Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2015-11-03, n. 201505012

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2015-11-03, n. 201505012
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201505012
Data del deposito : 3 novembre 2015
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 09526/2014 REG.RIC.

N. 05012/2015REG.PROV.COLL.

N. 09526/2014 REG.RIC.

N. 09524/2014 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9526 del 2014, proposto da:
M D C, rappresentato e difeso dall'avv. A M, con domicilio eletto presso Associati Studio Grez E in Roma, corso Vittorio Emanuele II, 18;

contro

Comune di Cattolica, in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dall'avv. N F, con domicilio eletto presso M Paola Giorgi in Roma, Via dei Gracchi, 128;



sul ricorso in appello numero di registro generale 9524 del 2014, proposto da:
M D C, Ines Pedrini, rappresentati e difesi dall'avv. A M, con domicilio eletto presso E Associati Srl Grez in Roma, corso Vittorio Emanuele II, 18;

contro

Comune di Cattolica, in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dall'avv. N F, con domicilio eletto presso M Paola Giorgi in Roma, Via dei Gracchi, 128;

per la riforma

quanto al ricorso n. 9526 del 2014:

della sentenza del T.a.r. dell’ Emilia-Romagna – Sede di Bologna- Sezione I n. 00944/2014, resa tra le parti, concernente ottemperanza alla sentenza del T dell’ Emilia Romagna sez. I Bologna - n. 2160 del 27 ottobre 2003 risarcimento danni per mancata restituzione del bene espropriato

quanto al ricorso n. 9524 del 2014:

della sentenza del T.a.r. dell’Emilia-Romagna –Sede di Bologna - Sezione I n. 00945/2014, resa tra le parti, concernente risarcimento danni per mancata restituzione del bene espropriato


Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Cattolica e di Comune di Cattolica;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 8 ottobre 2015 il Consigliere Fabio Taormina e uditi per le parti gli Avvocati Mantero e Giorgi, per delega di Flamigni Mantero e Giorgi, per delega di Flamigni;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Ricorso n. 9524/2014 avverso la sentenza n. 945/2014 del Tribunale amministrativo regionale della Emilia Romagna – Sede di Bologna –.;


Con la sentenza in epigrafe impugnata n. 945/2014 il Tribunale amministrativo regionale della Emilia Romagna – Sede di Bologna – ha dichiarato inammissibile il ricorso di primo grado (n. 137 del 2004) proposto dalla dante causa della odierna parte appellante, volto ad ottenere l’annullamento della determinazione dirigenziale n. 664 del 17 novembre 2003, con cui il Dirigente del Servizio “Espropri” del Comune di Cattolica aveva disposto l’acquisizione, ai sensi dell’art. 43, comma 4, del d.P.R. n. 327 del 2001, di un’area di proprietà della parte originaria ricorrente e dell’atto di determinazione dell’importo risarcitorio, (ad essa comunicato con nota prot. n. 10421 del 14 novembre 2003).

In punto di fatto, era accaduto che con sentenza n. 2160 del 27 ottobre 2003, a séguito dell’accertata indebita occupazione di un’area di proprietà della parte originaria ricorrente da parte del Comune di Cattolica per la realizzazione di un’opera pubblica, il T aveva condannato l’Amministrazione comunale al risarcimento del danno in favore dei proprietari del terreno con esclusione della restituzione del bene, in applicazione dell’art. 43, co. 3 e 4, del d.P.R. n. 327 del 2001.

Detta sentenza n. 2160 del 27 ottobre 2003 era stata resa pronunciandosi su un ricorso in ottemperanza promosso dalla parte originaria ricorrente per ottenere la conformazione al giudicato formatosi sulle decisioni TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. I, 10.12.1997, n. 806 e Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 95/1999.

Con le dette sentenze cognitorie, infatti, erano stati annullati gli atti della procedura di esproprio di una porzione del giardino della azienda alberghiera di proprietà posti in essere dal comune di Cattolica per la realizzazione di una strada.

Conformandosi alla detta sentenza di ottemperanza n. 2160 del 27 ottobre 2003, il Comune di Cattolica aveva disposto la formale acquisizione dell’area al patrimonio comunale con quantificazione del risarcimento del danno in € 7.014,60 (v. determinazione n. 664 del 17 novembre 2003, a firma del Dirigente del Servizio “Espropri”).

La odierna parte appellante era insorta, censurando tale provvedimento reso ai sensi dell’art. 43, co. 3 e 4, del d.P.R. n. 327 del 2001 nonché il pregresso atto di fissazione dell’importo della somma loro attribuita (comunicato con nota prot. n. 10421 del 14 novembre 2003), proponendo un ricorso formalmente ascritto al rito ordinario.

Ivi si era lamentato che sulla sorte dell’area illegittimamente occupata si fosse pronunciato il giudice amministrativo (appunto con la sentenza n. 2160 del 27 ottobre 2003) nonostante la questione fosse di pertinenza del giudice ordinario perché relativa a domanda restitutoria anteriore al 1° luglio 1998;
che, in ogni caso, si sarebbe dovuto tenere conto della pregressa pronuncia cautelare possessoria del Tribunale di Rimini, con conseguente necessario rigetto o declaratoria di inammissibilità delle domande riconvenzionali a suo tempo (nel processo sfociato nella sentenza n. 2160 del 27 ottobre 2003) formulate dall’Amministrazione comunale ma erroneamente accolte dal TAR di Bologna;
l’omessa considerazione che le suddette domande riconvenzionali avrebbero dovuto essere dichiarate inammissibili anche perché non proposte nella forma del ricorso incidentale;
l’allora avvenuta concessione dell’errore scusabile quanto alla mancata notificazione delle domande riconvenzionali dell’Amministrazione comunale;
censurano, poi, sotto molteplici profili la valutazione operata dal TAR di Bologna ai fini dell’esclusione della restituzione del bene ai proprietari, ai sensi dall’art. 43, comma 3, del d.P.R. n. 327 del 2001 ( di cui era stata dedotta l’illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 42, comma 3, Cost. e con l’art. 97 Cost.).

Esse, inoltre avevano censurato la decisione del TAR di Bologna di escludere la restituzione del bene senza provvedere al contempo alla determinazione del quantum del risarcimento del danno;, l’illegittimità dei criteri di determinazione dell’importo risarcitorio quali fissati dalla precedente sentenza del TAR di Bologna, per non essersi tenuto conto del pregiudizio prodottosi a carico della porzione residua del bene non espropriata e per non essersi neppure preso in considerazione il danno morale sofferto dai proprietari.

Inoltre, si era criticata l’Amministrazione comunale per avere dato séguito alla decisione del TAR di Bologna adottando atti non preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento ed emessi dal Dirigente del Servizio “Espropri” anziché dal competente Consiglio comunale;
e si contestaval’irrisorietà della somma loro riconosciuta a titolo risarcitorio, sollecitandone la rideterminazione in sede giudiziale.

Il T, riepilogati i termini del pregresso contenzioso, ha rammentato che con la sentenza n. 2160 del 27 ottobre 2003 il T aveva escluso la restituzione del bene ai proprietari con riconoscimento agli stessi del solo risarcimento del danno, cosicché l’Amministrazione avrebbe dovuto provvedere alla quantificazione del ristoro patrimoniale secondo i criteri indicati nella pronuncia e quindi all’emissione dell’atto di acquisizione del bene.

