Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2023-08-03, n. 202307503

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2023-08-03, n. 202307503
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202307503
Data del deposito : 3 agosto 2023
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 03/08/2023

N. 07503/2023REG.PROV.COLL.

N. 06874/2017 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6874 del 2017, proposto da C A S, rappresentato e difeso dall’avvocato P F, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Nomentana, 316.

contro

comune di Giba, in persona del sindaco pro tempore , rappresentato e difeso dall’avvocato A P, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Edoardo Giardino sito in Roma, nella via Adelaide Ristori n. 42;

nei confronti

V O, non costituito in giudizio;

per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione Seconda) n. 353/2017.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di comune di Giba;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 11 maggio 2023 il Cons. Luigi Furno e uditi per le parti gli avvocati, come da verbale.


FATTO

1. I fatti rilevanti, ai fini del decidere, possono essere riassunti come segue:

- nell’ambito di un piano di zona, approvato ai sensi dell’articolo 35 della legge n. 865 del 22 ottobre 1971, il comune di Giba, con atto pubblico del 29 giugno 1983, stipulava una convenzione con la Cooperativa Edile Santadi s.r.l. avente a oggetto l’assegnazione del diritto di superficie, per la realizzazione (nella località Congiau Is Ollastus del medesimo comune) di insediamenti residenziali di edilizia economica-popolare;

- il signor S, odierno appellante, era stato individuato, all’esito di una selezione pubblica posta in essere dal comune di Giba, quale assegnatario di uno degli alloggi di edilizia residenziale, ragione per la quale stipulava con la Cooperativa Edile Santadi il contratto preliminare di acquisto di uno delle predette abitazioni, provvedendo all’integrale pagamento del relativo corrispettivo;

- nel marzo del 1987 la Cooperativa Edile Santadi consegnava l’immobile, oramai ultimato, all’odierno appellante, che lo adibiva a residenza familiare;

- a seguito del fallimento della Cooperativa Edile Santadi, la curatela fallimentare citava in giudizio l’odierno appellante per ottenere lo scioglimento del contratto preliminare;

- con nota prot. n. 5148 del 4 ottobre 2004, il sindaco del comune di Giba comunicava agli assegnatari degli alloggi che: “ stava attivando le procedure per il recupero dei lotti comunali del Piano di Zona assegnati in superficie alla Coop. Edile Santadi con convenzione n. 186/83 di repertorio, in data 29.6.1983, per decadenza della concessione, con conseguente estinzione del diritto di superficie determinato da fallimento del concessionario ”;

- con determinazione n. 301 del 27 ottobre 2004, il responsabile del settore urbanistica del comune di Giba formalizzava l’intervenuta decadenza della Cooperativa Edile Santadi dal diritto di superficie e ordinava la pubblicazione dell’atto nell’albo pretorio, oltre che la relativa trascrizione nei pubblici registri immobiliari;

- con delibera della Giunta Comunale n. 30, del 28.10.04, si stabiliva di conferire all’Avv. Ciaglia “ l’assistenza e la rappresentanza in giudizio, nel caso Fallimento Coop. Edile ”;

- con sentenza del Tribunale di Cagliari n. 1375/06, confermata dalla Corte d’Appello di Cagliari con la successiva decisione n. 104/11, il contratto preliminare stipulato dall’odierno appellante veniva dichiarato risolto sul presupposto che gli alloggi facessero parte dell’attivo fallimentare;

- conseguentemente, il signor S veniva condannato al rilascio dell’immobile e al pagamento dei danni per la ritardata restituzione;

- seguiva una serie di diffide formulate dall’odierno appellante al comune di Giba, aventi lo scopo di sollecitare l’amministrazione comunale a porre in essere le menzionate attività di pubblicazione e trascrizione del provvedimento dispositivo della decadenza, con la finalità di scongiurare la vendita degli alloggi da parte del Fallimento;

- con nota prot. n. 5906 del 30 ottobre 2012, il comune rappresentava che la decisione di non attivarsi era una conseguenza di una scelta discrezionale;

- conseguentemente il signor S chiedeva, senza esito, alla regione Sardegna di attivarsi in via sostitutiva ex art. 9 della legge regionale n. 9 del 2006;

- nel mese di giugno 2013, l’odierno appellante rilasciava, all’esito del completamento della procedura di sfratto, l’immobile alla curatela fallimentare;

- con nota prot. n. 2378 del 24 aprile 2014, il sindaco del comune di Giba manifestava la volontà dell’amministrazione comunale di non intraprendere le iniziative volte alla riacquisizione della piena proprietà delle aree concesse in superficie. A riprova della scelta consapevole di non portare a termine la procedura di recupero delle aree in esame, il sindaco rappresentava che il consiglio comunale, organo esclusivamente competente a deliberare la decadenza ai sensi dell’articolo 14 della convenzione, non aveva mai approvato la decadenza della convenzione. In detta nota, inoltre, si rivendicava la volontà politica dell’amministrazione comunale di non rientrare nella disponibilità delle aree concesse in diritto di superficie, in particolare sostenendo: “ la facoltà, e non l’obbligo, dell’amministrazione di procedere all’acquisizione della proprietà dei terreni ai sensi dell’articolo 619 del codice di procedura civile, secondo cui «Il terzo che pretende avere la proprietà o altro diritto reale sui beni pignorati può proporre opposizione con ricorso al giudice dell’esecuzione, prima che sia disposta la vendita o l’assegnazione dei beni» ”.

2. Ciò premesso in punto di fatto, con ricorso depositato in data 24 luglio 2015, il signor S agiva dinanzi al T.a.r. per la Sardegna per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subìti a causa della perdita dell’immobile (adibito per 25 anni a sua abitazione familiare), a suo dire, causalmente riconducibili all’omesso esercizio di un’attività doverosa da parte del comune di Giba, consistente nel non aver reso opponibile al Fallimento della Cooperativa Edile Santadi il provvedimento dispositivo della decadenza dalla concessione.

2.1. In particolare, il ricorrente muoveva dalla premessa per cui, ai sensi dell’art. 35 della legge n. 865 del 1971, la convenzione deve indicare le sanzioni a carico del concessionario per l’inosservanza degli obblighi in essa stabiliti e i casi di maggiore gravità per i quali tale inosservanza comporta la decadenza dalla concessione e la conseguente estinzione del diritto di superficie.

Sottolineava, inoltre, che, coerentemente con la citata disposizione legislativa, l’art. 14 della convenzione stabiliva che il fallimento della concessionaria integrasse un’espressa causa di decadenza dal diritto di superficie.

Ne deduceva, pertanto, che, per effetto della determinazione di decadenza n. 301 del 27 ottobre 2004, adottata dal responsabile del settore urbanistica, il diritto di superficie si era estinto ex tunc , consolidandosi in tal modo in capo al comune la piena proprietà anche degli alloggi.

Ciò premesso, lamentava che, successivamente alla riferito provvedimento dispositivo della decadenza, il comune era rimasto totalmente inerte, non provvedendo alla pubblicazione della determina nell’albo pretorio, non procedendo alla sua trascrizione nei pubblici registri immobiliari del provvedimento di decadenza e non dando esecuzione alla delibera di Giunta con cui si era deciso di affidare ad un legale l’assistenza e la rappresentanza in giudizio nel procedimento intentato dal Fallimento Coop. Edile Santadi.

A sostegno dell’assunto evidenziava che, contrariamente a quanto ritenuto dal sindaco del comune di Giba, con l’esaminata comunicazione del 24 aprile 2014, in capo all’amministrazione comunale incombesse l’obbligo di recuperare le aree concesse in diritto di superficie alla fallita Coop. Edile Santadi.

Si costituiva nel giudizio di primo grado il comune di Giba, chiedendo la declaratoria di infondatezza del ricorso.

3. Il Tribunale amministrativo respingeva il ricorso.

3.1. Più nel dettaglio, il giudice di primo grado così argomentava il rigetto della domanda risarcitoria: “ La questione all’esame di questo Tribunale concerne esclusivamente la sussistenza o meno, nel caso di specie, di un danno ingiusto causato dall’Amministrazione comunale resistente, che sia risarcibile in favore dell’odierno ricorrente, ai sensi dell’articolo 30 del codice del processo amministrativo. Il ricorrente chiede il risarcimento del danno che sarebbe stato al medesimo causato dal mancato esercizio di attività amministrativa obbligatoria per la violazione della convenzione con cui il comune di Giba ha concesso il diritto di superficie sull’area ricadente nel Piano di Zona situato in loc. Congiau Is Ollastus, per non aver trascritto la determinazione n. 301, del 27.10.2014, del Responsabile del Servizio tecnico che ha riconosciuto l’intervenuta decadenza della Coop. Edile Santadi (per inadempimento della convenzione e per essere stata dichiarata fallita) dal diritto di superficie concesso su un’area destinata a edilizia economica-popolare, e per non essersi immesso nel possesso degli alloggi edificati sulla suddetta area e non aver provveduto alla riassegnazione degli stessi ai promissari acquirenti, specie al ricorrente.

Come evidenziato dall’Amministrazione comunale resistente sia nei propri atti difensivi, sia in atti a suo tempo adottati e portati a conoscenza dell’odierno ricorrente (nota del Responsabile del servizio tecnico del comune protocollo 5906 del 30 ottobre 2012 e nota del Sindaco protocollo n. 2378 del 24 aprile 2014), la mancata attivazione del comune ai fini della declaratoria dell’intervenuta decadenza della cooperativa dal diritto di superficie e ai fini della conseguente riacquisizione della piena proprietà dell’area in questione e conseguente acquisizione della proprietà degli alloggi edificati su tale area, deriva da una precisa scelta dell’Amministrazione comunale medesima che ha ritenuto di non intraprendere le predette iniziative in ragione degli elevati costi conseguenti, in ragione dell’ammontare dell’indennizzo che il comune avrebbe dovuto pagare alla cooperativa per gli immobili dalla stessa realizzati sull’area in questione di proprietà del comune.

