Consiglio di Stato, sez. VII, sentenza 2023-03-08, n. 202302461

Sintesi tramite sistema IA Doctrine

L'intelligenza artificiale può commettere errori. Verifica sempre i contenuti generati.Beta

Segnala un errore nella sintesi

Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VII, sentenza 2023-03-08, n. 202302461
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202302461
Data del deposito : 8 marzo 2023
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 08/03/2023

N. 02461/2023REG.PROV.COLL.

N. 08135/2018 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Settima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8135 del 2018, proposto da:
A D G e T G, rappresentati e difesi dall'avvocato A M D L, con domicilio digitale come da PEC dei Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Napoli, via Toledo, 156;

contro

Comune di Sorrento, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dall'avvocato M P, con domicilio digitale come da PEC dei Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania (Sezione Sesta) n. 1028/2018.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Sorrento;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore il Cons. Laura Marzano;

Udito, nell'udienza straordinaria del giorno 24 febbraio 2023, l’avvocato A M D L per parte appellante;

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Gli appellanti hanno impugnato la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania - Napoli, Sezione VII, n. 1028 del 15 febbraio 2018, con cui è stato respinto il ricorso proposto avverso l’ordinanza del Comune di Sorrento n. 185 del 22 settembre 2016, di ingiunzione di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi relativamente ad abusi consistenti nel mutamento di destinazione d’uso da fabbricato rurale a locale ad uso commerciale, in particolare di ristorazione.

Il Comune si è costituito nel presente grado di giudizio chiedendo la reiezione dell’appello.

All’udienza del 24 febbraio 2023, la causa è stata trattenuta per la decisione.

2. Gli abusi contestati nell’ordinanza di demolizione impugnata in primo grado sono i seguenti: 1) tettoia con struttura in legno e copertura in lamiere coibentate con sottostante tavolato in legno su cui si svolge l'attività di sala ristorante ed avente le dimensioni di circa m. 25 x 7 ed altezza media di metri 3 per un volume totale di circa mc 525;
2) volume ex novo con struttura in legno e muratura di pietrame calcareo, copertura a solaio con sottostanti travi in legno, usata come terrazzo (sala ristorante) e copertura a falda inclinata con listelli in legno e pannelli in materiale traslucido (zona di passaggio), avente le dimensioni di circa m 8,00 x 5,50 ed altezza media 3,50 (sala ristorante) e circa m. 4,00 x 1,50 ed altezza media di metri 3,50 (zona di passaggio) per un volume totale di circa mc 175,00;
3) installazione di un gazebo con struttura metallica e copertura in telo in materiale plastico di colore bianco avente la dimensione di circa mt. 4,00 x 4,00 ed altezza media di mt. 3,50;
4) installazione di n. 2 unità esterne di trattamento d'aria;
5) cambio di destinazione d'uso dell'intero fabbricato riportato al NCEU al mappale n. 22 del foglio 7 del Comune di Sorrento, dalla pregressa destinazione di fabbricato rurale all'attuale destinazione di locale ad uso commerciale (C/1);
6) apertura di un piccolo vano finestra, avente le dimensioni di circa m 1,10 x m 0,40 al primo piano sul prospetto sud-ovest dell'edificio;
7) realizzazione di un cunicolo di passaggio al piano terra sul lato nord-ovest dell'edificio, per consentire il collegamento tra la scala principale e la volumetria abusiva descritta al punto 1);
8) realizzazione di un terrazzino al primo piano dell'edificio al lato sud-est avente le dimensioni di circa mt. 10 per mt. 1,40 per il collegamento tra il terrazzo al primo piano lato sud-ovest e l'area esterna a quota del primo piano lato nord-est;
9) demolizione di un setto murario portante al primo piano (attuale cucina) al fine di configurare il primo piano dell'edificio come un unico ambiente;
10) realizzazione di una canna fumaria in pietrame calcareo;
11) manufatto ad uso deposito ubicato in adiacenza alla tettoia per il quale è stata presentata pratica di condono edilizio di cui alla L. 724/94, la quale allo stato non risulta integrata;
12) volumi ubicati alle spalle della sala di cui al punto 2 utilizzati come locali tecnici e servizio igienici;
13) opere di sistemazione esterna;
14) servizi igienici a servizio della sala ristorante di cui al punto 1.

3. Il TAR ha respinto tutte le censure osservando quanto segue.

Non sussiste la dedotta contraddittorietà dell’ordinanza di ingiunzione con l’agibilità dei locali, in quanto i due provvedimenti sono tesi a soddisfare esigenze differenti: il procedimento volto ad attestare l’agibilità di un immobile ha lo scopo di verificarne le condizioni di sicurezza;
quello di sanzionatorio edilizio ha l’obiettivo di assicurare il rispetto delle prescrizioni in materia urbanistica.