In pratica, trattavasi di sentenza dettagliata, e la successiva attività adeguatrice del comune era priva di autonomia.

Ne discendeva che ogni eventuale questione circa le successive determinazioni del Comune di Cattolica avrebbe dovuto necessariamente rientrare nella sfera di cognizione del giudice dell’ottemperanza.

Erroneamente, quindi, il giudizio era stato azionato avvalendosi del rito ordinario (anziché del rito dell’ottemperanza di cui all’art. 27, comma 1, n. 4), del r.d. n. 1054 del 1924, azionabile anche per l’esecuzione delle sentenze del giudice di primo grado non sospese dal giudice d’appello, in quanto al momento della proposizione del mezzo sulla detta decisione del 2003 non era ancora calato il giudicato: l’integrale conferma delle statuizioni della pronuncia era infatti sopravvenuta: Cons. Stato, Sez. IV, 8 giugno 2009 n. 3509).

Tale rilievo, peraltro, non poteva arrecare danno a parte odierna appellante, in quanto quest’ultima, cautelativamente, aveva con distinto ricorso (n. 136/2004) – chiamato alla medesima udienza –proposto le medesime questioni in sede di giudizio di ottemperanza.

Poteva quindi prescindersi, ad avviso del T, dall’accertamento dei presupposti per la conversione dell’azione ex art. 32, comma 2, cod.proc.amm., dichiarare l’inammissibilità del ricorso cognitorio, e scrutinare la questione nell’ambito del distinto ricorso n. 136/2004 di ottemperanza.

Il mezzo, è stato pertanto dichiarato inammissibile

La originaria parte ricorrente, rimasta soccombente, ha impugnato la detta decisione criticandola sotto ogni angolo prospettico.

Ha ripercorso il risalente contenzioso procedimentale e giurisdizionale ed ha fatto presente che essa aveva gravato le determinazioni comunali con due ricorsi: l’uno “ordinario” (RG n. 137 del 2004) che diede luogo alla sentenza del T n. 945/2014 e l’altro ( RG n. 136/2014) di ottemperanza che diede luogo alla sentenza del T n. 00944/2014.

Con il primo motivo di censura ha sostenuto la tesi per cui il T aveva errato a non riunire detti ricorsi ( quello “ordinario” RG n. 137 del 2004 e l’altro RG n. 136/2014 di ottemperanza), che pure erano stati chiamati in decisione alla stessa udienza (e le sentenze di primo grado pubblicate lo stesso giorno).

Era stato obliato l’insegnamento di cui all’Adunanza Plenaria n. 2/2013.

Dalla errata duplicazione di cause (la vicenda era la stessa, i motivi di censura identici, le motivazioni delle sentenze uguali) ne era discesa una illegittima duplicazione della condanna alle spese.

Con la seconda censura ha sostenuto che alla duplice impugnazione da essa presentata corrispondesse il dovere per il T di esaminare la vicenda utilizzando il rito ordinario (piuttosto che quello di ottemperanza prescelto).

La determinazione del quantum risarcitorio, ad opera del comune, non era attività vincolata, ma “libera”: doveva essere gravata non in ottemperanza ma con il rito ordinario.

Sebbene la sentenza n. 945/2014 fosse in rito, l’appellante ha poi riproposto i motivi nn. 8.1, 8.2, ed 8.3. del mezzo di primo grado ( che pure erano stati espressamente decisi dal T nell’ambito del ricorso RG n. 136/2014 di ottemperanza che diede luogo alla sentenza del T n. 00944/2014, e del pari gravata da parte appellante) e la questione della sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 del dPR n. 327/2001.

Ad avviso di parte appellante, la sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 del dPR n. 327/2001 (Corte Costituzionale 08/10/2010 n. 293)

implicava la automatica caducazione della determinazione dirigenziale n. 664 del 17 novembre 2003, con cui il Dirigente del Servizio “Espropri” del Comune di Cattolica aveva disposto l’acquisizione, ai sensi dell’art. 43, comma 4, del d.P.R. n. 327 del 2001, di un’area di proprietà della parte originaria ricorrente e dell’atto di determinazione dell’importo risarcitorio, (ad essa comunicato con nota prot. n. 10421 del 14 novembre 2003).

Esse infatti, contrariamente a quanto sostenuto dal T, non erano atti esecutivi da ascriversi all’alveo della ottemperanza alla sentenza T 2601/2003, ma determinazioni amministrative, puntualmente gravate: l’impugnazione era pendente quando la Corte Costituzionale (sentenza 8 ottobre 2010 n. 293) aveva espunto l’art. 43 del TU Espropriazioni dal sistema.

Detta sentenza spiegava effetto caducante.

I provvedimenti gravati dovevano essere annullati;
e la questione rimessa all’amministrazione comunale perché procedesse ex art. 42 bis del TU Espropriazione.

In via subordinata, comunque, anche a non volere ritenere applicabile alla fattispecie art. 42 bis del TU Espropriazione, il T avrebbe dovuto annullare i gravati provvedimenti comunali, per illegittimità “proprie”.

Ciò in quanto:

a)era fondata la censura (8.1. del mezzo di primo grado) incentrata sulla violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990: i provvedimenti comunali non erano integralmente vincolati, in quanto dovevano quantificare l’importo risarcitorio;
non operava l’art. 21 octies della legge 241/1990;

b) era fondata la censura (8.2. del mezzo di primo grado) con la quale si era stigmatizzata la incompetenza del Dirigente dell’Ufficio Espropri che aveva annullato l’atto.

Il T aveva ritenuto che trattandosi di atto “di ottemperanza” potesse essere emesso da un organo incompetente.

Ciò era errato, dogmaticamente, ma anche in fatto, posto che non trattavasi di procedimento interamente vincolato(quantomeno nel quantum);

c) era fondata la censura (8.3. del mezzo di primo grado) con la quale si contestava la irrisorietà della somma offerta, e la circostanza che essa non prendesse in esame altre “voci” risarcitorie.

Sarebbe spettato al Giudice determinare l’importo risarcitorio dovuto.

In ultimo, era errata e spropositata, la condanna alle spese inflitta a parte odierna appellante.

Il comune di Cattolica si è costituito in data 19 maggio 2015 depositando memoria di stile e chiedendo la reiezione del ricorso perché inammissibile od infondato;
con memoria depositata il 5 settembre 2015.

Ha ripercorso la risalente vicenda giudiziaria, ed ha fatto presente che la determinazione dirigenziale comunale n. 644/2003 resa il 17.11.2003 ex art. 43 del TU Espropriazione, e la precedente determinazione (14.11.2003) di determinazione dell’importo risarcitorio erano state gravate innanzi al T con due distinti mezzi (l’uno ordinario di legittimità, n. 137/2004 e l’altro di ottemperanza n. 136/2004).

Il ricorso ordinario era stato deciso con la sentenza n. 945/2014, e l’appello era infondato.

