Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2014-05-14, n. 201402480

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2014-05-14, n. 201402480
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201402480
Data del deposito : 14 maggio 2014
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 00842/2013 REG.RIC.

N. 02480/2014REG.PROV.COLL.

N. 00842/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello n. 842 del 2013, proposto da
B V, rappresentato e difeso dagli avv.ti V M e F C, ed elettivamente domiciliato presso quest’ultimo in Roma, via G. Cerbara n. 64, come da mandato a margine del ricorso introduttivo;

contro

Ministero della difesa - Comando generale dell’Arma dei carabinieri, in persona del ministro legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e presso la stessa domiciliato ex lege in Roma, via dei Portoghesi n.12;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per le Marche, sezione prima, n. 370 del 25 maggio 2012, resa tra le parti e concernente la sospensione penale dall'impiego.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della difesa;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 febbraio 2014 il Cons. Diego Sabatino e udito per le parti i difensori, come da verbale d’udienza;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con ricorso iscritto al n. 842 del 2013, B V propone appello avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per le Marche, sezione prima, n. 370 del 25 maggio 2012 con la quale è stato respinto il ricorso proposto contro il Ministero della difesa - Comando generale dell’Arma dei carabinieri per l'annullamento del provvedimento del Comando Legione Carabinieri "Marche" n.230/183-2003-D di prot., a firma del Comandante, Gen. di B., Rosario Calì, notificato al ricorrente in data 30/8/2011, con cui veniva "sospeso penalmente dall'impiego";
del decreto ministeriale n. 0477/III-7-2011 del 21/9/2011 e del successivo decreto ministeriale n. 0588/III-7-2011 del 21/11/2011;
di ogni altro atto preordinato, conseguente e comunque connesso.

La vicenda scaturisce dalla condanna con sentenza definitiva dell’appellante, originario ricorrente, maresciallo ordinario dell’Arma dei Carabinieri, alla pena della reclusione di anni 3 e mesi 3 ed alla pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici per la durata di anni 3.

In data 12 agosto 2011 il Pubblico Ministero presso la Procura di Fermo redigeva la comunicazione ex art. 662 c.p.p., che trasmetteva, fra agli altri, al Comando Regione Carabinieri Marche. Con nota del 26 agosto 2011 il Comandante regionale dell’Arma impartiva al Comando Compagnia CC di Ancona - alla quale era effettivo il maresciallo V - le istruzioni relative alle modalità di esecuzione della pena accessoria, precisando che, nelle more dell’adozione dei provvedimenti di competenza del Ministero, l’interessato doveva essere considerato sospeso penalmente dall’impiego.

L’appellante impugnava la nota con il ricorso in prime cure e con un primo atto di motivi aggiunti, per i seguenti profili:

- violazione art. 920 D.Lgs. n. 66/2010 (incompetenza del Comandante regionale ad adottare provvedimenti di sospensione cautelare dal servizio);

- difetto di motivazione;

- assenza dei presupposti di urgenza, visto che la comunicazione del P.M. è intervenuta dopo circa nove mesi dalla data di passaggio in giudicato della sentenza definitiva di condanna;

- violazione e falsa applicazione dell’art. 9 L. n. 19/1990 (essendo stato il ricorrente già sospeso cautelarmente dal servizio per il periodo massimo previsto dalla legge);

- violazione del principio di diritto affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 363/1996 (divieto di automatismo fra condanna penale e destituzione dal servizio del dipendente pubblico).

Nelle more, il Comando regionale CC aveva avviato il procedimento disciplinare a carico del ricorrente, che è stato però interrotto a seguito dell’adozione, da parte della Direzione Generale per il Personale Militare del Ministero della Difesa (Persomil), del decreto datato 21 settembre 2011, con cui al maresciallo V è stata applicata, con decorrenza dal 24 novembre 2010, la sanzione della perdita del grado ai sensi degli artt. 866 e 867, comma 5, del D.Lgs. n. 66/2010, con conseguente cessazione dal servizio permanente ed iscrizione d’ufficio nel ruolo dei militari di truppa dell’Esercito Italiano.