Tale posizione del comune in ordine all’odierna questione controversa è stata portata a conoscenza - tra gli altri - del ricorrente con la richiamata nota del Sindaco protocollo n. 2378 del 24 aprile 2014 (adottata proprio al fine di “comunicare la posizione dell’amministrazione comunale”), nella quale si rileva, tra l’altro, che la volontà dell’amministrazione comunale di non intraprendere le predette iniziative volte alla riacquisizione della piena proprietà dell’area, risulta confermata dal fatto che non è stata mai adottata dal Consiglio comunale la deliberazione di approvazione della decadenza della convenzione, come espressamente stabilito dall’articolo 14 della convenzione.

In tale nota il comune rivendica altresì “la facoltà, e non l’obbligo, dell’amministrazione di procedere all’acquisizione della proprietà dei terreni” ai sensi dell’articolo 619 del codice di procedura civile, secondo cui “Il terzo che pretende avere la proprietà o altro diritto reale sui beni pignorati può proporre opposizione con ricorso al giudice dell’esecuzione, prima che sia disposta la vendita o l’assegnazione dei beni”.

Ciò stante, deve ritenersi che - ai fini della proposizione dell’odierna domanda di risarcimento del danno - sarebbe stato onere del ricorrente di contestare la predetta posizione dell’amministrazione, qualora ritenuta illegittima, sia attraverso la tempestiva impugnazione della predetta nota del 24 aprile 2014, con la quale formalmente e univocamente viene manifestata la volontà del comune - sorretta da plurime motivazioni - di non intraprendere le iniziative auspicate dal ricorrente;
sia attraverso la formalizzazione dell’inerzia dell’amministrazione comunale nell’adottare le iniziative e nel porre in essere gli adempimenti - ritenuti necessari, obbligatori e vincolati dal ricorrente - conseguenti al fallimento della cooperativa, tra i quali, in primo luogo, l’immissione nel possesso dei lotti ormai rientrati - secondo la prospettazione del ricorrente - nel patrimonio del comune in virtù della decadenza della concessione e conseguente impugnazione dell’eventuale silenzio inadempimento dell’amministrazione medesima, in considerazione del disposto di cui all’articolo 30 del codice del processo amministrativo che espressamente “esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.

La domanda di risarcimento del danno non può essere altresì accolta, oltre che per i motivi già sopra evidenziati, anche in considerazione del fatto che, anche qualora l’Amministrazione comunale avesse intrapreso le predette iniziative volte alla riacquisizione della piena proprietà dell’area e all’acquisizione della proprietà degli immobili in questione, avrebbe dovuto comunque procedere all’assegnazione degli alloggi attraverso un bando ad evidenza pubblica e con le procedure previste per l’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica - come esattamente rilevato nella richiamata nota del 24 aprile 2014 - per cui l’assegnazione dell’alloggio in favore dell’odierno ricorrente si sarebbe configurata esclusivamente come eventuale.

Deve ritenersi infine l’infondatezza della domanda di risarcimento del danno, anche sotto un ulteriore profilo strettamente attinente alla specialità e peculiarità del caso di specie.

Se, in via normale, deve ritenersi che i beni rientranti nei progetti di edilizia popolare sono destinati al pubblico servizio e non sono pertanto sottraibili alla loro funzione - come rilevato dal ricorrente nei propri atti difensivi - deve tuttavia riconoscersi la specialità e peculiarità del caso di specie, in ragione dei peculiari aspetti rilevanti nel caso in esame e concernenti la rilevata gravosità dell’indennizzo che il comune avrebbe dovuto corrispondere per gli alloggi realizzati sull’area in questione e conseguente natura della relativa operazione quale “economicamente insostenibile” ai fini di un corretto utilizzo dei fondi pubblici, come evidenziato dall’Amministrazione comunale nella nota protocollo n. 2378 del 24 aprile 2014.

Per le suesposte considerazioni, disattese le contrarie argomentazioni della parte ricorrente, la domanda di risarcimento del danno deve essere respinta perché infondata.

4. Contro questa sentenza il signor S ha proposto appello, reiterando le censure già articolate con il ricorso di primo grado.

5. Si è costituita in giudizio l’amministrazione comunale intimata, chiedendo di dichiarare l’appello infondato.

6. Con successive memorie le parti hanno ulteriormente chiarito e argomentato le rispettive posizioni difensive.

7. Alla pubblica udienza dell’11 maggio 2023, su richiesta delle parti, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. L’appello è fondato.

2. Il Collegio ritiene necessario porsi, in via preliminare, la questione della giurisdizione in relazione alla controversia in esame.

Essa ricade nell’ambito delle materie attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. b) del c.p.a..

2.1 Nel caso di specie, la pretesa dell’appellante è tutta incentrata su una richiesta risarcitoria, che si fonda a sua volta su pretese illegittimità del comune compiute riguardo a una concessione di aree pubbliche cui accedeva una convenzione per la realizzazione di insediamenti di edilizia economica e popolare.

L’articolo 35 della legge 22 ottobre 1971 n. 865 stabilisce, infatti, che la concessione delle aree comprese nei piani di edilizia economica e popolare, disposta dal comune a favore dei soggetti che s’impegnano a costruire immobili da adibire a residenza economica e popolare, è accompagnata da una convenzione recante la finalità di disciplinare le rispettive obbligazioni degli stipulanti.

La convenzione deve prevedere tra l’altro, ai sensi del comma 8 del citato art. 35, le sanzioni a carico del concessionario per l’inosservanza degli obblighi in essa stabiliti e i casi di maggiore gravità in cui tale inosservanza comporta la decadenza della concessione, con conseguente estinzione del diritto di superficie.

Conformemente al contenuto di quest’ultima disposizione, l’art. 14 della convenzione stipulata tra il comune di Giba e la Cooperativa Edile Santadi in data 29 giugno 1983, stabilisce espressamente che il fallimento della concessionaria integra una causa di decadenza dalla concessione.

2.2. La presenza del suddetto profilo convenzionale non incide sulla natura pubblicistica del rapporto concessorio fra amministrazione e privato e sul connesso radicamento della giurisdizione esclusiva.

Difatti, le aree destinate ai piani di edilizia economica e popolare rientrano, ai sensi del comma 3 del citato articolo 35, nel patrimonio indisponibile del comune. I concessionari delle aree rivestono, pertanto, la posizione di concessionari di beni pubblici, soggetti ai poteri autoritativi del comune.

Le controversie relative agli atti con i quali il comune accerta la violazione delle finalità pubblicistiche sottese alla convenzione appartengono, secondo un costante indirizzo, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo oggi prevista dal menzionato articolo 133, comma 1, lett. b), c.p.a. (cfr. ex pluribus Consiglio di Stato, sez. IV, 25 giugno 2010, n. 4093;
Cons. St., sez. V, 28 dicembre 2006, n. 8059;
Cassazione, Sezioni unite, sentenza 15 maggio 1984 n. 2952).

Orbene, la presenza di un momento negoziale, costituito dalla convenzione che accede al provvedimento concessorio, non muta – come si è detto – la sostanza del rapporto pubblicistico tra il comune concedente e la società concessionaria del suolo, essendo tale rapporto preordinato al soddisfacimento dell’interesse generale (di rilevanza costituzionale) alla realizzazione di abitazioni da destinare a persone economicamente svantaggiate.

In effetti, l’atto di attribuzione del diritto di superficie su un lotto di edilizia residenziale pubblica e la relativa convenzione attuativa compongono entrambi la fattispecie complessa della concessione amministrativa e istituiscono, tra concedente e concessionario, un rapporto unitario, nel quale il profilo convenzionale è strumentale al profilo pubblicistico, di tal che il venir meno del primo dei due atti di cui la fattispecie si compone comporta la caducazione anche del secondo (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 25 giugno 2007, n. 3637).

Ne deriva che la questione (su cui si innesta la richiesta dell’appellante) relativa al ritiro dell’atto concessorio del terreno, a causa della deviazione del concessionario dal perseguimento dell’interesse pubblico cui la convenzione era preordinata, involge l’esercizio di potestà pubblicistiche e come tale è devoluta alla cognizione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (con la connessa richiesta risarcitoria: cfr. il punto 2.4).

2.3. La medesima conclusione è stata argomentata, da altra giurisprudenza, anche in base a un diverso percorso interpretativo.

In tale differente prospettiva si osserva che il comma 7 del già citato articolo 35 della legge n. 865 del 1971 prevede una tipica fattispecie di esercizio negoziale del potere amministrativo, sussumibile nello schema degli accordi integrativi del provvedimento amministrativo di cui all’articolo 11 della legge n. 241 del 1990, in base al quale l’amministrazione procedente, in accoglimento di osservazioni e proposte presentate da privati a norma dell’articolo 10, può concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale.

Ciò in quanto la convenzione in esame, al pari delle altre tipologie di convenzioni urbanistiche (come, ad esempio, quella di lottizzazione), in virtù di una espressa previsione normativa (il citato art. 35 della legge n. 865), è certamente integrativa del procedimento finalizzato al rilascio della concessione dei suoli su cui attuare il programma di edilizia residenziale pubblica (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 22 gennaio 2010, n. 214;
sez. IV, 30 novembre 2009, n. 7498;
sez. IV, 11 dicembre 2007, n. 6358;
sez. IV, n. 6344 del 10 dicembre 2007;
Cassazione, Sezioni Unite, n. 14031 del 2001 e n. 8593 del 1998).

