’Impresa, per il requisito iscrizione ANC cgt. 10A, si erano qualificati in gara ai sensi dell’allora vigente art. 5 comma 1 della l. 57/1962, sostenendo che detta norma (“ I costruttori sono iscritti nell’Albo distinti per categorie e sottocategorie, con l’indicazione delle classifiche secondo gli importi di cui al seguente terzo comma e con quella della data di iscrizione. Qualunque sia l’importo della ottenuta classifica i costruttori non potranno assumere lavori di importo superiore a quello per cui sono iscritti, aumentato di un quinto ”) trovava applicazione in fase di esecuzione ma non di qualificazione. Per l’effetto, sempre nel febbraio 1998, l’appalto era aggiudicato a Sacop.
Lo stesso Tar respingeva, sia in sede cautelare che di merito (ordinanza 26 febbraio 1998, n. 147;sentenza 13 ottobre 1998, n. 1062), il ricorso proposto dall’Impresa avverso la sua esclusione e l’aggiudicazione a Sacop.
L’Impresa proponeva appello avverso gli appena detti provvedimenti, che questo Consiglio di Stato sospendeva (ordinanze cautelari 21 aprile 1998 n. 824 e 27 novembre 1998 n. 1803), riformando poi la sentenza di primo grado con decisione 22 ottobre 1999, n. 2037, che, in adesione all’orientamento giurisprudenziale maggioritario, affermava l’applicabilità dell’aumento del quinto di cui all’art. 5 comma 1 l. 57/1962 anche in sede di partecipazione alla gara.
La stazione appaltante, che nelle more aveva stipulato il contratto con Sacop e consegnato a questa i lavori il 16 marzo 1998: dopo la prima ordinanza cautelare di questo Consiglio di Stato li sospendeva parzialmente;dopo la sentenza di merito del Tar ne disponeva la ripresa;dopo la seconda ordinanza cautelare di questo Consiglio di Stato disponeva una nuova sospensione parziale;dopo la decisione di merito dell’appello sostituiva l’esecutore.
Per l’effetto, i lavori erano consegnati il 25 giugno 2000 all’Impresa, che eseguiva circa il 90% dell’opera.
II. Nel 2011, a lavori ultimati, l’Impresa adiva il Tar Sardegna per ottenere la condanna di A al risarcimento del danno (emergente;lucro cessante;curriculare) patito a causa del ritardo con cui le è stato consentito di avviare l’esecuzione dei lavori (circa due anni dall’aggiudicazione;sette mesi dopo la sentenza definitiva), da quantificarsi in corso di causa, anche in via equitativa o mediante consulenza tecnica d’ufficio, oltre rivalutazione e interessi.
A sostegno della domanda l’Impresa, in estrema sintesi: quanto al profilo soggettivo, sosteneva che A, dimostratasi molto solerte nell’eseguire i provvedimenti giudiziali favorevoli a Sacop, avesse invece ingiustificatamente ritardato l’esecuzione di quelli a lei favorevoli nonostante le sollecitazioni a tale fine avanzate;quanto al profilo oggettivo e al nesso di causalità, evidenziava di non avere potuto eseguire, per via di tale condotta, tutte le opere oggetto dell’appalto, e segnatamente quelle, eseguite da Sacop, più semplici e più remunerative.
III. Con la sentenza indicata in epigrafe l’adito Tribunale, nella resistenza di A, ha respinto il ricorso;ha compensato le spese del giudizio.
IV. L’Impresa ha proposto appello. Ha dedotto avverso la sentenza gravata: 1) Erroneità per violazione di legge ed erroneità dei presupposti, illogicità e irragionevolezza, carenza di motivazione;2) Erroneità per violazione di legge e di principi comunitari e costituzionali, per contraddittorietà e illogicità e per difetto di motivazione;2.1. Illogicità e contraddittorietà;2.2. Violazione dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi alle pronunce del giudice, violazione di legge e dei principi costituzionali e di rango europeo in materia di effettività della tutela giurisdizionale;3) Violazione di legge e dei principi costituzionali e di rango europeo in materia di effettività della tutela giurisdizionale;illogicità, irragionevolezza e disparità di trattamento. Ha concluso per la riforma della sentenza impugnata e l’accoglimento delle domande, anche istruttorie, siccome avanzate in primo grado.
