Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2014-08-26, n. 201404281

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2014-08-26, n. 201404281
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201404281
Data del deposito : 26 agosto 2014
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 08927/2012 REG.RIC.

N. 04281/2014REG.PROV.COLL.

N. 08927/2012 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8927 del 2012, proposto da:
A M G, rappresentata e difesa dall'avv. N P, con domicilio eletto presso N P in Roma, via Barnaba Tortolini, 34;

contro

I.A.C.P. - Istituto Autonomo Case Popolari della Provincia di Bari, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv. G D Z, con domicilio eletto presso Gianluigi Pellegrino in Roma, corso del Rinascimento, 11;
Comune di Barletta, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati D C M e Isabella Palmiotti, con domicilio eletto presso Benito Piero Panariti in Roma, via Celimontana, 38;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. PUGLIA - BARI: SEZIONE II n. 01658/2012, resa tra le parti, concernente restituzione del suolo edificatorio di proprietà sito nel Comune di Barletta - risarcimento danni


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’I.A.C.P. - Istituto Autonomo Case Popolari della Provincia di Bari e del Comune di Barletta;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 24 giugno 2014 il Cons. G C e uditi per le parti gli avvocati Gianluigi Pellegrino su delega dell'avvocato N P, G D Z e Benito Panariti su delega degli avvocati Cuocci Martorano e Palmiotti;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

La signora A M G era proprietaria di un suolo nel territorio del Comune di Barletta, che l’Amministrazione ha destinato alla realizzazione di alloggi di edilizia popolare, assegnando all’I.A.C.P. di Bari il diritto di superficie per la realizzazione dell’intervento.

Con decreto n. 10 del 28 settembre 1985, il Sindaco del Comune ha disposto l’occupazione temporanea e in via d’urgenza dei suoli. La signora G lo ha impugnato di fronte al T.A.R.

In seguito, in data 7 novembre 1985, i proprietari delle aree interessate - fra cui la signora G - hanno stipulato un accordo con il Comune assumendo l’impegno di rinunziare alle liti instaurate e di cedere i terreni di rispettiva proprietà in cambio della possibilità di edificare 48 alloggi, con correlata diminuzione dell’intervento edificatorio pubblico.

Tale accordo ha trovato attuazione da parte di alcuni proprietari, ma non della signora G che, pur avendo sottoscritto l’impegno preliminare, ha coltivato il ricorso in precedenza proposto contro il decreto di occupazione di urgenza del proprio suolo.

Con sentenza 21 gennaio 1989, n. 68, il T.A.R. per la Puglia – Bari, sez. II, ha accolto il ricorso, sul presupposto dell’intervenuta decadenza del piano di zona per l’edilizia economica e popolare.

Nei confronti dell’odierna appellante è successivamente intervenuto il decreto di esproprio n. 4 del 3 giugno 1991.

La signora G ha impugnato anche tale provvedimento, proponendo ricorso dichiarato poi perento con sentenza 23 aprile 2000, n. 1208.

Nel frattempo, su iniziativa dell’I.A.C.P., il Giudice ordinario - con sentenze che risultano essere passate in giudicato - ha ordinato alla signora G il rilascio del terreno.

La signora G ha proposto nuovo ricorso, assumendo la prescrizione decennale dell’accordo preliminare e la nullità del decreto di esproprio del 1991, in quanto - in tesi - adottato in totale carenza di potere, e chiedendo la restituzione del suolo di proprietà, insieme con il risarcimento del danno sofferto.

Con sentenza 14 settembre 2012, n. 1658, il T.A.R. per la Puglia – Bari, sez. II, in parte ha dichiarato il ricorso inammissibile e in parte lo ha respinto. Il Tribunale regionale ha ritenuto che il decreto di esproprio fosse invalido per difetto di un atto presupposto e non radicalmente nullo;
la relativa impugnazione essendosi a suo tempo conclusa con una dichiarazione di perenzione, si sarebbero definitivamente consolidati gli effetti del provvedimento gravato.

Contro la sentenza, la signora G ha interposto appello.

L’appello - rivolto contro il Comune e contro l’I.A.C.P. provinciale - ripropone la tesi, disattesa dal giudice di primo grado, della nullità assoluta o inesistenza del decreto di esproprio, siccome emanato in radicale carenza di potere per difetto del necessario presupposto della dichiarazione di pubblica utilità: al venir meno dell’atto presupposto seguirebbe la caducazione dell’atto terminale del procedimento ablatorio. Pertanto il T.A.R. - esercitando, nella specie, una giurisdizione esclusiva in tema di diritti soggettivi - avrebbe dovuto disapplicarlo, facendo uso di un potere che la giurisprudenza del Consiglio di Stato riconoscerebbe al G.A. nelle materie oggetto di giurisdizione esclusiva.