Il primo motivo (omessa riunione in primo grado) impingeva nel potere latamente discrezionale del giudice;
le cause proposte non erano diverse, ma identiche: il petitum era unicamente quello risarcitori o, per cui neppure poteva dirsi vi fosse alcun rapporto di pregiudizialità.

La questione della scelta del rito, poi,non era affatto complessa: la sentenza T n. 2160/2003 aveva condannato il Comune a provvedere all’attività di quantificazione del ristoro patrimoniale;
la gravata successiva attività comunale era ottemperativa del giudicato, per cui era evidente che la vicenda dovesse essere decisa seguendo il rito della ottemperanza.

Anche il motivo sulle spese era palesemente infondato.

Alla odierna pubblica udienza dell’8 ottobre 2015 la causa è stata trattenuta dal Collegio.


Ricorso n. 9256/2014 avverso la sentenza n. 944/2014 del Tribunale amministrativo regionale della Emilia Romagna – Sede di Bologna –.;


Con la sentenza in epigrafe impugnata il Tribunale amministrativo regionale della Emilia Romagna – Sede di Bologna – ha in parte respinto ed in parte dichiarato inammissibile il ricorso in ottemperanza (n. 136 del 2004)proposto dalla dante causa della odierna parte appellante, volto ad ottenere l’ottemperanza alla sentenza n. 2160 del 27 ottobre 2003 e, conseguentemente, l’annullamento della determinazione dirigenziale n. 664 del 17 novembre 2003, con cui il Dirigente del Servizio “Espropri” del Comune di Cattolica aveva disposto l’acquisizione, ai sensi dell’art. 43, comma 4, del d.P.R. n. 327 del 2001, di un’area di proprietà della parte originaria ricorrente e dell’atto di determinazione dell’importo risarcitorio, (ad essa comunicato con nota prot. n. 10421 del 14 novembre 2003).

In punto di fatto, era accaduto che con sentenza n. 2160 del 27 ottobre 2003, a séguito dell’accertata indebita occupazione di un’area di proprietà della parte originaria ricorrente da parte del Comune di Cattolica per la realizzazione di un’opera pubblica, il T aveva condannato l’Amministrazione comunale al risarcimento del danno in favore dei proprietari del terreno con esclusione della restituzione del bene, in applicazione dell’art. 43, co. 3 e 4, del d.P.R. n. 327 del 2001.

Detta sentenza n. 2160 del 27 ottobre 2003 (integralmente confermata da Cons. Stato, Sez. IV, 8 giugno 2009 n. 3509) era stata resa pronunciandosi su un ricorso in ottemperanza promosso dalla parte originaria ricorrente per ottenere la conformazione al giudicato formatosi sulle decisioni TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. I, 10.12.1997, n. 806 e Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 95/1999. Con le dette sentenze cognitorie, infatti, erano stati annullati gli atti della procedura di esproprio di una porzione del giardino della azienda alberghiera di proprietà posti in essere dal comune di Cattolica per la realizzazione di una strada.

Conformandosi alla detta sentenza di ottemperanza n. 2160 del 27 ottobre 2003, il Comune di Cattolica aveva disposto la formale acquisizione dell’area al patrimonio comunale con quantificazione del risarcimento del danno in € 7.014,60 (v. determinazione n. 664 del 17 novembre 2003, a firma del Dirigente del Servizio “Espropri”).

La odierna parte appellante era insorta, censurando tale provvedimento reso ai sensi dell’art. 43, co. 3 e 4, del d.P.R. n. 327 del 2001 nonché il pregresso atto di fissazione dell’importo della somma loro attribuita (comunicato con nota prot. n. 10421 del 14 novembre 2003), proponendo un ricorso formalmente ascritto al rito ordinario.

Ivi si era lamentato che sulla sorte dell’area illegittimamente occupata si fosse pronunciato il giudice amministrativo (appunto con la sentenza n. 2160 del 27 ottobre 2003) nonostante la questione fosse di pertinenza del giudice ordinario perché relativa a domanda restitutoria anteriore al 1° luglio 1998;
che, in ogni caso, si sarebbe dovuto tenere conto della pregressa pronuncia cautelare possessoria del Tribunale di Rimini, con conseguente necessario rigetto o declaratoria di inammissibilità delle domande riconvenzionali a suo tempo (nel processo sfociato nella sentenza n. 2160 del 27 ottobre 2003) formulate dall’Amministrazione comunale ma erroneamente accolte dal TAR di Bologna;
l’omessa considerazione che le suddette domande riconvenzionali avrebbero dovuto essere dichiarate inammissibili anche perché non proposte nella forma del ricorso incidentale;
l’allora avvenuta concessione dell’errore scusabile quanto alla mancata notificazione delle domande riconvenzionali dell’Amministrazione comunale;
censurano, poi, sotto molteplici profili la valutazione operata dal TAR di Bologna ai fini dell’esclusione della restituzione del bene ai proprietari, ai sensi dall’art. 43, comma 3, del d.P.R. n. 327 del 2001 ( di cui era stata dedotta l’illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 42, comma 3, Cost. e con l’art. 97 Cost.).

Esse, inoltre avevano censurato la decisione del TAR di Bologna di escludere la restituzione del bene senza provvedere al contempo alla determinazione del quantum del risarcimento del danno;, l’illegittimità dei criteri di determinazione dell’importo risarcitorio quali fissati dalla precedente sentenza del TAR di Bologna, per non essersi tenuto conto del pregiudizio prodottosi a carico della porzione residua del bene non espropriata e per non essersi neppure preso in considerazione il danno morale sofferto dai proprietari.

Inoltre, si era criticata l’Amministrazione comunale per avere dato séguito alla decisione del TAR di Bologna adottando atti non preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento ed emessi dal Dirigente del Servizio “Espropri” anziché dal competente Consiglio comunale;
e si contestaval’irrisorietà della somma loro riconosciuta a titolo risarcitorio, sollecitandone la rideterminazione in sede giudiziale.

Il T, riepilogati i termini del pregresso contenzioso, ha rammentato che con la sentenza n. 2160 del 27 ottobre 2003 il T aveva escluso la restituzione del bene ai proprietari con riconoscimento agli stessi del solo risarcimento del danno, cosicché l’Amministrazione avrebbe dovuto provvedere alla quantificazione del ristoro patrimoniale secondo i criteri indicati nella pronuncia e quindi all’emissione dell’atto di acquisizione del bene.

In pratica, tratta vasi di sentenza dettagliata, e la successiva attività adeguatrice del comune era priva di autonomia.

Ne discendeva che ogni eventuale questione circa le successive determinazioni del correttamente era stata fatta rientrare nella sfera di cognizione del giudice dell’ottemperanza.

Ha poi dato atto della circostanza “nuova” rappresentata dalla sopraggiunta dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001 (v. Corte cost. 8 ottobre 2010 n. 293).

Parte odierna appellante, infatti, sulla scorta della pronuncia del Giudice delle leggi aveva invocato l’accertamento giudiziale della caducazione degli atti oggetto della controversia, in quanto emessi sulla base di una norma di legge oramai espunta dall’ordinamento e suscettibili di risentire degli effetti della pronuncia del giudice di costituzionalità per essere in quel momento gli stessi oggetto di una lite giudiziaria pendente.