Analogamente non vi è contraddittorietà tra l’attività sanzionatoria edilizia e l’atto di autorizzazione all’esercizio della ristorazione, atteso che quest’ultimo non vale ad esplicare effetti ampliativi o sananti in ambito edilizio.

Quanto alla tesi per cui la destinazione commerciale dell’immobile risalisse ad un tempo anteriore al 1990, il primo giudice ne ha rilevato l’assenza di elementi probatori, osservando che, invece, dal titolo di proprietà del 1990, l’immobile risulta come “fabbricato rurale diruto e ruderi di antica cappella”.

Del pari, il TAR ha ritenuto priva di valore l’attestazione del dirigente comunale del 1999, effettuata su base catastale, poiché i dati catastali sono comunque raccolti a seguito di comunicazioni e dichiarazioni degli interessati.

Sono state disattese, inoltre, le censure relative alla presunta lesione dell’affidamento riposto nella conservazione dell’avvenuto cambio di destinazione dei luoghi in ragione del tempo trascorso dalla realizzazione delle opere.

Infine il TAR ha ritenuto di dover considerare in maniera unitaria tutti gli interventi realizzati, rilevando l’assenza di qualsivoglia titolo edilizio legittimante, a tanto non potendo sopperire eventuali autorizzazioni paesaggistiche ottenute, peraltro in mancanza di istanza di condono.

4. L’appello è affidato a due motivi di diritto di seguito sintetizzati.

I) Gli appellanti sostengono che siano rilevanti sia la licenza rilasciata per l’attività di ristorazione sin dal 1999, sia il certificato di agibilità rilasciato nel 2010: osservano che tali provvedimenti, uniti all’inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di controllo sul rispetto della disciplina urbanistica, avrebbero contribuito a ingenerare l’affidamento nella conservazione dello stato dei luoghi.

Analogo rilevo attribuiscono alle attestazioni di regolarità urbanistica, tra cui quella del 30 aprile 1999, con cui si certificava la connotazione commerciale che l’immobile aveva assunto all’esito dei lavori di ripristino e consolidamento, che essi ritengono siano stati legittimamente eseguiti.

A parere degli appellanti, inoltre, l’ordinanza di ingiunzione sarebbe illegittima anche perché non adeguatamente motivata in ordine alla prevalenza dell’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi, rispetto a quello privato alla conservazione.

Il tempo trascorso dalla conoscibilità o conoscenza dell’abuso sino all’ingiunzione, a loro dire, avrebbe imposto un onere motivazionale rafforzato a carico dell’amministrazione.

La sentenza, inoltre, avrebbe errato nel non rilevare la carenza motivazionale dell’ordinanza anche con riguardo alla mancata indicazione degli interventi atti a determinare il cambio di destinazione d’uso.

II) La sentenza avrebbe errato nel considerare l’intero immobile come abusivo, senza tener conto della circostanza che, per alcune parti di esso, erano state accolte alcune osservazioni all’ordinanza di ingiunzione ed erano state concesse autorizzazioni paesaggistiche semplificate e che, per altre, non erano stati esercitati i poteri inibitori in materia di SCIA.

Poiché tali titoli non sarebbero stati contestati dall’amministrazione in giudizio, il primo giudice da una parte ne avrebbe dovuto trarre argomenti di prova e, dall’altra, avrebbe dovuto attivare i poteri istruttori d’ufficio.

Gli appellanti lamentano l’omessa considerazione, da parte del TAR, del fatto che talune delle opere contestate erano esistenti da “ sempre ” (pag. 15 del ricorso in appello) e che alcune trasformazioni interne rientrerebbero nella definizione di manutenzione straordinaria. Aggiungono che non sarebbe stato aperto alcun vano finestra, sebbene tale abuso sia stato contestato.

In chiusura hanno rappresentato di aver presentato un progetto di sanatoria e parziale ripristino dello stato dei luoghi.

5. Il Comune appellato, nella propria memoria difensiva, ha evidenziato che il deposito dell’istanza di concessione in sanatoria del 26 novembre 2019, tendente alla rimozione di talune opere, porrebbe nel nulla le censure relative alla legittimità dell’ordinanza di ingiunzione, determinando, dunque, la carenza di interesse ad agire per una parte del ricorso, ossia quella relativa alla demolizione delle opere di cui alla SCIA alternativa al permesso di costruire del 26 novembre 2019.