A si è costituita in resistenza;ha sostenuto l’infondatezza dell’appello, ne ha domandato la reiezione e ha riproposto ai sensi dell’art. 101 comma 2 Cod. proc. amm. l’eccezione di parziale prescrizione quinquennale spiegata in primo grado in via subordinata e rimasta assorbita.
Nel prosieguo, l’appellante ha confermato il suo interesse alla decisone della causa;entrambe le parti hanno affidato a memorie lo sviluppo delle proprie tesi difensive.
L’appello è stato indi trattenuto in decisione alla pubblica udienza del 15 giugno 2023
DIRITTO
1. La sentenza appellata è pervenuta alla reiezione della domanda avanzata dall’Impresa Loi Giuseppe – di condanna di A s.p.a. al risarcimento del danno per la condotta contra legem da questa tenuta, in tesi, eseguendo celermente i provvedimenti giurisdizionali favorevoli alla controinteressata e procrastinando ingiustificatamente quelli favorevoli all’Impresa – sulla base dei seguenti ordini argomentativi:
a) nel periodo intercorrente tra la prima ordinanza del Tar, favorevole alla controinteressata, e la sua riforma da parte di questo Consiglio di Stato “ non è neppure astrattamente concepibile alcun danno ingiusto, avendo in quella fase l’Amministrazione doverosamente eseguito l’ordinanza cautelare del Tar, attribuendo i lavori alla Sacop ”;
b) nel periodo successivo, non sussiste il nesso causale tra il danno ingiusto rivendicato e la condotta asseritamente illegittima dell’Amministrazione, perché “ giuridicamente spezzato ”, ai sensi dell’art. 1227 Cod. civ., dal fatto che l’Impresa, “ una volta ottenuta da questo Consiglio di Stato la sospensione della sfavorevole pronunzia cautelare di primo grado, con la conseguente riacquisita efficacia dell’originaria aggiudicazione ”, e scaduto il termine per la stipula del contratto, non ha esercitato “ il proprio diritto potestativo di sciogliersi da ogni possibile vincolo precontrattuale ” né proposto ricorso avverso il silenzio tenuto dalla stazione appaltante in ordine alle sue richieste di stipula del contratto, essendosi invece affidata a “ semplici solleciti alla stipula del contratto ”, di cui uno (del 30 marzo 2000) particolarmente emblematico dell’intento dell’Impresa di “ regolare i rapporti con la parte pubblica in forma sostanzialmente concordata piuttosto che con mezzi coercitivi ”, intento plausibilmente riconducibile alla consapevolezza della medesima Impresa “ della notevole complessità dell’operazione di subentro in lavori già da tempo iniziati ”;
c) detta complessità, del resto, spiega la condotta cautelativa tenuta dalla stazione appaltante nel disporre il subentro solo all’esito della pronunzia giurisdizionale definitiva dell’ottobre 1999, mediante la consegna dei lavori all’Impresa del giugno 2000, a pochi mesi di distanza dal predetto sollecito, e quindi con “ con relativa tempestività ”.
2. La fattispecie in esame si ascrive nell’ambito del c.d. “danno da ritardo”.
Sono quindi applicabili:
- l’art. 2- bis comma 1 l. 241/1990, che prevede il risarcimento del danno da ritardo/inerzia dell’Amministrazione nella conclusione del procedimento amministrativo non già come effetto del ritardo in sé, bensì laddove la condotta (dolosa o colposa) inerte o tardiva dell’amministrazione sia stata causa di un danno prodottosi nella sfera giuridica del privato;tale danno, del quale quest’ultimo deve fornire la prova ( an e quantum ) deve essere riconducibile, secondo la verifica del nesso di causalità, al comportamento inerte ovvero all’adozione tardiva del provvedimento conclusivo del procedimento da parte dell’Amministrazione (tra altre, da ultimo, Cons. Stato, II, 6 dicembre 2021, n. 8123).