Richiamata la normativa costituzionale (art. 42 Cost.) e internazionale (l’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali) e ricordato di avere adito la C.E.D.U. nel 2009, la signora G deduce dalle premesse sopra esposte che:

il proprio terreno sarebbe stato e sarebbe ancora occupato sine titulo dall’Amministrazione, che non lo avrebbe mai acquisito con atto negoziale né con valido provvedimento di esproprio né con occupazione acquisitiva (istituto ormai estraneo al nostro ordinamento);

non essendo proprietario delle aree controverse, il Comune non avrebbe potuto costituire su di esse un diritto reale di superficie in favore dell’I.A.C.P.;

tale occupazione costituirebbe un fatto illecito permanente, che obbligherebbe il Comune alla restituzione del bene e al risarcimento del danno;

rimarrebbe salva la facoltà dell’Amministrazione di procedere all’acquisizione sanante ex art. 42 bis del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (c.d. testo unico dell’espropriazione per pubblica utilità;
d’ora in poi: t.u.), corrispondendo all’appellante gli indennizzi e il risarcimento previsti dalla disposizione ricordata.

In subordine, la signora G chiede che, ove il G.A. non ritenga di poter disapplicare il decreto di esproprio, declini la propria giurisdizione in favore del G.O.

In via ulteriormente subordinata, domanda il risarcimento del danno: venuta meno la c.d. pregiudiziale amministrativa, il Tribunale regionale avrebbe errato nel dichiarare illegittimo (seppur inoppugnabile) il provvedimento e nel negare il risarcimento del danno prodotto dall’esecuzione del provvedimento stesso.

Il Comune di Barletta resiste con controricorso, denunciando in primo luogo la nullità dell’impugnazione per l’assenza di specifiche censure alla sentenza di primo grado. In luogo di proporre una replica puntuale alle affermazioni contenute nella decisione del Tribunale, l’appello si risolverebbe in una riedizione delle argomentazioni fatte valere nel precedente giudizio.

Quanto al merito, l’Amministrazione sostiene che la fattispecie si situerebbe al di fuori della dicotomia tra effetto viziante ed effetto caducante, tipica dell’invalidità, poiché il decreto di esproprio sarebbe stato adottato sulla base non di un atto illegittimo e come tale annullato, ma di un presupposto inesistente (la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera). Il decreto dunque sarebbe bensì illegittimo ma, non essendo stato tempestivamente impugnato, avrebbe consolidato i propri effetti in maniera definitiva.

Nel contrastare la tesi della nullità del provvedimento impugnato, il Comune richiama anche l’art. 21 septies della legge 7 agosto 1990, n. 241: questo collegherebbe tale radicale effetto alla sola carenza di elementi strutturali dell’atto, mentre qui sarebbe allegata la mancanza di un presupposto, cioè un difetto esterno all’atto. Né potrebbe essere invocata la carenza di potere, che l’art. 21 septies espressamente menziona, poiché - secondo la giurisprudenza - a produrre nullità sarebbe la carenza di potere in astratto (dovuta a mancanza della norma attributiva del potere) e non quella in concreto (quale sarebbe quella dedotta nella specie, con riguardo all’assenza dei presupposti dell’esercizio del potere medesimo).

Conformemente a quella appena esposta, d’altronde, sarebbe l’impostazione seguita dalla parte appellata nell’impugnare a suo tempo per illegittimità, e non per nullità, il decreto di esproprio (con il ricorso conclusosi con una pronuncia di perenzione), svolgendo peraltro i medesimi motivi ora riproposti per giungere allora a una conclusione di segno diverso. Preclusa la nuova azione di annullamento, il giudice investito della causa non potrebbe esercitare alcun potere di disapplicazione, a ciò facendo ostacolo l’art. 34, comma 2, c.p.a.

Per altro verso, il Comune contesta la stessa affermata illegittimità del decreto di esproprio. La sentenza n. 68 del 1989 avrebbe annullato la proroga del piano di zona (adottata dalla Giunta regionale con delibera n. 10037 del 26 novembre 1984) e gli ulteriori atti ablatori già adottati, non anche quelli successivi;
non avrebbe avuto effetto estensivo erga omnes e sarebbe stata contraddetta da altra decisione del medesimo T.A.R. (21 agosto 2001, n. 3243), che avrebbe ritenuto la proroga legittima perché di competenza di un ente (la Regione) diverso da quello titolare del potere ablatorio (il Comune) e perché richiesta da quest’ultimo nel periodo di efficacia dell’originario piano di zona.