Anche la giurisprudenza che segue tale ulteriore iter argomentativo giunge quindi a riconoscere la devoluzione della fattispecie in esame alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in base al disposto di cui al comma 5 del citato art. 11, a mente del quale “ Le controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi di cui al presente articolo sono riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ”.

2.4. La affermata giurisdizione esclusiva ricomprende anche, ai sensi dell’art. 30, comma 2, c.p.a., il risarcimento del danno da lesione di diritti soggettivi.

Ricorda il Collegio che nelle materie di giurisdizione esclusiva la distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi, se non rileva ai fini del riparto di giurisdizione, conserva la sua importanza (che andrà considerata per la soluzione del caso di specie) quantomeno per i seguenti profili (Consiglio di Stato, ad. plen., 26 marzo 2003 n. 4;
Cons. St., sez. V, 4 febbraio 2004, n. 367):

- i termini per ricorrere: l’azione di annullamento di atti amministrativi lesivi di interessi legittimi è sottoposta al breve termine decadenziale, a differenza di quanto accade per le azioni dirette a tutelare diritti soggettivi, che soggiacciono ai termini più lunghi di prescrizione sanciti dal codice civile;

- i termini per azionare la domanda di risarcimento del danno: l’azione di risarcimento da lesione dell’interesse legittimo è sottoposta al termine decadenziale di 120 giorni, a differenza di quanto accade per la domanda di risarcimento per la lesione di un diritto soggettivo, che soggiace al termine quinquennale di prescrizione sancito dal codice civile;

- l’individuazione delle controversie risolvibili mediante arbitrato rituale di diritto, in quanto il comma 2 dell’articolo 12 del c.p.a., stabilisce che solo le controversie nelle quali si fa valere un diritto soggettivo sono compromettibili in arbitrato.

3. Esaminato il profilo della giurisdizione, va ora affrontato il merito della controversia.

Va innanzitutto valutata la legittimità o meno del comportamento del comune, per poi affrontare, in caso negativo, l’esame dei vari profili della richiesta risarcitoria.

L’assunto di fondo da cui muove la sentenza impugnata è che il comune, quando si verifica una causa di decadenza espressamente prevista come tale dalla convenzione accessiva al provvedimento concessorio, conservi il potere discrezionale di avvalersene o meno.

Ad avviso del giudice di prime cure, infatti: “ Come evidenziato dall’Amministrazione comunale resistente sia nei propri atti difensivi, sia in atti a suo tempo adottati e portati a conoscenza dell’odierno ricorrente (nota del Responsabile del servizio tecnico del comune protocollo 5906 del 30 ottobre 2012 e nota del Sindaco protocollo n. 2378 del 24 aprile 2014), la mancata attivazione del comune ai fini della declaratoria dell’intervenuta decadenza della cooperativa dal diritto di superficie e ai fini della conseguente riacquisizione della piena proprietà dell’area in questione e conseguente acquisizione della proprietà degli alloggi edificati su tale area, deriva da una precisa scelta dell’Amministrazione comunale medesima che ha ritenuto di non intraprendere le predette iniziative in ragione degli elevati costi conseguenti, in ragione dell’ammontare dell’indennizzo che il comune avrebbe dovuto pagare alla cooperativa per gli immobili dalla stessa realizzati sull’area in questione di proprietà del comune .

Tale impostazione non può essere condivisa.

L’assunto in esame urta contro un costante orientamento giurisprudenziale, ad avviso del quale in tali casi non sussiste alcuna discrezionalità in capo al comune, venendo in rilievo un’attività amministrativa doverosa e vincolata, a salvaguardia dell’interesse pubblico alla realizzazione delle abitazioni di edilizia pubblica residenziale.

L’analisi dei precedenti giurisprudenziali conferma le conclusioni qui esposte.

Il Consiglio di Stato ha avuto, infatti, modo di chiarire che la decadenza dalla concessione e l’estinzione del diritto di superfice concesso costituiscono un effetto automatico della violazione delle prescrizioni essenziali della concessione e ha espressamente affermato che il relativo provvedimento è da considerarsi atto dovuto e vincolato per l’amministrazione (cfr. ex pluribus Consiglio di Stato, Sezione Quinta, n. 6982 del 2010;
in generale, sulla natura vincolata del provvedimento di decadenza, cfr. Adunanza Plenaria n. 18 del 2020).

Tale impostazione trova, nel caso di specie, un ulteriore riscontro anche nella lettera dell’art 14 della convenzione, la quale, con formulazione perentoria, stabilisce che: “ la decadenza della convenzione dev’essere approvata dal Consiglio Comunale .

La formulazione della previsione non lascia adito a dubbi in ordine al fatto che, nella fattispecie, il comune fosse vincolato a dichiarare la decadenza, con il connesso obbligo di far valere l’acquisto a titolo originario nei confronti del Fallimento (nonché di pubblicità mediante la relativa trascrizione). Ne consegue l’illegittimità sia dell’inerzia dell’amministrazione (che, pur in presenza di reiterate richiese dell’attuale appellante, ha lasciato trascorrere dieci anni, consentendo la perdita dell’immobile intestato al signor S) che della sua successiva (e ormai tardiva e irrilevante) dichiarazione di non voler più procedere alla riacquisizione delle aree concesse in superficie.

4. Oltre alla natura vincolata del provvedimento, e alla conseguente illegittimità dell’operato dell’amministrazione, la Sezione non può non rilevare anche la manifesta contraddittorietà del comportamento del comune, con conseguente grave pregiudizio per il beneficiario dell’alloggio.

4.1 Difatti, il comune di Giba si era originariamente mosso nella direzione del recupero delle aree quando, con determinazione n. 301 del 2004, adottata previa comunicazione di avvio del procedimento finalizzato al recupero dei lotti oggetto di concessione, ha dichiarato l’intervenuta decadenza ai sensi del combinato disposto degli artt. 35 della l. n. 865 del 1971 e 14 della Convenzione, qualificando siffatta attività recuperatoria quale atto dovuto, a tutela dell’interesse pubblico a mantenere la destinazione pubblicistica degli alloggi di edilizia economica realizzati.

Tale determina è stata preceduta dalla nota prot. n. 5148 del 4 ottobre 2004 con la quale il sindaco del comune di Giba ha comunicato agli assegnatari delle abitazioni di edilizia economica e popolare che: “ stava attivando le procedure per il recupero dei lotti comunali del Piano di Zona assegnati in superficie alla Coop. Edile Santadi con convenzione n. 186/83 di repertorio, in data 29.6.1983, per decadenza della concessione, con conseguente estinzione del diritto di superficie determinato da fallimento del concessionario ”.

A ulteriore conferma della determinazione del comune di Giba di recuperare le aree originariamente concesse in diritto di superficie alla cooperativa Edile depone inequivocabilmente anche la delibera della Giunta Comunale n. 30 del 28 ottobre 2004, con la quale si è deciso di affidare a un legale l’assistenza e la rappresentanza del comune nel giudizio promosso dalla curatela del Fallimento Coop. Edile Santadi.

Dagli atti menzionati emerge, dunque, nitidamente la volontà iniziale del comune di Giba di azionare la decadenza del diritto di superficie concesso e di far valere nei confronti della curatela fallimentare l’acquisto per accessione delle abitazioni insistenti sui suoli oggetto della originaria concessione superficiaria. Tale ultimo passaggio sarebbe stato altrettanto doveroso anche in considerazione del fatto che, come in dottrina non si è mancato di osservare, per effetto del provvedimento dispositivo della decadenza la proprietà degli appartamenti sarebbe tornata automaticamente al comune per effetto della regola dell’accessione di cui all’art. 953 c.c..

Cionondimeno, l’amministrazione comunale, pure a fronte di tali incontrovertibili atti, ha successivamente, e inspiegabilmente, omesso di portare a termine le formalità necessarie per rendere opponibili tali atti ai terzi e segnatamente al Fallimento della Cooperativa Edile Santadi, pregiudicando definitivamente il diritto all’abitazione dell’odierno appellante.

Il comune di Giba, con tale contraddittorio comportamento, ha manifestato un’incoerenza di fondo tra le premesse (provvedimento che ha disposto la decadenza) da cui correttamente aveva tratto le mosse e le conclusioni (mancata opponibilità al Fallimento) cui è pervenuto.

4.2. Per evitare la evidenziata contraddittorietà non vale evocare la circostanza per cui il provvedimento dispositivo della decadenza, così come previsto dall’art. 14 della convenzione, avrebbe dovuto essere adottato dal consiglio comunale e non, come si è verificato, dal responsabile dell’ufficio tecnico comunale.

L’argomento, sviluppato dal comune appellato nelle sue memorie difensive, per un verso appare non corretto e per altro verso prova troppo.

4.2.1. Non appare corretto in quanto, ad avviso della giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, il provvedimento di revoca dell’assegnazione del diritto di superficie rientra nella competenza dei dirigenti.

Secondo l’art. 107 del d.lgs. n. 267 del 18 agosto 2000 (disposizione successiva e gerarchicamente sovraordinata all’art. 14 della convenzione stipulata tra il comune di Giba e la Cooperativa Edile Santadi s.r.l.), infatti: “ Spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l’adozione degli atti e dei provvedimenti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno non compresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo politico e controllo politico – amministrativo degli organi di governo dell’ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale …” (comma 2), tra cui (comma 3, lett. f) “ i provvedimenti di autorizzazione, concessioni o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati per legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizi e”, con la precisazione (comma 4) che “ le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all’articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative ”.

Tale impostazione appare, del resto, coerente con quanto si è detto in precedenza circa la natura non discrezionale, ma vincolata (al verificarsi dei presupposti già indicati in convenzione) del provvedimento di decadenza.