In prossimità dell’udienza di discussione gli appellanti hanno depositato memoria in cui hanno confermato di aver ottenuto sia parere favorevole di compatibilità paesaggistica ex art. 167 D.Lgs. n. 42/2004, rilasciato dalla Soprintendenza archeologica, belle arti e paesaggio per l’Area metropolitana di Napoli per la “ sanatoria delle opere esterne con rimozione di alcuni manufatti ovvero eliminazione di un gazebo e di impianti esterni, sanatoria di una finestra, due vani porta, un pergolato e una scala in pietrame ed eliminazione di infissi ”, sia il titolo edilizio in sanatoria (seguito dal pagamento della relativa sanzione ex art. 37 DPR 380/2017), in forza di SCIA alternativa al permesso di costruire (prot. 46776 del 26 novembre 2019) per il ripristino parziale dello stato dei luoghi e per la sanatoria di altre opere. A tale titolo, che ritengono si sia definitivamente consolidato, sono allegati: 1) provvedimento di accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 D.Lgs. 42/2004, a firma del RUP dell’Ufficio del paesaggio del Comune di Sorrento n. 94 del 21 settembre 2018;
2) parere favorevole con prescrizioni della Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per l’Area metropolitana di Napoli, prot. n. 3753 del 9 marzo 2018.

Quindi ritengono che l’appello sia divenuto improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse;
in subordine ne chiedono comunque l’accoglimento.

In vista della trattazione del ricorso il Comune ha depositato una nota del 4 novembre 2021, inviata agli appellanti, avente ad oggetto “ Comunicazione e sollecito avvio delle opere di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi ”, in cui si evidenzia che nella SCIA non è stata indicata la ditta esecutrice dei lavori né è stata indicata la data di inizio dei lavori di demolizione, inoltre che non risulta presentata alcuna comunicazione dell'inizio dei lavori di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi.

Il Comune in tale nota precisa che l'istituto della SCIA alternativa al permesso di costruire, di cui all'art. 23 del DPR n. 380/2001, non si applica alla sanatoria di interventi già eseguiti ma ad interventi da farsi, limitatamente alla casistica di cui allo stesso art. 23, e che gli unici interventi da farsi sono quelli finalizzati alla demolizione delle opere abusive, peraltro già eseguibili senza ulteriore titolo, in ottemperanza all'ordinanza n. 185 del 22 settembre 2016 di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, tuttora efficace.

Aggiunge che la sanatoria delle opere edilizie prevede un procedimento diverso da quelli di cui agli artt. 22 e 23 del DPR n. 380/2001, ovvero l'accertamento di conformità urbanistica delineato dagli articoli 36 e 37 dello stesso DPR, fermo restando che la sanabilità delle opere è limitata ai soli casi di cui all'art. 167, comma 4, del D.Lgs. 42/2004 e di conformità agli strumenti urbanistici e paesaggistici.

Quindi evidenzia che, nel caso di specie, il procedimento di sanatoria sarebbe attivabile e valutabile solo ad avvenuta demolizione di tutte le opere non suscettibili di sanatoria (eliminazione di tutti gli ampliamenti di volume e superficie), nonché di tutte quelle opere in contrasto con la strumentazione urbanistica e paesaggistica vigente.

In definitiva il Comune, nel sollecitare l’avvio dei lavori di demolizione, ha precisato che l'istanza n. 652/19 acquisita al prot. 46776 del 26 novembre 2019 “ non costituisce sanatoria delle opere residuali a seguito delle demolizioni ” e che “ l'eventuale futuro procedimento di sanatoria delle opere residuali dovrà seguire un iter separato rispetto alle demolizioni, con apposita istanza di accertamento di conformità urbanistica resa ai sensi degli artt. 36 e 37 del D.P.R. 380/2001 ”.

La parte appellante invece ritiene che la suddetta nota sarebbe irrilevante sia perché non avente contenuto provvedimentale, sia perché la SCIA si sarebbe consolidata ai sensi dell’art. 23, comma 1, e degli artt. 6 e 37 DPR n. 380/2001.

6. Preliminarmente va affrontata la tematica della improcedibilità dell’appello, sulla quale le parti concordano solo in parte.

Gli appellanti sostengono che la SCIA del 26 novembre 2019 autorizzerebbe sia la demolizione di parte delle opere di cui all’ordinanza impugnata, sia la sanatoria delle restanti opere, di cui alla stessa ordinanza.

Il Comune, viceversa, osserva che la suddetta SCIA legittimerebbe soltanto la demolizione (peraltro già intimata con l’ordinanza impugnata) mentre per le restanti opere, solo dopo la demolizione potrebbe essere presentata l’istanza di concessione in sanatoria.

6.1. Le argomentazioni del Comune vanno condivise.

L’art. 23 del testo unico dell’edilizia si riferisce alle sole opere da eseguire e non già a quelle già eseguite, quindi la SCIA ivi prevista non può essere presentata per sanare opere già realizzate, essendo a tal fine necessario un diverso procedimento che, nel caso di specie, gli appellanti non hanno attivato.