In contrario senso, il T ha osservato che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma rilevava anche nei processi in corso ma non poteva incidere sugli effetti irreversibili già prodottisi in ragione della preclusione nascente dalla formazione del giudicato.

Posto che la sentenza n. 2160 del 27 ottobre 2003 era già passata in giudicato (essa era stata integralmente confermata da Cons. Stato, Sez. IV, 8 giugno 2009 n. 3509) al momento della pronuncia della Corte Costituzionale 8 ottobre 2010 n. 293, era ormai incontestabile la decisione recante la declaratoria di insussistenza del diritto del privato alla restituzione del bene e di riconoscimento al privato stesso del solo diritto di credito di natura risarcitoria, ancorché in pendenza della lite per la stima del quantum spettante al privato.

Il T, ha dato atto che la vicenda processuale presentava una specificità: l’atto formale di acquisizione del bene aveva seguito ( e non preceduto) la decisione poi passata in giudicato ed era stato a sua volta fatto oggetto di un ricorso ancora pendente al momento della pronuncia della Corte costituzionale.

Tuttavia, ad avviso del T, nella peculiare fattispecie dell’art. 43, comma 4, del d.P.R. n. 327 del 2001 l’atto di acquisizione rinveniva il proprio autonomo titolo giuridico nella decisione del giudice amministrativo ( di cui costituiva mera “appendice” pur con gli effetti costitutivi del diritto di proprietà sul bene;).

La irreversibile definizione nel giudicato avente ad oggetto l’esclusione della restituzione del bene al privato, resisteva quindi alla sopraggiunta dichiarazione di incostituzionalità della norma ivi applicata.

Così risolta tale preliminare problematica, il T ha rilevato che con una prima serie di censure si era tentato di rimettere in discussione le statuizioni della sentenza n. 2160 del 27 ottobre 2003 (per la giurisdizione del giudice ordinario in materia, per il vincolo derivante dalla pregressa pronuncia cautelare possessoria del Tribunale di Rimini, per l’inammissibilità delle domande riconvenzionali dell’Amministrazione comunale, per l’errata decisione di escludere la restituzione del bene ai proprietari, per la mancata quantificazione dell’importo del risarcimento del danno, per gli inesatti criteri di determinazione del quantum del risarcimento).

Di tale petitum ha dichiarato l’inammissibilità in quanto coperto del giudicato formatosi.

Ha quindi delibato nel merito unicamente le restanti doglianze (quelle, cioè, che investivano le nuove determinazioni dell’Amministrazione comunale in quanto asseritamente affette da “vizi propri”).

Di esse, ha escluso la fondatezza, in quanto:

la denunciata carenza della comunicazione di avvio del procedimento, non viziava alcunché, posto che tale avviso era superfluo tutte le volte in cui l’interessato fosse comunque venuto a conoscenza dell’inizio dell’attività amministrativa che lo riguardava: trattandosi nella circostanza di determinazioni che si presentavano come atti dovuti a séguito del decisum del giudice amministrativo, i proprietari dell’area oggetto della controversia erano da considerarsi ben consapevoli delle conseguenze di quella pronuncia e quindi in grado di presentare proprie osservazioni e deduzioni all’Amministrazione in vista dell’adozione degli atti conclusivi del procedimento.

Anche la denunciata incompetenza del Dirigente del Servizio “Espropri” relativamente all’adozione degli atti ascrivibili alla materia delle acquisizioni patrimoniali (ivi si sosteneva che essa sarebbe rientrata tra le attribuzioni del Consiglio comunale) era irrilevante sotto l’assorbente profilo che si trattava di atto “vincolato” in ottemperanza alla pronuncia giudiziale del 2003 resa dal T.

Il denunciato vizio di incompetenza era quindi irrilevante ex art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990.

Infine, sono state prese in esame le censure tese a dedurre l’irrisorietà della somma di denaro riconosciuta a titolo risarcitorio (€ 7.014,60), e quelle volte a sostenere la necessità di tenere conto non solo del valore del compendio immobiliare acquisito dall’ente locale ma anche del danno arrecato alla porzione residua del bene non espropriata e del danno morale sofferto dai proprietari per effetto dell’illecito oltre che di tutti i danni subiti dall’attigua azienda alberghiera.

Quanto alla lamentata esiguità delle somme, la censura era ad avviso del T generica (non era stato allegato alcun elemento utile a dimostrare l’eventuale erroneità della stima operata);
quanto alle doglianze tese ad estendere il perimetro del danno risarcibile, esse erano inammissibili in quanto i parametri di determinazione del ristoro patrimoniale erano stati integralmente definiti dalla pronuncia cognitoria regiudicata.

Conclusivamente, il mezzo è stato in parte respinto, ed in parte dichiarato inammissibile.

La originaria parte ricorrente, rimasta soccombente, ha impugnato la detta decisione criticandola sotto ogni angolo prospettico.

Ha ripercorso il risalente contenzioso procedimentale e giurisdizionale ed ha fatto presente che essa aveva gravato le determinazioni comunali con due ricorsi: l’uno “ordinario” (RG n. 137 del 2004) che diede luogo alla sentenza del T n. 945/2014 e l’altro ( RG n. 136/2014) di ottemperanza che diede luogo alla sentenza del T n. 00944/2014.

Con il primo motivo di censura ha sostenuto la tesi per cui il T aveva errato a non riunire detti ricorsi ( quello “ordinario” RG n. 137 del 2004 e l’altro RG n. 136/2014 di ottemperanza), che pure erano stati chiamati in decisione alla stessa udienza (e le sentenze di primo grado pubblicate lo stesso giorno).

Era stato obliato l’insegnamento di cui all’Adunanza Plenaria n. 2/2013.

Dalla errata duplicazione di cause (la vicenda era la stessa, i motivi di censura identici, le motivazioni delle sentenze uguali) ne era discesa una illegittima duplicazione della condanna alle spese.

Con la seconda censura ha sostenuto che alla duplice impugnazione da essa presentata corrispondesse il dovere per il T di esaminare la vicenda utilizzando il rito ordinario (piuttosto che quello di ottemperanza prescelto).

La determinazione del quantum risarcitorio, ad opera del comune, non era attività vincolata, ma “libera”: doveva essere gravata non in ottemperanza ma con il rito ordinario.

L’appellante ha poi riproposto i motivi nn. 8.1, 8.2, ed 8.3. del mezzo di primo grado ( che pure erano stati espressamente decisi dal T nell’ambito del ricorso RG n. 136/2014 di ottemperanza che diede luogo alla sentenza del T n. 00944/2014, e del pari gravata da parte appellante) e la questione della sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 del dPR n. 327/2001.

Ad avviso di parte appellante, la sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 del dPR n. 327/2001 implicava la automatica caducazione della determinazione dirigenziale n. 664 del 17 novembre 2003, con cui il Dirigente del Servizio “Espropri” del Comune di Cattolica aveva disposto l’acquisizione, ai sensi dell’art. 43, comma 4, del d.P.R. n. 327 del 2001, di un’area di proprietà della parte originaria ricorrente e dell’atto di determinazione dell’importo risarcitorio, (ad essa comunicato con nota prot. n. 10421 del 14 novembre 2003).