Peraltro, la giurisprudenza ha più volte ribadito che spetta alla dirigenza il compimento degli atti di gestione che non siano riservati dalla legge al consiglio e alla giunta, trattandosi di competenza generale che si estende anche alle ipotesi in cui norme anteriori prevedevano, in modo espresso, la competenza di organi politici (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 24 novembre 2012, n. 5952).

Pur essendo la giunta municipale e i dirigenti organi cui la legge attribuisce funzioni latu sensu esecutive dell’indirizzo politico, il discrimen tra le due competenze è da individuare nella diversa natura dei due organi e nel principio di separazione tra l’attività politica e l’attività gestionale, così che, mentre la giunta è un organo di governo dell’ente locale e pertanto svolge una funzione di attuazione politica delle scelte fondamentali operate dal consiglio, ai dirigenti compete l’attività di gestione tecnico-finanziaria-contabile e l’assunzione di tutti i provvedimenti amministrativi, o atti di diritto privato, necessari per conseguire gli obiettivi stabiliti dagli organi di indirizzo (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, n. 20 agosto 2013, n. 4192;
per la decadenza da una concessione di pubblico servizio, cfr. Cons. St., sez. V, 12 novembre 2013, n. 5421).

Legittimamente pertanto, nel caso in esame, la determina ricognitiva della decadenza è stata adottata dal dirigente del servizio, non essendo in essa ravvisabili profili idonei a ricondurla nell’ambito di scelte strategiche o di indirizzo politico.

4.2.2. Sotto altro profilo, l’argomento del comune appellato prova troppo.

Anche a volere ritenere, così come opina il comune di Giba, che la competenza spettasse al consiglio comunale, l’adozione del provvedimento di decadenza da parte del responsabile del settore urbanistica, in luogo del consiglio comunale, integrerebbe pacificamente il vizio di incompetenza relativa: in tale direzione risulta orientata la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato. Dall’accoglimento di tale premessa discende che la patologia che affligge un atto viziato da incompetenza relativa è la mera annullabilità.

Applicando tali principi al caso di specie, il Collegio rileva che l’atto in esame, non essendo mai stato oggetto di annullamento in via giudiziale, né di annullamento o revoca in autotutela, si è consolidato.

Non rileva, in proposito, che la nota successiva (di dieci anni), protocollo n. 2378 del 24 aprile 2014, con la quale il nuovo sindaco del comune di Giba ha manifestato la volontà dell’amministrazione comunale di non intraprendere le iniziative volte alla riacquisizione della piena proprietà delle aree concesse in superficie, possa assumere la valenza di “provvedimento implicito” di revoca della precedente delibera dichiarativa della decadenza.

Questa conclusione è smentita dal costante indirizzo interpretativo che postula, ai fini della configurabilità del provvedimento implicito, il duplice requisito per cui, per un verso, la manifestazione di volontà a monte provenga da un organo amministrativo competente e nell’esercizio delle sue attribuzioni e, per altro verso, nella stessa sfera di competenza rientri l’atto implicito a valle (da ultimo, cfr. Consiglio di Stato sez. V n. 589 del 2019).

Con maggiore dettaglio, il Collegio ribadisce, in conformità ad un orientamento consolidato (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 19 febbraio 2018, n. 1034;
Id., sez. IV, 24 aprile 2018, n. 2456;
Id., sez. V, 31 marzo 2017, n. 1499;
Id., sez. VI, 27 aprile 2015, n. 2112), che l’astratta ammissibilità del provvedimento implicito non può essere negata qualora l’amministrazione, pur non adottando formalmente la propria determinazione, ne determini univocamente i contenuti sostanziali, o attraverso un contegno conseguente, ovvero determinandosi in una direzione, anche con riferimento a fasi istruttorie coerentemente svolte, a cui non può essere ricondotto altro volere che quello equivalente al contenuto del corrispondente provvedimento formale non adottato: quando, cioè, emerga senza equivoco un collegamento biunivoco tra l’atto adottato o la condotta tenuta e la determinazione che da questi si pretende di ricavare, onde quest’ultima sia l’unica conseguenza possibile della presupposta manifestazione di volontà.

Alla luce delle esposte premesse, la problematica del provvedimento amministrativo implicito si riduce, allora, alla prefigurazione delle sue condizioni di ammissibilità (ovvero dei presupposti di fatto idonei alla ricostruzione, in via inferenziale, della volontà tacita dell’amministrazione).

L’elaborazione giurisprudenziale registratasi in argomento richiede, a tal fine (cfr., Consiglio di Stato sez. V n. 589 del 2019;
sez. IV, n. 2456 del 2018 cit.):

a ) che debba pregiudizialmente esistere, a monte, una manifestazione espressa di volontà (affidata ad un atto amministrativo formale o anche ad un comportamento a sua volta concludente), da cui possa desumersi l’atto implicito: e ciò in quanto la rilevanza relazionale dei comportamenti amministrativi deve essere apprezzata, in termini necessariamente contestualizzati, nel complessivo quadro dell’azione amministrativa;

b ) che, per un verso, la manifestazione di volontà “a monte” provenga da un organo amministrativo competente e nell’esercizio delle sue attribuzioni e, per altro verso, nella stessa sfera di competenza rientri l’atto implicito “a valle” (non palesandosi, in difetto, lecita la valorizzazione del nesso di presupposizione);

c ) che non sia normativamente imposto il rispetto di una forma solenne, dovendo operare il generale principio di libertà delle forme (arg . ex art. 21 septies cit.);

d ) che dal comportamento deve desumersi in modo non equivoco la volontà provvedimentale, dovendo esistere un collegamento esclusivo e bilaterale tra atto implicito e atto presupponente, nel senso che l’atto implicito deve essere l’unica conseguenza possibile di quello espresso (non potendo attivarsi, in difetto, il meccanismo inferenziale di necessaria implicazione);

e ) che, in ogni caso, emergano (avuto riguardo al concreto andamento dell’ iter procedimentale e alle effettive acquisizioni istruttorie: cfr. Consiglio di Stato, sez. V, n. 1034 del 2018 cit.) gli elementi necessari alla ricostruzione del potere esercitato.

Alla luce di tale coordinate appare evidente che nel caso di che trattasi manca la duplice condizione posta dalla lettera b), non rientrando certamente nella competenza del sindaco del comune, in base ai principi generali che postulano la separazione tra sfera di indirizzo politico e gestione amministrativa, l’adozione dell’atto dichiarativo della decadenza dal diritto di superficie oggetto di concessione.

Inoltre, sotto un ulteriore ma concorrente profilo, difetta nel caso di specie anche il presupposto della corrispondenza delle sfere di competenza tra l’atto a monte e quello a valle, atteso che il primo è stato adottato dal responsabile del settore urbanistica del comune, mentre il secondo dal sindaco.

4.3. Alla luce della ricostruzione di cui ai punti 3 e 4, ad avviso di questo Consiglio di Stato emerge in maniera evidente l’illegittimità della condotta del comune.

La sua inerzia (prima) e contraddittorietà (dopo) possono essere, almeno in parte, ricondotte a quella che la dottrina definisce “burocrazia difensiva” (espressione che si associa a quella – altrettanto diffusa – della c.d. “paura della firma”).

Questo fenomeno, che discende da un malinteso senso di “auto-protezione” della struttura amministrativa, finisce per anteporre tale protezione a quella dei cittadini e degli interessi pubblici che la stessa struttura dovrebbe prioritariamente tutelare.

Nel caso di specie, ciò va a detrimento: del diritto del privato a godere della propria abitazione, dell’interesse pubblico alla realizzazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica, ma anche – paradossalmente – della stessa struttura amministrativa che intendeva auto-proteggersi con la sua inerzia, poiché essa si rende responsabile di un danno da risarcire, come si dirà di seguito.

5. Affermata l’illegittimità del comportamento del comune sotto il duplice profilo della mancata adozione di un atto vincolato e della contraddittorietà, occorre ora affrontare i profili risarcitori della controversia.

Va innanzitutto esaminato l’assunto, su cui ha fatto leva il giudice di prime cure per respingere il ricorso, secondo il quale difetterebbe nella fattispecie un favorevole giudizio prognostico in ordine alla spettanza del bene della vita.

Il primo giudice afferma sul punto che: “ La domanda di risarcimento del danno non può essere altresì accolta, oltre che per i motivi già sopra evidenziati, anche in considerazione del fatto che, anche qualora l’amministrazione comunale avesse intrapreso le predette iniziative volte alla riacquisizione della piena proprietà dell’area e all’acquisizione della proprietà degli immobili in questione, avrebbe dovuto comunque procedere all’assegnazione degli alloggi attraverso un bando ad evidenza pubblica e con le procedure previste per l’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica - come esattamente rilevato nella richiamata nota del 24 aprile 2014 - per cui l’assegnazione dell’alloggio in favore dell’odierno ricorrente si sarebbe configurata esclusivamente come eventuale. Deve ritenersi infine l’infondatezza della domanda di risarcimento del danno, anche sotto un ulteriore profilo strettamente attinente alla specialità e peculiarità del caso di specie .

Anche sotto tale aspetto la sentenza appellata va riformata.

L’argomentazione, per quanto suggestiva, non è idonea a sostenere la tesi che intenderebbe far valere.

5.1. Sotto un primo profilo, si rileva che la causa petendi in base alla quale l’odierno appellante ha formulato la domanda di risarcimento del danno è costituita da una posizione di diritto soggettivo. Quello che viene fatto valere è, infatti, il diritto scaturente dal contratto preliminare di acquisto dell’immobile.

Trattasi, in particolare, di un diritto soggettivo che si intreccia con l’interesse legittimo (di natura oppositiva) alla stabilità del provvedimento che ha individuato l’appellante quale assegnatario dell’immobile.

La coesistenza delle due diverse situazioni giuridiche soggettive non impedisce al diritto soggettivo di mantenere la sua autonomia (sostanziale e processuale) a sostegno della domanda di risarcimento del danno.