- i parametri individuati dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato con la decisione 23 aprile 2021 n. 7 nell’inquadrare la fattispecie di responsabilità per inosservanza dolosa o colposa del termine fissato per la conclusione del procedimento nel modello aquiliano di cui all’art. 2043 Cod. civ. (da ultimo, Cons. Stato, IV, 16 novembre 2022, n. 10079;ma già, precedentemente, Ad. Plen. 23 marzo 2011, n. 3).
In applicazione di tali parametri, incombe sull’Impresa l’onere di dimostrare la sussistenza di tutti gli elementi tipici della fattispecie sussumibile sotto la disciplina del predetto art. 2043 Cod. civ., tra cui il nesso di causalità tra illegittimità della condotta e danno e l’elemento soggettivo, ovvero l’imputabilità dell’illegittimità a dolo o colpa dell’Amministrazione.
Nulla quaestio , invece, quanto all’ulteriore parametro costituito dalla verifica dell’effettiva spettanza del bene della vita correlato all’esercizio del potere e all’emanazione del provvedimento amministrativo, che nella specie è stato accertato con la sentenza di questo Consiglio di Stato, VI, 22 ottobre 1999, n. 2037, che, per l’effetto, è successivamente subentrata nell’esecuzione dell’opera pubblica messa a gara, che ha realizzato nella misura pari al 90% circa.
3. Ciò posto, la conclusione cui è pervenuta la sentenza impugnata merita conferma per le ragioni di seguito rassegnate.
Non vi è quindi luogo per disporre l’istruttoria richiesta dall’Impresa e l’eccezione di prescrizione spiegata da A in via subordinata resta assorbita.
4. Il primo motivo di appello si dirige avverso il capo di sentenza, sopra riassunto sub b), che, in applicazione dell’art. 1227 Cod. civ., ha ritenuto rescisso il nesso causale tra ritardo e danno in considerazione del fatto che l’Impresa, dopo avere ottenuto provvedimenti giudiziali a lei favorevoli, e scaduto il termine per la stipula del contratto, non ha proposto ricorso avverso il silenzio tenuto dalla stazione appaltante in ordine alle sue richieste di stipula né esercitato il proprio diritto potestativo di sciogliersi dal vincolo precontrattuale.
Per l’Impresa, la sentenza impugnata non si è avveduta che i fatti oggetto di causa risalgono agli anni 1998 e 1999, e quindi a un periodo antecedente all’introduzione nella l. 1034/1971, Istituzione dei tribunali amministrativi regionali , a opera dell’art. 2 della l. 205/2000, dell’art. 21- bis , che, per la prima volta, ha previsto un rito accelerato per i ricorsi avverso il silenzio dell’Amministrazione, sicchè, in forza della disciplina allora vigente, sarebbe stata la proposizione dell’azione giurisdizionale avverso il silenzio a comportare un aggravamento del danno, sia in termini di costi che in termini di tempo e, dunque, di ritardo nella acquisizione dei lavori, e ciò anche a prescindere dalla astratta esperibilità del rimedio del silenzio al fine di addivenire alla stipula contrattuale, riconosciuta soltanto dalla giurisprudenza più recente.
La sentenza, si prosegue, è poi illogica e irragionevole nell’attribuire all’Impresa la responsabilità, una volta scaduto il termine per la stipula del contratto, di non aver esercitato il diritto potestativo di sciogliersi dal vincolo precontrattuale, scelta che con ogni evidenza avrebbe comportato la sua totale rinuncia alla esecuzione dell’appalto e all’ottenimento di qualsiasi risarcimento al riguardo, salvo il rimborso delle spese di gara, nonché l’impossibilità di conseguire l’iscrizione all’Albo degli appaltatori nella categoria superiore a quella posseduta, per la quale era indispensabile l’esecuzione dei lavori.
4.1. Il motivo non è conducente.
L’art. 1227 Cod. civ., Concorso del fatto colposo del creditore , richiamato dall’art. 2056 Cod. Civ. per la responsabilità da fatto illecito, dispone che:
“ Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate.
Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza ”.