Anche il predetto decreto è stato impugnato, con l’atto di motivi aggiunti del 16 dicembre 2011, in cui sono dedotte le seguenti doglianze:

- violazione e falsa applicazione dell’art. 9 L. n. 19/1990, in relazione agli artt. 28 e 29 c.p.m.p. (illegittimità della destituzione automatica a fronte di una sanzione accessoria temporanea. L’automatismo potrebbe conseguire solo ad una condanna che importi la degradazione ai sensi dell’art. 28 c.p.m.p.);

- violazione del principio di irretroattività delle norme che prevedono sanzioni amministrative (nel caso di specie non dovevano applicarsi le norme del D.Lgs. n. 66/2010, entrato in vigore in epoca successiva alla data di commissione dell’illecito disciplinare);

- illegittima interruzione del procedimento disciplinare correttamente avviato dal Comando Regione CC Marche;

- in subordine, incostituzionalità degli artt. 30 e 31 c.p.m.p., nella parte in cui prevedono sanzioni accessori diverse per gli ufficiali e i sottufficiali;

- incostituzionalità degli artt. 866, 867, comma 5, 923, comma 1, let. i) e 861, comma 4, D.Lgs. n. 66/2010, nella parte in cui prevedono fattispecie di destituzione automatica dal servizio;

- incompetenza del vice direttore generale di Persomil ad adottare il decreto impugnato.

Con ulteriore atto di motivi aggiunti, depositato in data 13 febbraio 2012, il ricorrente impugnava il decreto ministeriale n. 0588/III-7-2011 del 21/11/2011, recante la rettifica del precedente decreto datato 21/9/2011;
in particolare, è stato modificato il riferimento normativo contenuto nel dispositivo del primo decreto (per cui la perdita del grado viene disposta ai sensi dell’art. 867, comma terzo, D.Lgs. n. 66/2010 e non già ai sensi dell’art. 867, comma quinto, del medesimo decreto delegato).

Il provvedimento veniva censurato per i seguenti motivi propri:

- illegittimità costituzionale degli artt. 866 e 867, comma 3, D.Lgs. n. 66/2010, in relazione alla L. n. 19/1990 (per contrasto con l’art. 3 Cost. e con i principi di gradualità e ragionevolezza);

- eccesso di potere in relazione al disposto dei commi 3 e 5 dell’art. 867 D.Lgs. n. 66/2010, violazione del principio di imparzialità e buon andamento, contraddittorietà, illogicità e ingiustizia manifesta,

mentre per il resto vengono ribadite le doglianze già formulate con il precedente atto di motivi aggiunti del dicembre 2011.

Il ricorso veniva deciso con la sentenza appellata. In essa, il T.A.R. riteneva infondate le censure proposte, sottolineando la correttezza dell’operato della pubblica amministrazione, ricostruendo analiticamente le ragioni che portano a sostenere l’esistenza di fattispecie di destituzione automatica.

Contestando le statuizioni del primo giudice, la parte appellante evidenzia l’errata ricostruzione in fatto ed in diritto operata dal giudice di prime cure, riproponendo le proprie doglianze.

Nel giudizio di appello, si è costituita l’Avvocatura dello Stato per il Ministero della difesa - Comando generale dell’Arma dei carabinieri, chiedendo di dichiarare inammissibile o, in via gradata, rigettare il ricorso.

All’udienza del 12 marzo 2013, l’esame dell’istanza cautelare veniva rinviato al merito.

Alla pubblica udienza del giorno 11 febbraio 2014, il ricorso è stato discusso ed assunto in decisione.

DIRITTO

1. - L’appello non è fondato e va respinto per i motivi di seguito precisati.

2. - Con il primo motivo di diritto, viene dedotto eccesso di potere;
travisamento del fatto;
insufficienza, difetto e contraddittorietà della motivazione;
erronea valutazione dei presupposti fattuali e giuridici;
nullità e illegittimità dei provvedimenti impugnati dal ricorrente per violazione e falsa applicazione di legge;
violazione del principio della domanda. La censura, partendo dalla qualificazione del provvedimento di sospensione come avente natura costitutiva e non dichiarativa, si lamenta per il mancato rispetto dei tempi procedimentali.