Come già ricordato, nel caso in esame viene in rilievo una fattispecie di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, che si estende anche alle pretese risarcitorie quando, come nella specie, il diritto soggettivo è leso da un comportamento della pubblica amministrazione riconducibile, sia pure mediatamente, all’esercizio del potere e non da una mera attività materiale.

E in effetti, nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, la cognizione dei diritti soggettivi è aggiuntiva rispetto a quella degli interessi legittimi.

Come è stato esattamente rilevato in dottrina, la creazione della giurisdizione esclusiva non deve essere vista soltanto come un puro e semplice trasferimento di controversie su diritti soggettivi dal giudice ordinario al giudice amministrativo, trattandosi di qualcosa di più complesso e di più profondo.

La giurisdizione esclusiva finisce, invero, per avere un carattere composito, giacché tramite essa si intende conferire al giudice amministrativo “un intero territorio popolato sia da diritti soggettivi sia di interessi legittimi”, ivi comprese situazioni che si presentano così connesse e di tanta incerta qualificazione da suggerire la soluzione di attribuzione ad un giudice unico delle controversie che le riguardano.

La Corte costituzionale, con la nota decisione del 6 luglio 2004, n. 204, in armonia con i predetti approdi dottrinali, interpretando in maniera rigorosa la previsione dell’art. 103 della Costituzione, ha chiarito che il giudice amministrativo può conoscere i diritti soggettivi solo in “particolari materie”, affermando la necessità di un collegamento tra l’ambito devoluto alla giurisdizione amministrativa e l’esercizio di un potere autoritativo da parte della pubblica amministrazione. La Corte ha definito tali le materie come quelle nelle quali la pubblica amministrazione agisce in veste di “autorità” e in cui risultano comunque presenti le situazioni giuridiche di interesse legittimo. Deve trattarsi cioè di materie che, in assenza di una disposizione legislativa che le devolve alla giurisdizione esclusiva, “contemplerebbero pur sempre, in quanto opera la pubblica amministrazione-autorità, la giurisdizione generale di legittimità”. Non è sufficiente, per rispettare il parametro indicato dall’art. 103 della Costituzione, che si tratti di controversie nelle quali parte del giudizio sia una pubblica amministrazione, né che sia presente un “generico coinvolgimento dell’interesse pubblico”.

Nella successiva sentenza n. 191 del 2006, la Corte Costituzionale ha ulteriormente chiarito che è conforme alla costituzione anche la previsione legislativa di casi di giurisdizione esclusiva nei quali i comportamenti della pubblica amministrazione sono riconducibili, anche solo mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere. Nei termini suindicati, la cognizione del giudice amministrativo, nelle materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, si estende anche alle domande risarcitorie, sia per lesione di diritti soggettivi che per lesione di interessi legittimi.

Questa conclusione resta ferma, all’esito di un ampio dibattito terminato con la decisione della Corte costituzionale del 27 aprile 2007, n. 140, anche quando vengono in rilievo, come nella specie, diritti fondamentali, essendo stata superata, almeno nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva, la risalente impostazione della Suprema Corte di Cassazione (per tutte, Cassazione 9 marzo 1979 n. 1463) che predicava la sussistenza di diritti indegradabili da parte del potere amministrativo.

Sul piano processuale, da tutto quanto precede discende che, se il ricorrente fa valere nel ricorso soltanto un interesse legittimo, il processo segue le regole proprie della giurisdizione generale di legittimità;
se invece il ricorrente fa valere soltanto un diritto soggettivo, cambia il termine per proporre l’azione risarcitoria, che diviene quello relativo alla prescrizione quinquennale, anziché il termine decadenziale di 120 giorni previsto per l’azione di risarcimento a tutela degli interessi legittimi.

Ciò premesso, la tesi prospettata nella sentenza impugnata appare smentita dall’affermazione, largamente condivisa dagli interpreti, secondo cui lo schema del diritto soggettivo prescinde dal giudizio sulla spettanza del bene della vita, rispondendo alla sequenza norma-fatto-effetto (a differenza dell’interesse legittimo, che invece risponde alla sequenza norma-potere-effetto, laddove il collegamento tra fatto ed effetto è intermediato dall’esercizio del potere).

5.2. Sotto un secondo profilo, che prescinde da tali formali schemi qualificatori, l’argomentazione del giudice di prime cure appare comunque da respingere anche alla stregua delle specifiche risultanze, in punto di fatto, della peculiare fattispecie in esame.

5.2.1. Contro l’esattezza dell’argomentazione contenuta nella sentenza di primo grado può, in primo luogo, osservarsi che un bando pubblico per la individuazione dei soggetti assegnatari nel caso di specie c’era già stato e aveva portato alla individuazione dell’odierno appellante tra i soggetti assegnatari di un alloggio di edilizia economica e popolare.

Il comune, quindi, bene avrebbe potuto tener ferma la graduatoria con la quale gli assegnatari erano stati a suo tempo individuati, così come formata all’esito della procedura indetta con bando pubblico.

E ciò anche alla luce dell’ulteriore circostanza per cui, almeno per quanto concerne la posizione dell’appellante, il prezzo dell’abitazione era stato già interamente pagato.

5.2.2. Le conclusioni raggiunte non verrebbero, peraltro, infirmate quand’anche si condividesse l’assunto del giudice di primo grado secondo cui il comune, dopo aver recuperato gli immobili in esame, avrebbe potuto comunque scegliere di ripetere la selezione pubblica degli assegnatari degli alloggi di edilizia residenziale.

Ad avviso della Sezione, neppure muovendo da tale diversa premessa ricostruttiva discenderebbe, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata, la conclusione dell’infondatezza della pretesa dell’appellante.

Soccorrono, sotto tale profilo, i principi in materia di arricchimento indiretto della pubblica amministrazione.

Con l’espressione “arricchimento indiretto” si fa riferimento alle ipotesi in cui il soggetto che risulta arricchito a seguito di un determinato spostamento di ricchezza non coincide con il soggetto con il quale l’impoverito ha un rapporto giuridico diretto. Si tratta, in altri termini, di casi caratterizzati: da un lato, dall’esecuzione di una prestazione che, eseguita per conto di un determinato soggetto, finisce per arricchire un terzo;
dall’altro, dal fatto che l’esecutore materiale della prestazione non riceve, per i più svariati motivi, il compenso da colui per conto del quale ha operato.

Il problema posto da ipotesi siffatte è quello di appurare se ricorrano tutti i presupposti ai quali la legge subordina la concessione del rimedio dell‘ingiustificato arricchimento.

Secondo un risalente insegnamento dottrinale e giurisprudenziale, infatti, affinché si verifichi l’ipotesi dell’ingiustificato arricchimento senza causa, contro il quale è concesso il rimedio di cui all’art. 2041 cod. civ., è necessario il concorso simultaneo di due elementi: l’arricchimento di un soggetto e la diminuzione patrimoniale a carico di un altro soggetto, provocati da un unico fatto costitutivo e, dunque, legati da nesso causale diretto;
la mancanza di una causa giustificatrice dello spostamento di ricchezza verificatosi.

A prima vista sembrerebbe, infatti, che in ipotesi di arricchimento indiretto faccia difetto il requisito dell’unicità del fatto costitutivo, dal momento che, nel caso in cui il soggetto arricchito sia diverso da quello con il quale l’impoverito ha un rapporto diretto, lo spostamento patrimoniale fra arricchito e impoverito sembra piuttosto determinato da una successione di fatti distinti.

E ciò in base alla considerazione per cui l’eventuale arricchimento sembra costituire soltanto un effetto indiretto o riflesso dell’attribuzione patrimoniale eseguita.

In queste ipotesi, inoltre, potendo l’impoverito esperire un’altra azione tipica nei confronti del soggetto al quale è legato da vincolo giuridico diretto, e per conto del quale ha agito, l’azione di ingiustificato arricchimento sembra doversi negare anche per carenza del requisito della sussidiarietà.

Tuttavia, all’impostazione fondata sulla necessità di un nesso causale diretto tra depauperamento e arricchimento è stata mossa la critica di trasferire arbitrariamente nella materia dell’ingiustificato arricchimento un requisito, quello appunto del nesso causale, che è proprio della disciplina normativa del fatto illecito. Il nostro sistema giuridico, infatti, nella disciplina dell’ actio de in rem verso non fa parola della necessità di tale nesso causale diretto.

Muovendo da tale obiezione, la dottrina più attenta ha, quindi, elaborato la teoria della relazione di causalità meramente storica: il rapporto di causalità sarebbe, cioè, sussistente anche laddove si possa dimostrare che l’arricchimento non si sarebbe verificato senza il depauperamento di un determinato soggetto, per modo che il fondamento dell’indennizzo ex art. 2041 cod. civ. non verrebbe meno pur quando l’ingiustificato spostamento patrimoniale abbia tratto origine non da un unico fatto costitutivo, ma da una successione di fatti.

Sul piano normativo tale conclusione trova riscontro nell’art. 2038 c.c., che disciplina la fattispecie dell’alienazione a terzi della cosa indebitamente ricevuta.

Come è stato autorevolmente evidenziato in dottrina, la ratio sottesa a tale disposizione impone di operare un distinguo fra i diversi casi di arricchimento indiretto.

La disciplina dettata dall’art. 2038 cod. civ. a proposito degli obblighi restitutori nel caso di successiva alienazione a terzi della cosa indebitamente ricevuta risulta modellata rispetto a una duplice alternativa, vale a dire a seconda che l’ accipiens indebiti abbia ricevuto la cosa in buona ovvero in mala fede e a seconda che l’alienazione a terzi sia avvenuta a titolo oneroso ovvero gratuito.