Esse infatti, contrariamente a quanto sostenuto dal T, non erano atti esecutivi da ascriversi all’alveo della ottemperanza alla sentenza T 2601/2003, ma determinazioni amministrative, puntualmente gravate: l’impugnazione era pendente quando la Corte Costituzionale (sentenza 8 ottobre 2010 n. 293) aveva espunto l’art. 43 del TU Espropriazioni dal sistema.

Detta sentenza spiegava effetto caducante.

I provvedimenti gravati dovevano essere annullati;
e la questione rimessa all’amministrazione comunale perché procedesse ex art. 42 bis del TU Espropriazione.

In via subordinata, comunque, anche a non volere ritenere applicabile alla fattispecie art. 42 bis del TU Espropriazione, il T avrebbe dovuto annullare i gravati provvedimenti comunali, per illegittimità “proprie”.

Ciò in quanto:

a)era fondata la censura (punto 8.1. del mezzo di primo grado) incentrata sulla violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990: i provvedimenti comunali non erano integralmente vincolati, in quanto dovevano quantificare l’importo risarcitorio;
non operava l’art. 21 octies della legge 241/1990;

b) era fondata la censura (punto 8.2. del mezzo di primo grado) con la quale si era stigmatizzata la incompetenza del Dirigente dell’Ufficio Espropri che aveva annullato l’atto.

Il T aveva ritenuto che trattandosi di atto “di ottemperanza” potesse essere emesso da un organo incompetente.

Ciò era errato, dogmaticamente, ma anche in fatto, posto che non tratta vasi di procedimento interamente vincolato(quantomeno nel quantum);

c) era fondata la censura (punto 8.3. del mezzo di primo grado) con la quale si contestava la irrisorietà della somma offerta, e la circostanza che essa non prendesse in esame altre “voci” risarcitorie.

Sarebbe spettato al Giudice determinare l’importo risarcitorio dovuto.

In ultimo, era errata e spropositata, la condanna alle spese inflitta a parte odierna appellante.

Il comune di Cattolica si è costituito in data 19 maggio 2015 depositando memoria di stile e chiedendo la reiezione del ricorso perché inammissibile od infondato.

Alla pubblica udienza dell’ 8 ottobre 2015 la causa è stata trattenuta in decisione dal Collegio

DIRITTO


1. Gli appelli suindicati vanno riuniti e trattati alla odierna udienza pubblica per la palese connessione oggettiva e soggettiva: è appena il caso di precisare, poi, che la riunione non può essere impedita dalla circostanza che trattasi di appelli che seguono un rito diverso in quanto vanno scrutinati con il rito della pubblica udienza, laddove è maggiormente garantita il dispiegarsi del contraddittorio tra le parti processuali .

2.Essi sono infondati, e vanno disattesi.

3. Premesso che nessuna parte processuale ha contestato la spettanza della Giurisdizione al plesso Amministrativo, e che essa certamente sussiste ex art. 133 del cpa, il Collegio è convinto che soltanto una modesta porzione delle censure contenute nei riuniti appelli sia supportata da un concreto ed attuale interesse e/o sia comunque ammissibile.

Si procederà pertanto alla disamina delle stesse, scrutinandole anche nel merito, ma si anticipa che –ad avviso del Collegio - un reale interesse di parte appellante può essere individuato unicamente nella parte in cui pretenderebbe che il “regime” di convalida della espropriazione del proprio fondo sia quello scolpito sub art. 42 bis del TU Espropriazione e nella parte in cui avversa la condanna alle spese.

4. Muovendo in ordine logico dalle doglianze di natura processuale, si evidenzia che:

a) quanto al primo ed al secondo motivo di censura (laddove è stata sostenuta la tesi per cui il T aveva errato a non riunire i due ricorsi - quello “ordinario” RG n. 137 del 2004 e l’altro RG n. 136/2014 di ottemperanza- proposti, così obliandosi l’insegnamento di cui all’Adunanza Plenaria n. 2/2013) le doglianze sono platealmente infondate, ma anche inammissibili.

Ciò in quanto:

a1)il potere di riunione rientra tra le discrezionali ed insindacabili potestà discrezionali del Giudicante (salvo il barrage, qui non ravvisabile, della illogicità/arbitrarietà);

a2)a monte, il T ha vagliato per intero la vicenda processuale e scrutinato funditus tutte le –identiche, peraltro- censure proposte, per cui non v’è alcun interesse a dolersi della scelta di non esaminare congiuntamente i due mezzi.

Secondo l’insegnamento dell’Ad. Plen. n. 2/2013, poi, una ed una sola è l’azione esperibile, per cui anche se fossero state esaminate congiuntamente, una delle due azioni sarebbe stata dichiarata inammissibile/improcedibile.

4.1. Parte appellante è poi convinta che il “rito” corretto da seguire fosse quello cognitorio, e non quello relativo all’azione di ottemperanza.

La censura va scissa sotto due angoli prospettici, l’uno di natura processuale, e l’altra sostanziale.

Si osserva immediatamente che la “posizione “ di parte appellante è eccentrica rispetto a quella sostenuta nella stragrande maggioranza delle cause simili: di regola chi ricorre auspica che si applichi il più snello rito dell’ottemperanza, nell’ambito del quale, peraltro, il Giudice –esercitando congiuntamente giurisdizione “di merito” - possiede un più ampio ventaglio di poteri (accertativi, dichiarativi, sostitutivi).

Tale apparente eccentricità della pretesa, si spiega (come meglio si chiarirà di seguito) perché essa è coerente con la tesi “di merito”, in forza della quale la sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art. 43 del TU Espropriazione si applicherebbe al provvedimento comunale, travolgendolo, in quanto provvedimento discrezionale non riconducibile all’alveo della ottemperanza alla sentenza del T n. . 2160 del 27 ottobre 2003 .

Senonchè, a questo punto, il Collegio – che pure è convinto della erroneità sostanziale della tesi di parte appellante, come meglio chiarirà di qui a poco - non può che osservare che il petitum sollevato in tale secondo motivo, è infondato in fatto ma è anche non supportato da un diretto interesse “processuale” posto che la circostanza che sia stato esaminato il ricorso di ottemperanza in nulla ha pregiudicato parte appellante.

Tale opzione seguita dal T, in se e per se considerata, non ha arrecato alcun danno agli interessi di parte appellante (si ribadisce che i due ricorsi, di cognizione e di ottemperanza,erano identici: ne furono proposti due in base ad una valutazione “prudenziale” diffusa ante Ad. Plen. 2/2013 e tesa ad evitare che, prescelta una sola azione, venisse dichiarata la erroneità della scelta e scattassero le preclusioni processuali temporali per la proposizione dell’azione corretta).

Ciò perché tutte le doglianze proposte nei –peraltro identici- ricorsi furono scrutinate dal T: il “danno” subito da parte appellante non riposa nella statuizione processuale riposante nella individuazione del “rito” da applicare, ma nel convincimento di natura sostanziale ad esso sotteso e coerente con detta opzione: le censure afferenti detto profilo esso verranno scrutinate di seguito.