2.1. - La doglianza non ha pregio.

Come correttamente evidenziato dal primo giudice, la nota del Comandante regionale dell’Arma impugnata con il ricorso introduttivo e con il primo atto di motivi aggiunti ha effettivamente natura meramente dichiarativa, come si evince dal suo contenuto che non è di carattere provvedi mentale, atteso che non contiene un precetto innovativo, ma il mero richiamo alla circostanza che l’appellante doveva essere considerato penalmente sospeso dall’impiego, e quindi non poteva prestare il proprio servizio, essendo temporaneamente interdetto dai pubblici uffici.

Le censure proposte riguardo a detto atto appaiono quindi inconferenti, atteso che il contenuto volitivo è di carattere derivato, stante la definitiva conclusione del procedimento penale e quindi della rilevanza autonoma delle statuizioni operate in quella sede giudiziaria.

Diverso è il profilo del procedimento disciplinare collegato a tale vicenda.

Qui va notato come il comando competente aveva avviato, già nel mese di aprile 2011, la detta procedura, facendo così venire meno le censure in ordine alla non tempestività degli addebiti. Tuttavia, il mancato prosieguo dell’iter appare agevolmente spiegabile se si pone mente alla circostanza che, a quella data, non era ancora agli atti la comunicazione di cui agli artt. 655 e 662 c.p.p. che spettava al pubblico ministero presso il Tribunale di Fermo. Non essendo possibile avere cognizione della pena accessoria irrogata, il procedimento disciplinare è stato correttamente interrotto.

3. - Con il secondo, il terzo, il quarto e il quinto motivo di doglianza, tutti valutabili congiuntamente, l’automatismo utilizzato nell’applicare la sanzione destitutoria a seguito della condanna penale. In dettaglio, con il secondo motivo si lamenta insufficienza, difetto, contraddittorietà e illogicità della motivazione sull’applicabilità degli artt. 2186 e 2187 del D.Lgs. n. 66 del 2012 (recte 2010) in relazione al principio di irretroattività della sanzioni amministrative fissato dall’art. 1 della legge n. 689 del 1981;
erronea valutazione dei presupposti fattuali e giuridici;
nullità e illegittimità dei provvedimenti impugnati per violazione e falsa applicazione della legge;
con il terzo motivo di diritto, si evidenzia eccesso di potere;
inapplicabilità degli artt. 866, 867 comma 5, 923 comma 1 lett. i) e 861 del D.Lgs. n. 66 del 2010;
insufficienza e illogicità della motivazione della decisione;
con il quarto motivo, si censura l’illegittimità del provvedimento impugnato per travisamento del fatto per violazione e falsa applicazione dell’art. 9 della legge n. 19 del 1990 in relazione agli artt. 28 e 29 del codice penale militare di pace;
violazione di imparzialità e buon andamento ex art. 97 della Costituzione;
contraddittorietà e illogicità della motivazione della decisione;
con il quinto motivo, infine, si lamenta illogicità;
carenza di motivazione sulle censure di illegittimità sollevate con riferimento a questioni rilevanti ai fini della decisione;
violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 39 c.p.a..

3.1. - Le doglianze non sono fondate.

Tutte le questioni, ivi comprese quelle tese a far investire della questione la Corte costituzionale, ruotano intorno al nodo della perdurante esistenza e legittimità di un meccanismo giuridico di destituzione automatica dal servizio di un dipendente pubblico, nel caso in esame un militare in servizio permanente effettivo, a seguito di una condanna in via definitiva a una pena accessoria consistente nell’interdizione temporanea dai pubblici uffici.