Ebbene, con riguardo all’ipotesi di alienazione a titolo gratuito posta in essere dall’ accipiens di buona fede, la norma obbliga il terzo acquirente, nei limiti del suo arricchimento, verso colui che ha pagato l’indebito, mentre ove l’ accipiens sia stato di mala fede l’obbligo del terzo acquirente, sempre a titolo gratuito, sorge successivamente all’inutile escussione dell’alienante.

In ipotesi di alienazione a titolo gratuito, quindi, l’obbligo di restituzione non incombe sul primo accipiens indebiti - il quale, a causa della successiva alienazione senza corrispettivo, non può considerarsi arricchito dal ricevimento della prestazione non dovuta - bensì sul destinatario finale, che peraltro è tenuto alla restituzione soltanto nei limiti del suo arricchimento.

L’art. 2038 cod. civ., in definitiva, riconosce la legittimità di un’azione di arricchimento anche laddove il depauperamento e l’arricchimento siano provocati non da un unico fatto costitutivo, ma da una successione di fatti, costituiti, nella specie, dal ricevimento della res indebita e dalla sua successiva alienazione a terzi.

L’istituto in esame trova riscontro anche nel diritto comparato.

La disciplina dettata dall’art. 2038 c.c. rinviene, infatti, il proprio pendant , nell’ordinamento giuridico tedesco, nel §822 BGB, secondo cui, appunto, ove la cosa indebitamente ricevuta sia alienata a terzi a titolo gratuito, la pretesa restitutoria deve essere indirizzata contro il terzo acquirente, come se la disposizione operata dall’ accipiens indebiti a favore del terzo fosse avvenuta senza causa.

I principi ricavabili dalla interpretazione dell’art. 2038 c.c sono stati ritenuti, da una parte della dottrina, applicabili analogicamente anche al tema dell’arricchimento indiretto, in relazione al quale si è reputato di dover concedere l’azione ex art. 2041 contro il terzo con il quale non intercorre un rapporto giuridico diretto, purché quest’ultimo abbia acquistato a titolo gratuito.

Sulla base di tale impostazione, pertanto, alla regola generale in forza della quale l’azione di arricchimento resta subordinata alla verifica di un rapporto diretto tra impoverito ed arricchito fa eccezione il caso in cui impoverimento e arricchimento siano provocati da fatti diversi e successivi, ma lo spostamento patrimoniale a favore dell’arricchito avvenga a titolo gratuito.

La tesi che ammette il c.d. arricchimento indiretto ha, infine, entro certi limiti, fatto breccia anche nella giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione, che, con la decisione dell’8 ottobre 2008, n. 24772, ha accolto il principio di diritto in base al quale: “ la concessione del rimedio di cui all’art. 2041 c.c. nelle fattispecie di c.d. arricchimento indiretto è circoscritta a due ipotesi eccezionali: a quella dell’arricchimento mediato conseguito da una pubblica amministrazione rispetto ad un ente, anch’esso di natura pubblicistica, direttamente beneficiario od utilizzatore della prestazione dell’impoverito, e a quello dell’arricchimento conseguito dal terzo a titolo meramente gratuito ” (cfr. anche la più recente Corte di Cassazione, Sez. III, 22 ottobre 2021, n. 29672). La fattispecie sulla quale è intervenuta la sentenza citata rappresenta, per l’appunto, un’ipotesi di arricchimento indiretto: il soggetto finanziatore dell’operazione contrattuale, infatti, attraverso l’esborso di denaro, ha finito per arricchire il promittente venditore, pur avendo un rapporto giuridico diretto con il promittente acquirente.

Applicando tali principi al caso di specie, ne discende che l’appellante, avendo pagato alla concessionaria di un bene pubblico l’intero corrispettivo dell’abitazione, avrebbe comunque vantato nei confronti dell’amministrazione comunale un credito per l’arricchimento senza causa, ottenuto indirettamente e a titolo gratuito da quest’ultima, dell’esatto ammontare della somma di cui reclama la spettanza a titolo del risarcimento del danno.

Di qui la conclusione per cui il comportamento illegittimo del comune, di cui si è dato conto in precedenza, ha impedito la nascita di tale posta creditoria e per tale ragione integra gli estremi di un illecito aquiliano, fonte di responsabilità risarcitoria.

6. Occorre ora esaminare l’ulteriore profilo, evidenziato dalla sentenza impugnata, della tardività della richiesta risarcitoria.

Il giudice di prime cure afferma che: “ sarebbe stato onere del ricorrente di contestare la predetta posizione dell’amministrazione, qualora ritenuta illegittima, sia attraverso la tempestiva impugnazione della predetta nota del 24 aprile 2014, con la quale formalmente e univocamente viene manifestata la volontà del comune - sorretta da plurime motivazioni - di non intraprendere le iniziative auspicate dal ricorrente;
sia attraverso la formalizzazione dell’inerzia dell’amministrazione comunale nell’adottare le iniziative e nel porre in essere gli adempimenti - ritenuti necessari, obbligatori e vincolati dal ricorrente - conseguenti al fallimento della cooperativa, tra i quali, in primo luogo, l’immissione nel possesso dei lotti ormai rientrati - secondo la prospettazione del ricorrente - nel patrimonio del comune in virtù della decadenza della concessione e conseguente impugnazione dell’eventuale silenzio inadempimento dell’amministrazione medesima, in considerazione del disposto di cui all’articolo 30 del codice del processo amministrativo che espressamente “esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.

La posizione di diritto soggettivo vantata dall’odierno appellante, ampiamente argomentata al punto 5, consente di smentire anche tale assunto, atteso che la richiesta risarcitoria è stata formulata dall’appellante entro il termine di prescrizione di 5 anni decorrente da quando l’evento dannoso si è manifestato, vale a dire dalla sentenza della Corte d’Appello n. 104 del 2011 con cui è stato dichiarato risolto il preliminare di acquisto sottoscritto dall’odierno appellante (ovvero, in alternativa, dallo sfratto subìto dall’appellante nel mese di giugno del 2013).

In effetti, il ricorso in primo grado è stato depositato il 24 luglio 2015.

Precedentemente all’anno 2011, la prescrizione non poteva decorrere, vuoi in base alla considerazione per cui l’illecito omissivo è imprescrittibile ove la condotta abbia carattere permanente (cfr. T.a.r per il Lazio n. 6480 del 19 maggio 2022), vuoi in base alla consolidata giurisprudenza (cfr., ex multis , Corte di Cassazione, Sez. Lav., n. 12666 del 29 agosto 2003) sui c.d. danni lungo-latenti, secondo la quale il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito sorge dal momento in cui la produzione del danno si manifesta all’esterno, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile.

Ovviamente, il termine non poteva neppure farsi decorrere dalla emanazione del provvedimento del 2004, poiché l’iniziale provvedimento dichiarativo della decadenza era, per l’odierno appellante, un provvedimento a lui favorevole, mentre il fatto dannoso è scaturito soltanto a seguito della sua mancata opposizione alla curatela fallimentare, su cui si è innestato il successivo ripensamento dell’amministrazione (ripensamento che, sino al 2014, non è stato mai manifestato espressamente).

7. A negare la pretesa risarcitoria non vale neppure evocare, come fa la sentenza impugnata, il disposto di cui all’articolo 30, comma 3, c.p.a. che espressamente “esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.

7.1. A tal proposito, osserva il Collegio che è affermazione condivisa quella secondo cui l’istituto di cui all’art. 30, comma 3, c.p.a. si colloca, sotto il profilo sistematico, nell’ambito del c.d. rapporto di causalità giuridica.

La distinzione fra causalità materiale e causalità giuridica costituisce da tempo un’acquisizione giurisprudenziale (cfr. Adunanza Plenaria n. 3 del 2011;
Cass. Sez. Unite 11 gennaio 2008, n. 576 e Cass. Sez. Unite 11 novembre 2008, n. 26972).

In base a tale consolidata elaborazione, si suole distinguere nell’ambito dell’illecito aquiliano la “causalità materiale”, rilevante ai fini dell’imputazione del danno evento ( dommage o damnum) a una determinata condotta secondo i criteri di responsabilità previsti dalla disciplina del fatto illecito, e la “causalità giuridica”, di cui sono espressione gli artt. 1223 e 2056 c.c., la quale, in funzione di selezione delle conseguenze dannose risarcibili, attiene al nesso eziologico fra il danno evento ed il c.d. danno conseguenza ( préjudice o praeiudicium ), costituente l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria.

L’onere di cooperazione in parola può essere ricondotto allo schema di carattere generale del “ concorso del fatto colposo del creditore ” previsto dall’art. 1227 del codice civile (richiamato dall’art. 2056 c.c. per la responsabilità da fatto illecito) e più precisamente nell’ipotesi del secondo comma (evocativo di un principio di causalità giuridica, a differenza del primo comma che disciplina il nesso di causalità materiale condotta-evento), per la quale il risarcimento “ non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza ”.

Come è noto, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, nella decisione n. 3 del 2011, ha chiarito che il codice del processo amministrativo ha mostrato di apprezzare, sul versante sostanziale, la rilevanza eziologica dell’omessa impugnazione come fatto valutabile al fine di escludere la risarcibilità dei danni che, secondo un giudizio causale di tipo ipotetico, sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di tempestiva reazione processuale nei confronti del provvedimento potenzialmente dannoso. Ad avviso della citata Adunanza Plenaria, l’azione di annullamento rientra nel novero dei comportamenti diligenti ordinariamente esigibili dal creditore secondo buona fede. Da ciò discende che quando la tempestiva azione di annullamento avrebbe, secondo un giudizio di causalità ipotetica, impedito il danno, la domanda di risarcimento, sebbene ammissibile, va respinta nel merito.