L’art. 30, Azione di condanna , comma 3 secondo periodo Cod. proc. amm., già vigente alla data della proposizione della domanda risarcitoria in primo grado, stabilisce che:
“ Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti ”.
Al riguardo, va osservato in linea generale che l’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, con la citata decisione n. 3/2011, ha stabilito che la regola della non risarcibilità dei danni evitabili con la diligente utilizzazione degli strumenti di tutela previsti dall’ordinamento di cui all’art. 30 Cod. proc. amm., che ha portata ricognitiva di principi già evincibili dall’art. 1227 Cod. civ., rappresenta un dato valutabile alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini della mitigazione e finanche dell’esclusione del danno, in quanto evitabile con l’ordinaria diligenza (Cons. Stato, V, 2 febbraio 2021, n. 962;IV, 4 dicembre 2020, n. 7699).
In altre parole, dai principi civilistici in tema di causalità giuridica e di autoresponsabilità di cui sono espressione l’art. 1227 Cod. civ. e l’art. 30 Cod. proc. amm., deve ricavarsi la regola secondo cui la tenuta, da parte del danneggiato, di una condotta, anche processuale, contraria al principio di buona fede e al parametro della diligenza, che consenta la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati evitati, recide il nesso causale che, ai sensi dell’art. 1223 c.c., deve legare l’asserita condotta antigiuridica alle conseguenze risarcibili.
Tanto chiarito, anche l’eventuale accoglimento della prospettazione appellante secondo cui l’onere di diligenza esigibile dall’Impresa non potrebbe essere ragguagliato all’azionamento dei due “strumenti di tutela” menzionati dal Tar, il primo (ricorso avverso il silenzio) perché il relativo rito all’atto del dipanarsi della vicenda era oggettivamente indisponibile nella forma semplificata ora vigente e comunque, stante gli orientamenti giurisprudenziali allora prevalenti sulla questione sostanziale, avrebbe avuto un esito negativo, il secondo (esercizio del diritto potestativo finalizzato allo scioglimento del vincolo precontrattuale) perché frontalmente contrastante con l’interesse della società non solo a eseguire l’appalto (o, in prospettiva, il risarcimento del danno) ma anche a ottenere, per il suo tramite, una maggiore qualificazione, non potrebbe mai condurre alla riforma della sentenza impugnata.
In particolare, pur volendo considerare che, per la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, all’obbligazione cooperativa e mitigatrice del creditore e agli sforzi in capo allo stesso esigibili ex artt. 1227 Cod. civ. e 30 Cod. proc. amm. è applicabile la soglia del c.d. “apprezzabile sacrificio” (il danneggiato è tenuto ad agire diligentemente per evitare l’aggravarsi del danno, ma non fino al punto di sacrificare i propri rilevanti interessi personali e patrimoniali attraverso il compimento di attività complesse, impegnative e rischiose: Ad. plen. n. 7/2021, cit.; Ad. plen. n. 3 del 2011, cit., che richiama anche Cass. civ., I, 5 maggio 2010, n. 10895), sicchè ai fini dell’apprezzamento dell’onere di ordinaria diligenza posto in capo al privato e valutabile dal giudice in sede risarcitoria rilevano non solo gli strumenti processuali ma anche quelli procedimentali (che nel caso di specie l’Impresa ha attivato mediante i solleciti alla stipula del contratto menzionati dal Tar), resterebbe comunque ferma la conclusione del Tar, sopra illustrata sub c), circa il fatto che la stazione appaltante, nel disporre il subentro dell’Impresa solo all’esito della pronunzia giurisdizionale definitiva dell’ottobre 1999, ha serbato una “condotta cautelativa” giustificata dalla complessità del subentro, e sopraggiunta tale pronunzia, ha disposto le relative operazioni “con relativa tempestività”.
5. Non convince poi la censura principale avanzata nel terzo motivo, con cui l’Impresa avanza articolate considerazioni fondate sulla giurisprudenza amministrativa che ha affermato la già considerata validità, ai fini dell’art. 1227 Cod. civ., degli “strumenti di tutela” costituiti da azioni di natura extraprocessuale: le relative argomentazioni risultano corrette in astratto ma, nella fattispecie, per le stesse ragioni sopra rassegnate, non riescono a sovvertire le conclusioni della sentenza impugnata.