Deve però convintamente ribadirsi che parte appellante né ha interesse a sollevare le dette censure processuali, né da esse –isolatamente considerate- ha ricavato alcun danno né, infine, esse sono fondate in fatto (il tema verrà completato, quanto a tale ultimo aspetto, di qui a poco).

4.2.Quanto alle censure che postulano un “allargamento” del perimetro dei danni risarcibili (ad es. danno morale, danno da “sconfigurazione” del fondo residuo, etc) rispetto a quelli individuati sub sentenza (regiudicata) n. 2160 del 27 ottobre 2003 e sub sentenze cognitorie TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. I, 10.12.1997, n. 806 e Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 95/1999, ne è evidente la improponibilità/inammissibilità.

Ove l’appellante avesse voluto avanzare un petitum più ampio, avrebbe dovuto farlo nel processo cognitorio (sfociato nelle sentenze TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. I, 10.12.1997, n. 806 e Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 95/1999);
essa ciò non propose, invece, né in sede cognitoria né in seno al ricorso di ottemperanza culminato nella sentenza (regiudicata) n. 2160 del 27 ottobre 2003.

Tutte le questioni ivi risolte sono coperte dal giudicato.

Giova precisare infatti che: con la sentenza n. 2160 del 27 ottobre2003 venne stabilito quanto segue (si riporta un breve stralcio della motivazione della decisione) : “ 5.3. Invero, ai sensi del più volte citato art. 43, comma 3 T.U. n. 327 occorre, in conseguenza del predetto accoglimento, disporre, contestualmente all’esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo, la condanna del Comune di Cattolica al risarcimento del danno economico subìto dai ricorrenti per effetto della condotta non iure del Comune medesimo, danno da determinarsi secondo i parametri indicati dal successivo comma 6 dello stesso art. 43, vale a dire:

- corresponsione dell’integrale controvalore del bene perduto dai ricorrenti, che si ricava dalla applicazione ad esso dei prezzi di mercato, rapportati alla sua ubicazione e funzione di complemento e valorizzazione di una struttura alberghiera, correnti al momento del fatto illecito (id est: giorno dell’occupazione sine titulo, che la deliberazione consiliare n. 43/2003 indica come avvenuta il 26.5.1997);
cui va aggiunta la rivalutazione monetaria, sulla somma così risultante, sino alla data dell’effettiva liquidazione;

- corresponsione degli interessi moratori, da computarsi con decorrenza dalla medesima data di cui sopra e tuttavia calcolati sul solo capitale, alla predetta data determinato e non rivalutato (con consequenziale esclusione, così, di qualsiasi ulteriore rivalutazione della somma dovuta quale rivalutazione;
nonché di ulteriore computo di interessi e rivalutazione sulla somma dovuta a titolo di interessi).

5.4. Successivamente alla quantificazione di cui sopra, il Comune dovrà provvedere al materiale pagamento della relativa somma e, quindi, potrà assumere l’atto di acquisizione di cui al quarto comma dell’art. 43.”

Nella sentenza del Consiglio di Stato, N.3509/2009,confermativa di quella di ottemperanza suindicata, fu statuito che “inammissibile per la sua novità e soprattutto per la estrema genericità è il motivo mediante il quale le appellanti lamentano il mancato risarcimento del danno morale patito dal loro dante causa e originario proprietario in connessione con la viziata vicenda ablatoria.”.

Inoltre, ivi venne rilevato che “inammissibili sono infine i motivi aggiunti, mediante i quali tuzioristicamente si contesta in sede d’appello la quantificazione dell’importo risarcitorio operata dal comune e la legittimità della successiva attività amministrativa posta in essere dall’ente locale: le relative questioni vanno infatti esaminate dal Giudice di primo grado, già peraltro adito dalle ricorrenti sia con ricorso di cognizione che con ricorso in ottemperanza.”.

Dall’andamento del giudizio cognitorio, siccome finora succintamente rappresentato, non può che discendere che tutte le censure volte ad “allargare” il perimetro dei danni risarcibili sono inammissibili: la loro fondatezza è stata esclusa in sede di ottemperanza.

4.3. Per analoghe ragioni, sono inammissibili le censure volte a criticare la sentenza del T n. 2160 del 27 ottobre 2003 in punto di “qualificazione” delle domande articolate dal Comune (riconvenzionali, etc): esse sono coperte da giudicato.

5. Restano da esaminare: la questione della sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 del dPR n. 327/2001;

la questione della asserita inadeguatezza/irrisorietà della somma offerta in relazione al valore intrinseco del bene, (il Consiglio di Stato, nella sentenza n.3509/2009,confermativa di quella di ottemperanza 216072003 fece presente che le relative questioni dovevano essere “ esaminate dal Giudice di primo grado, già peraltro adito dalle ricorrenti sia con ricorso di cognizione che con ricorso in ottemperanza.”) ferma restando la esclusione dell’ammissibilità dell’ulteriore petitum su danni morali etc, che come chiarito prima è inammissibile;

parimenti dovranno essere scrutinati i motivi di censura in punto di “vizi” propri della determinazione del Comune.

5.1.La censura afferente le pretese conseguenze della sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 del dPR n. 327/2001 (che in tesi avrebbe travolto il provvedimento comunale, in quanto sebbene antecedentemente reso era ancora sub judice) ed i motivi di censura relativi ai supposti “vizi” propri della determinazione del Comune, sono connesse, e postulano la risoluzione di una problematica comune a monte.

5.1.1. Essa può così essere sintetizzata: la determinazione comunale di accedere allo strumento ex art. 43 del TU Espropriazione, integra atto amministrativo “libero”, o costituisce ottemperanza alla regiudicata sentenza n. 2160/2003?

5.2. Come accennato nella parte in fatto, il T ha prescelto la seconda opzione ermeneutica (e coerentemente con tale opzione ne ha fatto discendere le statuizioni processuali prima esaminate) .

Ha poi citato (in punto di conseguenze della sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità della norma “fondante” il potere esercitato dall’amministrazione comunale) il principio per cui la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma rileva anche nei processi in corso ma non incide sugli effetti irreversibili già prodottisi in ragione della preclusione nascente dalla formazione del giudicato.

Ciò in quanto, “l’atto di acquisizione vede il proprio autonomo titolo giuridico nella decisione del giudice amministrativo, di cui costituisce una mera appendice pur con gli effetti costitutivi del diritto di proprietà sul bene;
pertanto, la disciplina del caso concreto trova in simili situazioni la sua conclusiva e irreversibile definizione nel giudicato avente ad oggetto l’esclusione della restituzione del bene al privato, i cui effetti resistono di conseguenza alla sopraggiunta dichiarazione di incostituzionalità della norma ivi applicata.”.


5.3. Parte appellante contesta detto approdo,ma il Collegio non condivide tali critiche.

5.3.1. Ed invero, il T si è correttamente conformato alla giurisprudenza amministrativa costante sul punto.

In particolare, nella decisione citata dalla stesso T, che il Collegio condivide integralmente ( Cons. giust. amm. Reg. Sic. 19 maggio 2011 n. 369) è stata funditus esplorata la questione (la fattispecie ivi scrutinata è, anche sotto il profilo della tempistica, sovrapponibile a quella in esame).