7.2. Applicando tali coordinate al caso di specie, il Collegio rileva che al momento della adozione del provvedimento dell’aprile 2014, con cui il comune di Giba ha definitivamente manifestato la volontà di non intraprendere iniziative finalizzate al recupero degli immobili, l’odierno appellante era già stato privato della sua abitazione.

Segnatamente, con la sentenza della Corte di Appello di Cagliari n. 104 del 2011 è stato dichiarato risolto il contratto preliminare di acquisto dell’immobile e, nel mese di giugno 2013, è stata completata la procedura di sfratto in danno dell’odierno appellante.

Appare pertanto pacifico che il provvedimento dell’aprile 2014 è intervenuto quando si era già inverato non solo il danno-evento, ma anche la gran parte del danno-conseguenza (patrimoniale e non patrimoniale) determinato dalla perdita dell’abitazione.

La mancata impugnazione del provvedimento del sindaco, pertanto, non può assumere la funzione, che impropriamente le attribuisce la sentenza impugnata, di elidere il risarcimento, in quanto la sua impugnazione non avrebbe più potuto evitare il danno ormai perpetratosi.

Peraltro l’Adunanza Plenaria, nella decisione menzionata, ha chiarito che non sempre la mancata impugnazione può essere ritenuta un comportamento contrario a buona fede e, come tale, suscettibile di assumere rilievo ai sensi dell’art. 30, comma 3, c.p.a., ma soltanto nelle ipotesi in cui si appuri che una tempestiva impugnazione avrebbe evitato o mitigato il danno.

Alla luce di tali principi, la Sezione non ritiene che nel caso di specie, per le circostanze fattuali in precedenza evidenziate, l’eventuale impugnazione del provvedimento del sindaco avrebbe potuto anche solo ridurre le conseguenze risarcitorie in ragione della già avvenuta formazione del giudicato in favore del fallimento.

7.3. A ciò si aggiunga che, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata, l’appellante non è rimasto affatto inerte dinanzi al comportamento omissivo della pubblica amministrazione, avendo proceduto, come ricordato nella parte in fatto, a compulsare il comune di Giba a più riprese con varie diffide finalizzate ad ottenere la trascrizione del provvedimento di decadenza.

La tesi propugnata dalla sentenza impugnata trascura di considerare che lo stesso comune, con la determinazione adottata 10 anni prima dal competente responsabile del settore urbanistica, aveva dichiarato la decadenza dalla concessione, e pertanto non avrebbe dovuto omettere gli atti obbligatori e conseguenziali consistenti nel portare a termine le formalità necessarie per rendere opponibili la decadenza ai terzi e segnatamente al Fallimento della Cooperativa Edile Santadi.

La circostanza non appare irrilevante atteso che, come ribadito anche di recente dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio n. 7 del 2021, nel settore della responsabilità dell’amministrazione, il criterio in questione si declina nel senso che a carico del privato è posto un onere di ordinaria diligenza - come tale valutabile dal giudice - di attivarsi con ogni strumento non solo processuale ma anche procedimentale, per delimitare in termini quantitativi il perimetro del danno risarcibile. Alla stregua di quanto rilevato, ciò risulta essere avvenuto nel caso di specie.

8. Non può, infine, essere condivisa l’ultima parte della motivazione della sentenza impugnata nella quale si fa leva sulla “specialità” e sulla “peculiarità” del caso di specie.

Il Tribunale amministrativo afferma che: “ se, in via normale, deve ritenersi che i beni rientranti nei progetti di edilizia popolare sono destinati al pubblico servizio e non sono pertanto sottraibili alla loro funzione -come rilevato dal ricorrente nei propri atti difensivi- deve tuttavia riconoscersi la specialità e peculiarità del caso di specie, in ragione dei peculiari aspetti rilevanti nel caso in esame e concernenti la rilevata gravosità dell’indennizzo che il comune avrebbe dovuto corrispondere per gli alloggi realizzati sull’area in questione e la conseguente natura della relativa operazione quale economicamente insostenibile ai fini di un corretto utilizzo dei fondi pubblici ”.

A prescindere dal fatto che non appare condivisibile negare una richiesta risarcitoria sulla base di pretesi aspetti peculiari (che possono essere rinvenuti in ogni fattispecie giuridica), non appare evidente neppure la supposta “gravosità” dell’indennizzo che il comune avrebbe dovuto corrispondere.

Difatti, come si è detto, per effetto del citato atto che attestava l’intervenuta decadenza della Cooperativa Santadi dalla concessione del diritto di superficie, il comune ha acquistato a titolo originario per accessione la proprietà degli immobili, il cui costo era già stato integralmente sostenuto dall’odierno appellante in omaggio al noto principio della copertura integrale dei costi di realizzazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica.

Conferma tale conclusione il fatto che il Fallimento non ha impugnato la determinazione dichiarativa della decadenza e nessuna richiesta di indennizzo ha mai avanzato nei confronti del comune (essendo state le spese di costruzione sostenute dagli assegnatari, come più volte detto).

Non vi era, quindi, ragione evidente per discostarsi dai pacifici orientamenti giurisprudenziali, prima esaminati, in base ai quali la pubblica amministrazione è tenuta a pronunciare la decadenza dal diritto di superficie attribuito a una Cooperativa allorquando si realizzi una delle ipotesi all’uopo previamente previste, che sono finalizzate a soddisfare l’interesse pubblico in capo ai soggetti destinatari dell’intervento di edilizia residenziale pubblica.

Sulla base di quanto sinora osservato occorre puntualizzare che, per evitare il danno subìto dall’odierno appellante, sarebbe stato sufficiente, prima ancora che trascrivere il provvedimento di decadenza (che pure sarebbe stato doveroso), comunicare al curatore fallimentare la determina del responsabile del settore urbanistica con la quale si era dato avvio al procedimento volto alla dichiarazione di decadenza della concessione, facendo valere l’acquisto a titolo originario per accessione nei confronti della procedura fallimentare.

È, invero, affermazione largamente condivisa, sia in dottrina sia in giurisprudenza, che la trascrizione degli acquisti a titolo originario non svolge alcuna funzione sostanziale, né in relazione all’acquisto stesso, né a fini di opponibilità, dal momento che tale modo di acquisto prescinde totalmente dal meccanismo pubblicitario (salvo il caso di usucapione abbreviata, in cui la trascrizione è co-elemento della fattispecie acquisitiva con funzione costitutiva). L’acquisto del diritto è quindi potenzialmente opponibile ai terzi anche in mancanza di trascrizione. L’assunto trova puntuale conferma nel disposto di cui all’art. 2651 c.c. dal quale si ricava che la trascrizione delle sentenze da cui risulta un acquisto a titolo originario è del tutto eventuale: l’espressione “devono” di cui al predetto articolo è infatti riferita esclusivamente alle ipotesi in cui l’acquisto a titolo originario risulti da una sentenza (che ha sempre natura dichiarativa: cfr. Cassazione n. 94 del 8650), mentre non vi è onere alcuno di pubblicità del fatto costitutivo del diritto. Ciò vale quanto dire che l’acquisto a titolo originario, in sé e per sé, non è soggetto a trascrizione, perché non comporta una vicenda a carattere successorio;
solo nel caso in cui l’acquisto a titolo originario sia controverso e provochi una lite si avrà una sentenza di accertamento, che sarà trascritta ex art. 2651 c.c.

La trascrizione prevista dall’art. 2651 ha in definitiva mera efficacia di pubblicità notizia (ed è quindi priva di effetti sostanziali) e può assumere, in ultima analisi, il compito di rendere più efficace il sistema pubblicitario. Ne deriva che il conflitto tra acquirente a titolo derivativo ed acquirente a titolo originario è sempre risolto a favore di quest’ultimo, indipendentemente dalla sentenza che accerta l’usucapione e dall’anteriorità della trascrizione di essa o della relativa domanda rispetto alla trascrizione dell’acquisto a titolo derivativo (cfr. Cassazione n. 2161 del 2005;
n. 20037 del 2010;
n. 15503 del 2000).

In tali casi, come è stato puntualmente osservato, non sorge neppure un conflitto in senso tecnico, non trattandosi di acquisti da un comune autore. È peraltro evidente che, sul piano della convenienza pratica, ben difficilmente un acquisto a titolo originario resterà privo di pubblicità, in quanto in mancanza di trascrizione l’acquirente a titolo originario si troverebbe in grave difficoltà ove intendesse rivendere il bene.

Da quanto rilevato appare chiaro che il comportamento omissivo del comune di Giba nel caso di specie assume un marcato connotato di gravità giacché per far salvo l’acquisto sarebbe stato sufficiente, in base agli evidenziati principi che presiedono alla risoluzione di conflitti tra acquisti a titolo derivativo e acquisti a titolo originario, opporre in via giudiziale o stragiudiziale l’atto dichiarativo della decadenza alla curatela fallimentare.

Laddove infatti il comune avesse fatto valere nei confronti della Curatela fallimentare le proprie prerogative proprietarie, scaturenti dalla dichiarata decadenza del concessionario dal diritto di superficie, sarebbe stata impedita la vendita all’asta degli alloggi realizzati nel Piano di Zona, anche a prescindere dall’omissione della trascrizione.

L’assunto trova puntuale riscontro, sia pure in base ad un diverso percorso argomentativo, in una recente sentenza della Corte d’Appello di Cagliari n. 889 del 2019, relativa a una fattispecie, sotto più profili, sovrapponibile a quella in esame.