5. E’ infondato il secondo motivo, con cui l’Impresa lamenta la contraddittorietà e l’illogicità della sentenza gravata, nonché la violazione dell’obbligo dell’Amministrazione di conformarsi alle decisioni del giudice e del principio dell’effettività della tutela giurisdizionale, nascente dalla legge, dai principi costituzionali e da quelli di rango eurounitario, laddove ha ritenuto, per un verso, la corretta esecuzione da parte dell’Amministrazione della pronunzia cautelare di primo grado mediante l’attribuzione dei lavori alla controinteressata, per altro verso, la non doverosità dell’immediata esecuzione delle altre successive pronunzie in carenza da parte dell’Impresa delle azioni di cui al capo che precede: se è vero che il Tar, al fine di individuare l’estensione dell’obbligo di ottemperanza dell’Amministrazione alle pronunzie giurisdizionali via via intervenute, si è fondato anche sulla predetta carenza, è indubbia la rilevanza che la sentenza appellata ha conferito all’elemento dirimente costituito dal fatto che l’unica pronunzia di carattere definitivo era da considerarsi la sentenza di questo Consiglio di Stato, da cui la affermata giustificatezza, che esclude il profilo soggettivo dell’illecito aquiliano, della condotta dell’Amministrazione di disporre il subentro dell’Impresa solo al relativo esito stante la complessità delle relative operazioni.
Può solo aggiungersi che, all’evidenza, l’affidamento alla controinteressata disposto dopo la prima pronunzia cautelare del Tar non scontava una analoga condizione.
Trattandosi poi, appunto, di subentro nell’esecuzione di un contratto pubblico, non può neanche dirsi, come pure fa il motivo, che, poiché l’Impresa era originariamente risultata aggiudicataria, le pronunzie a lei favorevoli fossero autoesecutive: del resto, tale affermazione è smentita dalla stessa deducente, che afferma che, a tale fine, era necessaria (quanto meno) la stipula di un nuovo contratto e la consegna dei lavori, che erano già in corso di esecuzione da parte della controinteressata e pertanto necessitavano dell’effettuazione delle complesse operazioni accennate dal Tar.
6. Con altra censura del terzo motivo si sostiene l’erroneità dell’affermazione del Tar che il dovere di esecuzione della pronuncia del Consiglio di Stato favorevole all’Impresa non è sorto dalla pronunzia cautelare che ha sospeso l’esecutività della sentenza di primo grado, in quanto a tale pronunzia conseguiva “ quanto meno l’obbligo di sospendere immediatamente e integralmente i lavori ” in corso di esecuzione da parte della controinteressata.
Anche questa censura non coglie nel segno.
In nessuna parte della sentenza appellata si rinviene l’affermazione che l’ordinanza della Sezione VI di questo Consiglio di Stato 27 novembre 1998 n. 1803, che ha accolto la domanda cautelare formulata dall’Impresa nell’ambito dell’appello proposto avverso la sentenza del Tar che aveva respinto il ricorso proposto dalla medesima avverso la sua esclusione dalla procedura e la conseguente aggiudicazione dell’appalto a Sacop, non determinasse l’obbligo della Sezione di darvi esecuzione.
Del resto, non è dubbio che l’Amministrazione abbia dato esecuzione alla ridetta ordinanza, seppure parzialmente: è la stessa Impresa a riferire a pagina 5 del suo atto di appello che, dopo l’ordinanza in parola, e segnatamente il 7 gennaio 1999, l’Amministrazione ha sospeso i lavori.
Quanto alla pretesa pure azionata che tale sospensione fosse integrale e non parziale, rilevano le difese svolte da A, che evidenziano che le due sospensioni dei lavori disposte dopo le due ordinanze cautelari rese da questo Consiglio di Stato sulla vicenda, come meglio in fatto, hanno lasciato ferme esclusivamente limitate opere relative alla sicurezza del cantiere e alla tutela della sicurezza pubblica, mentre i diversi lavori realizzati dalla controinteressata sono stati eseguiti solo durante la piena efficacia dei provvedimenti (ordinanze e sentenze Tar) che legittimavano l’aggiudicazione in suo favore.