Sul punto del risarcimento del danno, il Comune nega l’esistenza di qualunque pregiudizio risarcibile per la perdita della proprietà dei suoli lamentata dall’appellante, giacché l’esproprio (sia legittimo, sia illegittimo, ma ormai divenuto intangibile) avrebbe prodotto il trasferimento di proprietà, cosicché residuerebbe il solo interesse a ricevere l’indennità di occupazione ed espropriazione.

Ai sensi dell’art. 30 c.p.a., il diritto al risarcimento sarebbe comunque prescritto, considerata la data di comunicazione del decreto di esproprio e quella della sentenza dichiarativa della perenzione del relativo ricorso.

In applicazione dei principi sanciti dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (n. 23 marzo 2011, n. 3), il comportamento contraddittorio e ondivago dell’appellante ne escluderebbe il diritto al preteso risarcimento ex art. 1227 c.c.

In seguito, il Comune si diffonde sull’accordo del 1985, che avrebbe natura di transazione. A esso avrebbero tenuto fede il Comune stesso e due delle tre parti private (L D e N P), con esclusione della sola signora A M G. Questa, peraltro, essendo moglie del signor D, avrebbe egualmente beneficiato degli effetti dell’accordo, cosicché la sua condotta complessiva andrebbe apprezzata negativamente in chiave di correttezza e buona fede e sconfinerebbe nell’abuso del diritto, sostanziale e processuale.

Infine, l’Amministrazione afferma la giurisdizione esclusiva del G.A., che sarebbe sufficientemente radicata dall’esercizio - sia pure, in ipotesi, scorretto - del potere ablatorio. Adito il G.A., la controparte non potrebbe poi, all’esito sfavorevole del giudizio di primo grado, eccepire il difetto di giurisdizione, pena - ancora una volta - l’abuso del processo.

Si è costituito in giudizio, per resistere all’appello, anche l’I.A.C.P. della Provincia di Bari. Con successiva memoria, l’Istituto svolge ampiamente le proprie argomentazioni, già proposte in primo grado e implicitamente assorbite dalla sentenza del Tribunale regionale, dichiarandosi estraneo alla vicenda, che intercorrerebbe solo fra l’appellante e il Comune. Oltre alla condanna dell’appellante alle spese, l’I.A.C.P. chiede il risarcimento del danno per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c.

In vista della discussione della causa, la signora G ha depositato una memoria.

Le parti - tranne l’I.A.C.P. - si sono quindi scambiate memorie di replica.

All’udienza pubblica del 24 giugno 2014, l’appello è stato chiamato e trattenuto in decisione.

DIRITTO

In via preliminare, il Comune di Barletta si oppone al gravame deducendone la nullità sul rilievo di un’asserita mancata indicazione specifica delle censure formulate alla sentenza di primo grado.

L’eccezione è infondata.

Non contestati i fatti, il dissenso verte sulla ricostruzione giuridica che se ne deve dare. Sotto tale profilo, il Tribunale territoriale ha sostanzialmente fatto propria la tesi del Comune appellato, disattendendo quella dell’originaria ricorrente. Non si vede dunque cosa quest’ultima possa e debba fare, se non riproporre le proprie ragioni e illustrare le argomentazioni che, a suo dire, dimostrerebbero la fallacia dell’impostazione del giudice di primo grado. Il che la signora G, peraltro, puntualmente fa, di modo che l’appello sfugge all’eccezione mossa dall’Amministrazione appellata.

Nel merito, si discute del decreto di esproprio di un suolo di proprietà dell’appellante (n. 4 del 1991), adottato dal Comune benché il T.A.R. per la Puglia - con la sentenza n. 68 del 1989 - avesse in precedenza dichiarato scaduta la validità del piano di zona per mancanza di una tempestiva proroga del termine di legge, con conseguente venir meno della dichiarazione di pubblica utilità delle opere ( ex art. 9 della legge 18 aprile 1962, n. 162).

A tale riguardo, il Comune sostiene che il provvedimento sarebbe bensì illegittimo, ma avrebbe consolidato i propri effetti a causa dell’estinzione per perenzione del ricorso a suo tempo proposto dalla signora G. Questa tesi è stata condivisa dalla sentenza impugnata.

Diversamente, la parte privata afferma che il decreto sarebbe stato adottato in radicale carenza di potere. Chiede pertanto ne venga dichiarata la nullità o l’inesistenza.