• Ivi è stato affermato che (punti 18 e 19) “18. - Le ultime considerazioni introducono all'esame della domanda di restituzione dell'area, avanzata nuovamente sul presupposto della recente sentenza della Corte costituzionale n. 293/2010.

La domanda è infondata. Ed invero, la citata pronuncia recante la dichiarazione di incostituzionalità del predetto art. 43 del D.P.R. n. 327/2001 è intervenuta in epoca successiva alla formazione del giudicato sulle statuizioni recate dalla decisione non definitiva n. 710 del 2007. Come sopra accennato, in detta sentenza questo Consiglio ha riconosciuto soltanto in linea teorica la sussistenza del diritto della ricorrente alla restituzione del bene, ma in concreto ha poi respinto, facendo salvi unicamente i profili risarcitori, la domanda di annullamento del provvedimento comunale di acquisizione sanante. Si attaglia, pertanto, al caso in esame il consolidato principio (tra i molti precedenti, si veda la pronuncia del Cons. Stato, sez. VI, 6 giugno 2008, n. 2724) secondo il quale la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma rileva anche nei processi in corso, ma non incide sugli effetti irreversibili già prodottisi. Ciò perché la retroattività degli effetti della dichiarazione di incostituzionalità incontra un limite negli effetti che la stessa, ancorché successivamente rimossa dall'ordinamento, abbia irrevocabilmente prodotto qualora resi intangibili dalla preclusione nascente o dall'esaurimento dello specifico rapporto giuridico disciplinato dalla norma espunta dall'ordinamento giuridico oppure dal maturare di prescrizioni e decadenze ovvero, ancora, dalla formazione del giudicato. Quest'ultima è l'ipotesi ricorrente nel caso che occupa il Collegio, giacché gli effetti giuridici, ormai irreversibilmente prodottisi, sono per l'appunto consistiti nella perdita, da parte della ricorrente, di ogni diritto alla restituzione del bene, essendosi formato il giudicato in ordine al riconoscimento in capo alla professoressa Ro. di un diritto di credito di natura risarcitoria, a nulla rilevando che il presente giudizio prosegua per la stima del quantum ad Ella spettante.

19. - Il rigetto della domanda di restituzione travolge anche la successiva istanza di nomina di un commissario ad acta: ed invero, atteso quanto testé chiarito, non dovendosi restituire alcunché alla ricorrente e non dovendosi compiere alcuna attività provvedimentale di natura sostitutiva e con finalità esecutive, residua unicamente il problema della esatta quantificazione del risarcimento dovuto alla professoressa Ro., ma a tali fini il Collegio non ha bisogno di avvalersi di un commissario ad acta, apparendo indispensabile soltanto un accertamento (già in corso) tipicamente riservato alla cognizione giurisdizionale (e, come tale, non delegabile ad un commissario ad acta).”.


5.3.2. Il principio di diritto al quale conformarsi –a parere del Collegio corretto e pienamente condivisibile – è quindi il seguente:” la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma rileva anche nei processi in corso, ma non incide sugli effetti irreversibili già prodottisi. Ciò perché la retroattività degli effetti della dichiarazione di incostituzionalità incontra un limite negli effetti che la stessa, ancorché successivamente rimossa dall'ordinamento, abbia irrevocabilmente prodotto qualora resi intangibili dalla preclusione nascente o dall'esaurimento dello specifico rapporto giuridico disciplinato dalla norma espunta dall'ordinamento giuridico oppure dal maturare di prescrizioni e decadenze ovvero, ancora, dalla formazione del giudicato”


5.3.3. In punto di fatto si rammenta nuovamente che la decisione regiudicata n. 2160/2003, così dispose:

“la domanda del Comune sia meritevole di accoglimento, poiché le medesime prefigurano, nel loro complesso, una obiettiva prevalenza dell’interesse della collettività a proseguire nella fruizione della pubblica strada rispetto alla non particolare rilevanza quantitativa e qualitativa della porzione di proprietà conseguentemente sottratta al privato, il cui sacrificio sarà, peraltro, integralmente ristorato per equivalente.

Invero, ai sensi del più volte citato art. 43, comma 3 T.U. n. 327 occorre, in conseguenza del predetto accoglimento, disporre, contestualmente all’esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo, la condanna del Comune di Cattolica al risarcimento del danno economico subìto dai ricorrenti per effetto della condotta non iure del Comune medesimo, danno da determinarsi secondo i parametri indicati dal successivo comma 6 dello stesso art. 43, vale a dire:

- corresponsione dell’integrale controvalore del bene perduto dai ricorrenti, che si ricava dalla applicazione ad esso dei prezzi di mercato, rapportati alla sua ubicazione e funzione di complemento e valorizzazione di una struttura alberghiera, correnti al momento del fatto illecito (id est: giorno dell’occupazione sine titulo, che la deliberazione consiliare n. 43/2003 indica come avvenuta il 26.5.1997);
cui va aggiunta la rivalutazione monetaria, sulla somma così risultante, sino alla data dell’effettiva liquidazione;

- corresponsione degli interessi moratori, da computarsi con decorrenza dalla medesima data di cui sopra e tuttavia calcolati sul solo capitale, alla predetta data determinato e non rivalutato (con consequenziale esclusione, così, di qualsiasi ulteriore rivalutazione della somma dovuta quale rivalutazione;
nonché di ulteriore computo di interessi e rivalutazione sulla somma dovuta a titolo di interessi).

Successivamente alla quantificazione di cui sopra, il Comune dovrà provvedere al materiale pagamento della relativa somma e, quindi, potrà assumere l’atto di acquisizione di cui al quarto comma dell’art. 43.

Il Collegio intende, infatti, a questo punto precisare, per maggior chiarezza, che l’adozione di tale nuovo atto, successivamente alla pubblicazione della presente sentenza, risulta indispensabile sia perché il comma 2 ed il comma 4 individuano, rispettivamente, tipologie tra loro distinte e non sovrapponibili di provvedimenti acquisitivi;
sia perché, in ogni caso, la più volte menzionata deliberazione n. 43/2003 non integra il paradigma né dell’uno né dell’altro tipo (stante il suo tenore espressamente “prudenziale”, “cautelare”e “subordinato” alla decisione di questo Giudice e la mancanza di pagamento del risarcimento del danno), cosicché i suoi effetti sono destinati a venir meno con la pubblicazione della presente decisione.”.

Ancor più chiaramente, il dispositivo della detta decisione, così statuì:

“ accoglie, altresì, previa concessione del beneficio dell’errore scusabile, la domanda ex art. 43, comma 3 presentata dal Comune di Cattolica e, per l’effetto:

a) esclude la restituzione del bene di proprietà dei ricorrenti, senza limiti di tempo;

b) condanna il Comune di Cattolica a risarcire ai ricorrenti il danno per equivalente, determinato secondo quanto stabilito al precedente punto 5.3.;”.