Il motivo denunzia altresì che, nel disporre la ripresa dei lavori nel tempo intercorrente tra le ridette pronunzie cautelari, in esecuzione della sentenza di merito del Tar, e tenendo conto del fatto che detta sentenza era oggetto di appello e avrebbe potuto essere riformata, come di fatto è avvenuto, l’Amministrazione, in conformità ai principi affermati dalla giurisprudenza amministrativa in materia di esecuzione di sentenze non passate in giudicato, avrebbe dovuto evitare la produzione di effetti irreversibili in danno dell’Impresa, in particolare lasciando inalterata la possibilità di garantire, occorrendo, il risarcimento in forma specifica: ma la pretesa non considera che, come bene spiegato da A, l’esecuzione dei lavori di cui trattasi era urgente e in parte improcrastinabile, pena la perdita del sotteso finanziamento regionale.
Il motivo denunzia ancora l’impossibilità di rilevare nella fattispecie la “relativa tempestività” ritenuta dal Tar rispetto ai tempi con cui l’Amministrazione ha dato esecuzione alla sentenza definitiva (sette mesi), invocando al riguardo un precedente di questo Consiglio di Stato (VI, 11 gennaio 2010, n. 20) e rilevando l’inesistenza dell’asserita complessità dell’operazione di subentro, da individuarsi nel ritiro delle attrezzature della Sacop e nell’esatta determinazione delle opere da questa già eseguite, nell’ambito della più generale ottica, seguita da A e ritenuta corretta dal giudice di prime cure, di tenere un atteggiamento cautelativo in attesa della definitiva pronunzia di merito sulla vicenda controversa, che, per l’Impresa, sono giustificazioni non fornite dall’Amministrazione né tanto meno provate.
Il rilievo non convince.
Il giudizio di “relativa tempestività” espresso dal Tar trova conferma nella documentazione prodotta in primo grado da A, che ha dimostrato che, a fronte della sentenza definitiva, del 22 ottobre 1999, e prima della diffida dell’Impresa del 30 marzo 2000, l’Amministrazione ha informalmente operato il computo dei lavori da affidare all’Impresa e redatto lo stato finale dei lavori eseguiti dalla controinteressata, e da quanto rappresentato dalla stessa Impresa che, nella memoria difensiva depositata in corso di causa, colloca la chiusura dei lavori eseguiti dalla Sacop al febbraio 2000. Che il tempo impiegato per la sostituzione dell’esecutore non fosse congruo rispetto agli adempimenti all’uopo necessari è poi una mera affermazione dell’Impresa, che non può ritenersi corretta sulla sola base dell’invocato precedente, che, in una fattispecie in cui non emergeva “ una situazione di urgenza o difficoltà soverchia tale da impedire di ordinare con immediatezza la sospensione dei lavori ”, e nell’affrontare la questione di quando una esecuzione possa definirsi tardiva e come tale fonte di responsabilità, ha affermato che la soluzione, in difetto di espressa previsione normativa, non può che essere data caso per caso, considerando molteplici elementi, tra cui “ il tempo necessario per attivare e portare a compimento il procedimento amministrativo necessario per eseguire la sentenza ”, ulteriormente precisando come la prosecuzione dei lavori da parte del non legittimato, ancorchè priva di titolo, possa essere consentita per lavori indifferibili.
Del resto, la tesi spesa dall’Impresa circa il vantaggio che l’Amministrazione avrebbe riservato alla controinteressata con la condotta asseritamente procrastinatoria serbata in sede di esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali a lei favorevoli si scontra con il dato complessivo oggettivo evidenziato dall’Amministrazione, costituito dal fatto che, nel non breve lasso di tempo occorso per la definizione del contenzioso, Sacop ha realizzato solo il 10% circa dei lavori oggetto di affidamento.
7. Per tutto quanto precede, l’appello deve essere respinto.
Le peculiarità della vicenda contenziosa giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese del grado.