Con tale decisione è stata confermata la sentenza del Tribunale di Cagliari n. 1542 del 2018, con la quale è stata accolta l’opposizione proposta da un comune ed è stato accertato che un istituto bancario non aveva il diritto di procedere all’esecuzione forzata sulle aree oggetto di concessione del diritto di superficie a una cooperativa per effetto della dichiarata decadenza da tale concessione, disposta mediante determinazione del responsabile di servizio. Nell’occasione la Corte di appello ha anche rigettato l’eccezione formulata dalla banca in ordine alla mancanza della trascrizione della determinazione di decadenza osservando che “la determina con la quale era stata dichiarata la decadenza della Coop. Edilizia Rinascita dal diritto di superficie era stata pubblicata all’albo pretorio e, trattandosi di un provvedimento amministrativo, non si ritiene rientri fra gli atti di disposizione volontaria soggetti a trascrizione ai sensi degli artt. 2643 e 2645 c.c.”.

9. Dopo aver esaminato gli elementi oggettivi dell’illecito aquiliano posto in essere dal comune di Giba, resta da analizzare il profilo della colpa della pubblica amministrazione.

Alla luce delle considerazioni che precedono, la sua sussistenza è evidente, ad avviso del Collegio, avuto riguardo: alla contraddittorietà dell’atteggiamento tenuto, al lungo lasso di tempo durante il quale il comune ha omesso di esercitare un’attività doverosa e al fatto che per scongiurare la vendita all’asta degli alloggi sarebbe stato sufficiente, prima ancora che trascrivere il provvedimento di decadenza, comunicare al curatore fallimentare la determina del responsabile del settore urbanistica, con la quale si era dato avvio al procedimento volto alla dichiarazione di decadenza della concessione, e far valere l’acquisto a titolo originario per accessione nei confronti della procedura fallimentare.

La colpevole inerzia inziale, protrattasi per circa 10 anni, si è infine tramutata nell’elemento soggettivo del dolo (palesando una contraddizione difficile da spiegare e tale da integrare un vizio della funzione amministrativa) allorquando il comune di Giba, per il tramite di una nota del nuovo sindaco, ha manifestato la volontà di non portare a termine il procedimento finalizzato a rendere opponibile la dichiarazione di decadenza, in tal modo violando il contenuto dell’art. 14 della convenzione stipulata.

10. Rilevata, alla luce delle considerazioni che precedono, la responsabilità della pubblica amministrazione per omessa attivazione di un’attività vincolata e doverosa, occorre a questo punto esprimersi in ordine alla qualificazione e quantificazione dei danni subìti dall’appellante.

Nel caso di specie la perdita subìta, patrimoniale e non, attiene al godimento diretto o indiretto dell’immobile dall’appellante adibito a casa familiare.

10.1. Quanto ai danni patrimoniali, appare adeguatamente comprovato, sulla base della documentazione allegata agli atti del giudizio, il danno emergente relativo alla somma di € 16.807,00 (pari a Lire 32.980.000) corrisposta a titolo di prezzo per l’acquisto dell’alloggio di edilizia economica popolare e alla somma di € 1.528,00 (pari a Lire 2.998.000) corrisposta a titolo di spese sostenute per le migliorie apportate all’immobile e debitamente documentate. Parimenti comprovato appare il danno emergente pari alla somma di € 30.000,00 corrisposta a titolo di canoni di locazione pagati alla Curatela fallimentare per un’abitazione che l’appellante avrebbe avuto titolo ad acquistare in proprietà (e che aveva di fatto legittimamente occupato) in forza del contratto preliminare.

Non pare invece adeguatamente dimostrato il lucro cessante correlato alla perdita del finanziamento pubblico a fondo perduto per l’acquisto della prima casa (c.d. “buono casa” ex l. n. 94/82) di Lire 17.600.000, al quale l’odierno appellante sostiene, senza fornirne adeguato supporto probatorio, di essere stato costretto a rinunciare proprio per acquistare l’alloggio di edilizia economica e popolare, non essendo cumulabili le due possibilità (buono casa e diritto di superficie ex art. 35 della l. n. 865 del 1971).

10.2. Quanto alla richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale, il Collegio premette che il diritto all’abitazione, in ragione del suo carattere sociale, attrae a sé una molteplicità di interessi meritevoli di tutela che appartengono a diverse fasi dell’attuazione del diritto stesso. In dottrina si è parlato, al riguardo, di diritto all’accesso alla casa, la cui effettiva realizzazione non può prescindere dall’attività statale di erogazione di un pubblico servizio di costruzione e assegnazione di alloggi economici e popolari.

Il danno derivante dal mancato godimento di una casa oggetto di assegnazione ricomprende quindi al suo interno anche una componente non patrimoniale (nella specie morale), consistente nella sofferenza subìta a causa della privazione della casa adibita ad abitazione familiare, trattandosi di un bene funzionale a integrare quel minimo di condizioni materiali necessarie a condurre un’esistenza dignitosa.

Rispetto all’onere probatorio posto in capo al danneggiato, è affermazione consolidata quella secondo la quale è possibile far ricorso alla prova presuntiva, la quale potrà costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (cfr. Cassazione, Sezioni Unite, 11 novembre 2008 n. 26972).

Sul punto il Collegio ulteriormente osserva che l’onere della prova può naturalmente essere assolto anche mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza (art. 115, comma 2, c.p.c.) o mediante presunzioni semplici.

Come chiarito dall’ Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato n. 7 del 2013 Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza, che deve essere allegato e provato, non potendosi accogliere la tesi che identifica il danno con l’evento dannoso, parlando di ‘danno evento’ ovvero che il danno sarebbe ‘in re ipsa’, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo” (cfr. Cass., sez. II, 19 agosto 2011 n. 17427). Si ammette tuttavia il ricorso alle presunzioni e alla quantificazione del danno in via equitativa ”, essendo però “ sempre necessario - pur non potendosi evidentemente procedere a una rigorosa e analitica determinazione - che la motivazione indichi gli elementi di fatto che nel caso concreto sono stati tenuti presenti e i criteri adottati nella liquidazione equitativa, perché altrimenti la valutazione si risolverebbe in un giudizio del tutto arbitrario, in quanto non è suscettibile di alcun controllo ”.

In linea con tali considerazioni, la giurisprudenza civile ha chiarito che il convincimento del giudice può ben fondarsi anche su una sola presunzione, purché grave e precisa, e non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità;
cioè che il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto sia accertato alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possano verificarsi secondo regole di esperienza (cfr. Cassazione, sez. VI, 4 gennaio 2013, n. 132).

Il principio è stato di recente ribadito dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana con la decisione del 25 maggio 2023, n. 367 nella quale si è stabilito che: “ Si ammette la prova per presunzioni semplici, in ordine all’an del danno non patrimoniale, qualora il danneggiato alleghi elementi di fatto dai quali è possibile ritenere l’esistenza e l’entità del pregiudizio lamentato. Si ammette, per ciò che concerne il quantum, la liquidazione dello stesso in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c ”.

Privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato (Cassazione 7 gennaio 2021, n. 39;
20 gennaio 2022, n. 4936;
22 aprile 2022, n. 12865), ritiene il Collegio che l’appellante abbia assolto all’onere di provare il danno emergente di cui con il presente atto di appello chiede il relativo ristoro. Tale esito interpretativo, per quanto riguarda la lesione della facoltà di godimento, resta coerente con il significato di danno risarcibile quale perdita patrimoniale subìta in conseguenza di un fatto illecito (cfr. Cassazione, Sezioni Unite, 15 novembre 2022, n. 33645).

In applicazione di tali principi, il Collegio deve valutare la questione se sia stata fornita dall’ interessato la prova del “fatto-base” su cui si fonda la domanda risarcitoria anzidetta, dal quale possa inferirsi la ricorrenza del fatto rilevante ai fini dell’accoglimento della stessa domanda.

Al riguardo, si rileva che l’odierno appellante ha esposto di aver subìto un danno ingiusto e molto grave, perché egli si è visto privare dell’alloggio che aveva adibito a casa di abitazione per circa 25 anni, che deteneva in forza di un titolo legittimo, ossia il contratto preliminare del quale aveva provveduto a pagare integralmente il relativo il corrispettivo.

Circostanze incontroverse, come già detto, le quali consistono in allegazioni sufficienti a costituire la prova di una serie concatenata di fatti noti aventi i requisiti di gravità, precisione e concordanza, ossia del detto fatto-base dal quale è agevole inferire il fatto-conseguenza del pregiudizio non patrimoniale subìto in applicazione di regole di esperienza, ossia come conseguenza ragionevolmente possibile secondo un criterio di normalità, da quantificare in via equitativa nella somma richiesta di 13.000 euro.

Tali regole di esperienza sono, infatti, tecniche di apprezzamento dei fatti di carattere generale, derivanti dall’osservazione reiterata di fenomeni naturali e socioeconomici;
di esse il giudice è tenuto ad avvalersi, ai sensi dell’art. 115, co. 2, cod. proc. civ., come regola di giudizio destinata a governare sia la valutazione delle prove che l’argomentazione di tipo presuntivo (cfr. Cass., sez. II, 4 ottobre 2011 n. 20313).

Alla stregua delle medesime regole di esperienza, in assenza di prova contraria da parte di comune di Giba, è oggettivamente indiscutibile che la perdita della casa di abitazione si traduce in una sofferenza della persona, tanto più grave quanto più si protrae nel tempo la relativa privazione. Tanto, oltre che in base ad una nozione di senso comune, anche in forza di studi condotti nei vari campi della medicina, biologia, psicologia, sociologia, aziendalistica, ecc. (cfr. la citata decisione della Suprema Corte di Cassazione n. 6161 del 2012).

11. Per le ragioni svolte l’appello deve essere accolto e la sentenza di primo grado riformata.

Alla luce delle osservazioni che precedono, il danno patrimoniale va determinato nella misura di euro 48.335,00, mentre il danno non patrimoniale subìto dall’odierno appellante va equitativamente determinato nella misura di euro 13.000,00.

Le spese del doppio grado di giudizio seguono il principio della soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

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