La disamina della questione, di carattere più generale, va comunque preceduta dall’osservazione che il caso in esame concerne non la destituzione a seguito di una condanna per pena principale, ma la destituzione conseguente all’esecuzione di una pena accessoria. In particolare, non potendosi fruire dell’indulto dato con legge n. 241 del 2006, la pena è stata applicata in aderenza al disposto di cui all’art. 174 c.p., per cui “L'indulto o la grazia condona, in tutto o in parte, la pena inflitta, o la commuta in un'altra specie di pena stabilita dalla legge. Non estingue le pene accessorie, salvo che il decreto disponga diversamente, e neppure gli altri effetti penali della condanna”.

L’elemento su cui la difesa ha più spesso insistito è il valore dirimente da attribuire alla sentenza n. 363 del 1996 della Corte costituzionale che, seguendo le proprie precedenti pronunce (ordinanze nn. 201 e 137 del 1994, sentenza n. 197 del 1993), ha dichiarato infondata la censura mossa dal giudice a quo “….in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, all'art. 33 del codice penale militare di pace, dal momento che la nuova disciplina sulla destituzione dei pubblici dipendenti, di cui all'art. 9 della legge n. 19 del 1990, è estranea all'applicazione delle pene accessorie, anche di carattere interdittivo…”. La successiva legge n. 97 del 2001 rappresenta il recepimento legislativo di questo importante principio, dal quale la difesa intende far discendere la conseguenza della dirimente illegittimità di ogni caso di destituzione automatica.

Accanto alla citata sentenza della Corte costituzionale n. 363 del 1996, deve però prestarsi attenzione alla diversa pronuncia, sempre del giudice delle leggi, data con sentenza n. 383 del 1997, con cui si è fatto riferimento proprio alla fattispecie qui in scrutinio. Chiamata a pronunciarsi, la Corte ha affermato: “È infondata la questione di legittimità costituzionale che concerne gli artt. 29 e 234, terzo comma, del codice penale militare di pace, con riguardo all'automatica applicazione della rimozione. Non è corretto il richiamo alla giurisprudenza sulla "destituzione di diritto", avendo questa Corte già messo in luce la distinzione fra tale tematica e quella delle pene accessorie (sentenza n. 363 del 1996;
ordinanze nn. 201 e 137 del 1994, sentenza n. 197 del 1993, di cui v. in particolare il n. 4 del Considerato in diritto). Mentre nella sede disciplinare è possibile commisurare la sanzione all'entità del fatto, nell'applicazione delle pene accessorie non è dato analogo apprezzamento;
ad esse è estranea, dunque, la statuizione contenuta nell'art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19, senza che da ciò scaturisca alcuna incertezza interpretativa cui invece accenna l'ordinanza…”.

È del tutto palmare come non sia possibile omologare le diverse situazioni qui in discorso, ponendo in ombra la chiara distinzione che la Corte, anche nella sentenza n. 363 del 1996, ha delineato fra la destituzione automatica quale sanzione disciplinare e la destituzione automatica quale conseguenza di una pena accessoria, distinzione del tutto palese dalla mera lettura del dispositivo della sentenza da ultimo evocata. E in questo senso si è orientata già la giurisprudenza, sia amministrativa (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 30 giugno 2010 n. 41668) che civile (Cassazione civile, sez. lav., 17 febbraio 2010 n. 3698).

Per altro verso, appaiono inapplicabili alla fattispecie le invocate norme del codice penale militare di pace, come interpretate dalla difesa appellante.

La lettura dell’art. 33 c.p.m.p., che stabilisce poi che i militari condannati per reati previsti dalla legge penale comune sono soggetti sia alle pene accessorie previste dal codice penale militare sia alle pene accessorie comuni, evidenzia come il militare non sia sottoposto unicamente alla disciplina speciale valevole per il suo status. Ne consegue che il meccanismo disciplinato dal codice di pace e dall’art. 866 del D.Lgs. n. 66 del 2010 funge da coordinamento tra i diversi plessi normativi e consente di apprestare sanzioni accessorie dall’accentuato carattere di specificità, ossia tali da incidere unicamente sullo status militare, in senso quindi fortemente simbolico, senza per questo rendere il militare impermeabile alla legge penale comune e, in particolare, all’applicazione dell’art. 32-quinquies c.p.. Deve quindi respingersi il tentativo interpretativo proposto dalla difesa dell’appellante, in quanto tale lettura, scorretta costituzionalmente, porterebbe ad una inaccettabile disparità di trattamento in favore del militare, che si sottrarrebbe quindi alla sanzione espulsiva, diversamente da quanto previsto per il dipendente civile.