Il Collegio è consapevole dell’orientamento della Corte di cassazione sulle questioni analoghe a quella qui trattata, come pure delle oscillazioni che segnano, in materia, la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, riferite però spesso a fattispecie non del tutto omogenee e talvolta – forse – influenzate anche dalle peculiarità delle singole vicende concrete (i precedenti giurisprudenziali sono ampiamente richiamati e discussi negli atti di causa).

Nel caso di specie, il Collegio ritiene di poter argomentare nei termini che seguono.

La norma base è quella dell’art. 21 septies , comma 1, della legge 7 agosto 1990, n. 241, secondo la quale “è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge”.

In linea di principio, l’indirizzo del Consiglio di Stato è consolidato nel ritenere che la nullità del provvedimento abbia carattere eccezionale (sez. V, 16 febbraio 2012, n. 792, sottolinea come le categorie della nullità e annullabilità, quali vizi che inficiano un atto giuridico costituente manifestazione di volontà, si presentino nel diritto amministrativo in relazione invertita rispetto alle omologhe figure valevoli per i negozi giuridici di diritto privato) e che il “difetto assoluto di attribuzione”, quale causa di nullità del provvedimento amministrativo, evochi la cosiddetta carenza di potere in astratto, vale a dire l'ipotesi in cui l'Amministrazione assume di esercitare un potere che in realtà nessuna norma le attribuisce (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19 dicembre 2007, n. 2273;
Id., sez. V, 2 novembre 2011, n. 5843;
Id., sez. VI, 27 gennaio 2012, n. 372;
Id., sez. V, 30 agosto 2013, n. 4323;
Id., sez. VI, 31 ottobre 2013, n. 5266). Fattispecie, questa, assolutamente residuale, tanto da aver condotto all’affermazione che, ricostruito in questi termini, il difetto assoluto di attribuzione rappresenti, in definitiva, un caso di scuola (Cons. Stato, sez. VI, n. 5266 del 2013, cit.).

Con riguardo alla controversia in esame (decreto di esproprio adottato dopo l’annullamento giurisdizionale dell’atto comportante dichiarazione di pubblica utilità), il Collegio è dell’avviso che non venga in discussione l’astratta titolarità del potere (certo di spettanza dell’ente comunale), ma le concrete modalità del suo esercizio.

In altri termini: poiché l'Amministrazione è resa dalla legge effettiva titolare del potere, ma questo è stato esercitato in assenza dei suoi necessari presupposti, non si è in presenza di un difetto assoluto di attribuzione. In tal caso, è l'esercizio del potere a essere viziato, ma non si pone questione di sua esistenza, cosicché il provvedimento deve considerarsi annullabile, non già nullo, capace di “degradare” la situazione soggettiva del privato e soggetto alla giurisdizione del G.A. (cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 372 del 2012, cit.).

Da tali premesse, segue che il decreto in oggetto, sebbene viziato per mancanza del presupposto, una volta divenuto inoppugnabile ha tuttavia prodotto irrevocabilmente i propri effetti e dunque il trasferimento della proprietà del bene conteso (Cons. Stato, sez. IV, n. 6560 del 2007, cit., pur ritenendo affetto da nullità sopravvenuta il decreto di esproprio emesso dopo la scadenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità, fa salvo “il limite dell’interesse tutelato e dei relativi meccanismi di consolidazione”. La sentenza è testualmente richiamata anche da Cons. Stato, sez. IV, 19 marzo 2013, n. 1603, che pure - pag. 8 e segg. della memoria del 7 giugno 2014 - l’appellante cita a sostegno delle proprie tesi).

Non vi è dunque spazio per l’applicazione dell’art. 42 bis t.u.

In definitiva, con l’appello proposto, la signora G - che pure aveva a suo tempo impugnato tempestivamente il decreto, trascurando però di coltivare il ricorso - tenta di aggirare i termini perentori posti dalla legge per far valere l’illegittimità degli atti amministrativi. Il che evidentemente non può esserle consentito, neppure sotto la forma obliqua e gradata del risarcimento del danno, in quanto l’avvenuta abrogazione della c.d. pregiudiziale amministrativa - su cui la parte privata fonda la propria domanda subordinata - non può essere certo l’ escamotage per trasformare la natura del diritto sorto a seguito dell’atto ablatorio, che è solo quello all’indennità di occupazione e di espropriazione (la cognizione delle relative controversie, come è peraltro ben noto, appartiene ad altro Giudice).

Dalle considerazioni che precedono, discende che l’appello è infondato e deve essere dunque respinto, con conferma della sentenza impugnata.

Tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati ritenuti dal Collegio non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a condurre a una conclusione di segno diverso.

Anche alla luce degli orientamenti non univoci della giurisprudenza, sussistono tuttavia giustificate ragioni per compensare fra le parti le spese di lite.

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