5.3.4. Risulta chiaro, ad avviso del Collegio, che la restituzione del fondo fu esclusa dalla sentenza regiudicata n. 2160/2003 e che, parimenti, quest’ultima accolse la domanda ex art. 43 del TU Espropriazione, ed impose al Comune di emettere il provvedimento suddetto ex art. 43.

Trattasi quindi di effetti discendenti direttamente dalla sentenza –passata in giudicato- che, quindi, in armonia con il principio prima richiamato, non sono “travolti” dalla sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 del TU Espropriazione.

La circostanza che al momento della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 del TU Espropriazione fosse ancora pendente una impugnazione avverso il decreto adottato dal Comune non esclude che quest’ultimo sia precipitato del giudicato,conseguenza strettamente afferente a quest’ultimo e sia pertanto insensibile alla sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità della norma predetta .

5.3.5. Come avvertito in premessa, potrebbe quindi dubitarsi del permanente interesse in capo a parte appellante a sollevare censure “proprie” avverso quest’ultimo (almeno avuto riguardo a quelle non direttamente riguardanti il quantum risarcitorio): anche ove accolto il ricorso in appello ed annullato il decreto ex art. 43 gravato, il Comune dovrebbe rideterminarsi “seguendo” le prescrizioni regiudicate contenute nella sentenza n. 2160/2003.

Id est: dovrebbe riemettere un nuovo decreto ex art. 43 TUEspropriazione, “depurato” dei vizi formali e sostanziali riscontrati, in ossequio al giudicato formatosi.

5.3.5. Ad ogni buon conto, anche le censure “proprie” sollevate avverso il decreto gravato, non persuadono il Collegio:

a)la supposta incompetenza del soggetto adottante (relativa) non rileva in quanto trattavasi di provvedimento vincolato nell’an, e parzialmente nel quantum (la sentenza al capo 5.3. aveva analiticamente dettato i criteri cui il provvedimento ex art.43 si sarebbe dovuto conformare);

b)quanto a questi ultimi parte appellante solleva censure apodittiche, generiche, e/o per quanto si è prima chiarito, inammissibili: si duole della irrisorietà della somma offerta, ma non ne contesta la esatta determinazione in relazione al valore intrinseco del fondo: contesta che non siano state prese in esame ed ivi contemplate “voci” aggiuntive, volte ad estendere la base del danno contemplabile, ma in considerazione che esse non rientravano nel petitum richiesto da parte appellante, né erano liquidabili, né il Comune avrebbe potuto motu proprio concederle;
in nessun punto dei riuniti appelli si va oltre la labiale affermazione che il valore del fondo era maggiore di quanto quantificato dal Comune: ci si duole dell’importo, ma non si fornisce neppure un indizio per ritenere la fondatezza di tale doglianza;

C)quanto poi alla pretesa violazione dell’ art. 7 della legge n. 241/1990, il procedimento ottemperativo alla sentenza n. 2160/2003 poi sfociato nella emissione del contestato decreto era ben noto a parte appellante;
essa ben conosceva che a ciò si stava provvedendo da parte del Comune, quale conseguenza dell’avvenuta emissione della sentenza n. 2160/2003.

La censura è speciosa, ed infondata alla stregua della consolidata giurisprudenza per cui se lesione non v’è stata, in quanto il privato conosceva (o doveva conoscere con l’ordinaria diligenza) che un procedimento era in corso e/o avrebbe dovuto essere avviato, l’omissione dell’avviso, in quanto non lesiva, non produce conseguenze vizianti.

5.3.6. Tutte le dette doglianze, quindi, vanno disattese.

5.4. Parte appellante, anche nel corso della discussione orale, ha insistito nel rappresentare che, a cagione della statuizione di cui sopra essa subiva un danno: ciò in quanto, laddove il risarcimento fosse stato liquidato sulla scorta della prescrizione normativa sopravvenuta a quella di cui all’art. 43 del TU Espropriazione (id est: sulla scorta dell’art. 42bis del TU Espropriazione, del quale è stata recentemente ribadita la compatibilità costituzionale ai sensi della sentenza della Consulta n.71/2015) essa avrebbe avuto diritto a somme maggiori (es: liquidazione in via equitativa del danno morale).

Senonchè, tale effetto discende direttamente dalla formazione del giudicato sul punto, e dalla natura ottemperativa del decreto comunale ex art. 43 del TU Espropriazione, e non è “superabile”, ad avviso del Collegio, dalla circostanza che avverso il detto decreto fosse pendente una impugnazione alla data in cui intervenne la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 predetto.

In più può aggiungersi che soltanto a cagione della dilatata tempistica processuale l’appellante è stato in grado di prospettare simili censure: i ricorsi avversanti il provvedimento comunale risalgono al 2004;
ove le cause di primo grado fossero state assunte in decisione in tempi contenuti, neppure si sarebbe potuta porre la questione della sopravvenuta incostituzionalità dell’art. 43 del TU Espropriazione.

5.5.L’ultima censura, infine, in punto di determinazione delle spese processuali, è palesemente infondata alla stregua del condivisibile orientamento secondo cui “la decisione del giudice di merito in materia di spese processuali è censurabile in sede di legittimità, sotto il profilo della violazione di legge, soltanto quando le spese siano state poste, totalmente o parzialmente, a carico della parte totalmente vittoriosa;
non è invece sindacabile, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione, l'esercizio del potere discrezionale del giudice di merito sull'opportunità di compensare, in tutto o in parte le spese medesime. Tali principi trovano applicazione non soltanto quando il giudice abbia emesso una pronuncia di merito, ma anche quando egli si sia limitato a dichiarare l'inammissibilità o l'improcedibilità dell'atto introduttivo del giudizio. Infatti, pure in tali ultimi casi sussiste pur sempre una soccombenza, sia pure virtuale, di colui che ha agito con un atto dichiarato inammissibile o improcedibile che consente al giudice di compensare parzialmente o totalmente le spese, esercitando un suo potere discrezionale che, nel caso specifico considerato, ha come suo unico limite il divieto di condanna della parte vittoriosa e che si traduce in un provvedimento che rimane incensurabile in cassazione purché non illogicamente motivato. (Cassazione civile , sez. lav., 27 dicembre 1999, n. 14576)

Detto principio è stato più volte predicato dalla giurisprudenza amministrativa, che ha avuto modo di affermare che la statuizione del primo giudice sulle spese e sugli onorari di giudizio costituisca espressione di un ampio potere discrezionale, come tale insindacabile in sede di appello, fatta eccezione per l'ipotesi di condanna della parte totalmente vittoriosa, oppure per il caso che la statuizione sia manifestamente irrazionale o si riferisca al pagamento di somme palesemente inadeguate.” (Cons. Stato, sez. VI, 30 dicembre 2005, n. 7581).

Ciò non si è verificato nella fattispecie per cui è causa, dal che discende la reiezione anche di questa censura.

6.Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22 marzo 1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16 maggio 2012 n. 7663). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.

7. Conclusivamente, i riuniti appelli vanno in parte dichiarati inammissibili, ed in parte respinti.

8. Le spese processuali del grado, tuttavia, possono essere compensate tra le parti, a cagione della particolarità e novità della questione esaminata, e della complessità giuridica ad essa sottesa.


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