Sulla scorta di quanto evidenziato, non sono suscettibili di accoglimento le istanze di rimessione alla Corte costituzionale delle norme qui oggetto di scrutinio, attesa la loro intrinseca coerenza e ragionevolezza, alla luce dei principi enucleati proprio dal giudice delle leggi, come pure appare manifestamente infondata la questione sull’ipotizzata violazione del principio di irretroattività delle sanzioni amministrative, in relazione alla decorrenza degli effetti del provvedimento espulsivo, atteso che si verte nell’applicazione di una sanzione accessoria di natura penale.

4. - Con il sesto motivo di doglianza, infine, si lamenta difetto di motivazione circa l’eccezione d’illegittimità dell’atto impugnato nelle forma del decreto ministeriale rispetto ai principi espressi dall’art. 97 della Cost.;
nullità ed inopportunità dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies della legge sul procedimento.

4.1. - La doglianza non può essere condivisa.

Occorre evidenziare come sotto la forma del decreto ministeriale siano riscontrabili tipologie di atti dal contenuto estremamente diversificato. Vi sono, infatti, decreti ministeriali dal contenuto di atti normativi (regolamenti), di atti amministrativi generali a contenuto non normativo (come gli atti di carattere organizzativo), provvedimenti puntuali siano essi conclusivi di procedimento o anche endoprocedimentali, atti espressivi della funzione di controllo e così via.

La mera previsione legislativa sulla necessità di un decreto ministeriale, come nel caso in esame dove è l’art. 867 del codice dell'ordinamento militare a disporre che i provvedimenti di perdita del grado siano assunti in tal modo, non è quindi da sola in grado di radicarne la competenza alla persona del Ministro, atteso che, come esito del riparto di attribuzioni tra organi di direzione politica e organi di gestione amministrativa (come si evince dai contenuti del D.Lgs. n. 29 del 1993, dalla legge n. 59 del 1997, dalla legge n. 127 del 1997, dalla legge n. 191 del 1998 e, infine, dal D.Lgs. n. 165 del 2001), è unicamente il contenuto dell’atto da emanare a determinare il livello di competenza necessario per la sua adozione.

Da queste premesse, e venendo al caso in esame, va evidenziato come il Ministro della difesa abbia una sua attribuzione propria, rinvenibile nei casi in cui può ordinare direttamente l'inchiesta formale oppure discostarsi dalle risultanze della commissione di disciplina (artt. 1378 e 1389 dello stesso codice dell’ordinamento militare). Ne discende che, nelle altre fattispecie, riprendendo vigore il principio generale e ordinario di riparto tra politica e amministrazione, è compito del dirigente preposto alla struttura burocratica l’emanazione dell’atto conclusivo del procedimento per cui è responsabile.

In conformità a tale osservazione, venendo quindi meno le ragioni garantiste sottolineate dalla parte appellante in quanto si verte in una situazione di mero riparto di funzioni amministrative e avendo il direttore generale per il personale militare, in qualità di dirigente generale, attribuito con decreto dirigenziale del giorno 8 marzo 2011, richiamato nel preambolo dell’atto gravato, la gestione di alcuni atti amministrativi in caso di assenza o impedimento del Capo del III Reparto della sua struttura, non è dato riscontrare il sostenuto vizio di incompetenza. Si è qui di fronte all’esercizio di funzioni vicarie, svolte in caso di impedimento o assenza del titolare per di evitare il rallentamento o l’arresto delle attività istituzionali, e non di una delega, che comporta il trasferimento della potestà ad un soggetto diverso e si legittima solo in presenza di un’autorizzazione normativa.

5. - L’appello va quindi respinto. Tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. Le spese processuali seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

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