Quindi correttamente il Comune ha evidenziato nella richiamata nota di chiarimenti che le uniche opere da eseguire sono quelle di demolizione, rilevando peraltro l’inutilità a tal fine della SCIA, atteso che le opere in questione sono da demolirsi già per effetto dell’ordinanza n. 185 del 22 settembre 2016, rispetto alla quale il ripristino, non ancora effettuato, è in evidente ritardo né può essere ulteriormente procrastinato.

6.2. Non coglie nel segno la censura per cui il Comune non avrebbe esercitato nei termini il potere inibitorio e, quindi, il titolo “in sanatoria” si sarebbe consolidato, per l’evidente ragione che il consolidamento conseguente all’assenza di inibizione può legittimamente formarsi solo in presenza di una istanza ritualmente formulata.

Nel caso di specie, come già visto, la SCIA presentata non è lo strumento idoneo per richiedere il titolo in sanatoria, sicché sulla stessa non può essersi consolidato alcun titolo abilitativo per le opere abusive delle quali è stata già intimata la demolizione.

Ne discende che, stante la volontà della parte di procedere alla demolizione (parziale) delle opere, tanto da legittimarla con SCIA, l’appello proposto avverso l’ordinanza di demolizione, può considerarsi improcedibile solo limitatamente alle opere indicate nella SCIA come oggetto di demolizione.

Analoga sorte non segue, tuttavia, quanto alla parte dell’ingiunzione di demolizione che riguarda le restanti opere, le quali non sono affatto sanate, in forza della richiamata SCIA, come opina la parte appellante essendo necessaria, a tale fine, la presentazione di rituale istanza di accertamento di conformità.

Relativamente a tali manufatti, pertanto, persiste l’interesse della parte appellante alla decisione del presente gravame.

7. L’appello è, tuttavia, infondato.

7.1. Quanto alle censure formulate con il primo motivo, si osserva che il rilascio del certificato di agibilità di un immobile non attesta la regolarità edilizia ed urbanistica dello stesso.

Si tratta di provvedimenti che presidiano interessi diversi: il primo è diretto ad attestare la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità dell’edificio, mentre il titolo edilizio attesta la regolarità edilizia e urbanistica.

La mancanza del titolo edilizio comporta la sanzionabilità dell'attività realizzata. Ne discende che il rilascio del certificato di agibilità non è sintomo di contraddittorietà della sanzione demolitoria irrogata;
al contrario la mancanza del titolo edilizio depone per l’illegittimità del certificato di agibilità in quanto, attesa la specifica finalità di tale certificazione per come descritta dall’art. 24, comma 1, del DPR n. 380/2001, non è possibile legittimamente rilasciare un certificato di agibilità se non sussiste la conformità ai parametri normativi di carattere urbanistico e/o edilizio (Cons. Stato, Sez. VII, 5 gennaio 2023, n. 180).

Analoghe considerazioni vanno svolte con riferimento alla licenza di esercizio commerciale rilasciata nel 1999, trattandosi di atto autorizzativo relativo all’esercizio dell’attività di ristorazione, che non esplica effetti ampliativi o sananti sul piano edilizio- urbanistico: non risultano in atti titoli abilitativi per il cambio di destinazione d’uso e per la realizzazione delle opere contestate, che hanno dato luogo a nuova volumetria in zona vincolata.

Come correttamente rilevato dal TAR, anche la pretesa destinazione commerciale, che la parte appellante vorrebbe far risalire ad epoca remota, è priva di riscontro documentale;
viceversa, il titolo di proprietà del 1990 qualifica chiaramente l’immobile come “fabbricato rurale diruto e ruderi di antica cappella”.

Ne discende che, in mancanza di qualsivoglia principio di prova a supporto delle dichiarazioni degli appellanti e del tecnico di parte, deve ritenersi che la destinazione a ristorante sia stata impressa dagli appellanti dopo l’acquisto dell’immobile (licenza del 1999) in assenza di permesso e con realizzazione abusiva delle opere contestate con l’ordinanza impugnata.

Né ha valore l’attestazione del dirigente comunale del 1999 effettuata su base catastale, posto che l’accatastamento ha valore a fini fiscali e non va a legittimare, sotto il profilo edilizio, gli interventi eseguiti. In sostanza, alle risultanze catastali non può essere riconosciuto un autonomo valore probatorio anche ai fini dell’individuazione dell’effettiva destinazione d’uso (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 2 febbraio 2022, n. 734;
id. Sez. VI, 9 ottobre 2020, n. 5992).

Quanto al presunto affidamento ingenerato negli appellanti sulla legittimità dell’avvenuto cambio di destinazione, del quale manca qualunque prova, se ne può statuire l’insussistenza anche per la significativa circostanza della richiesta di titolo abilitativo effettuata con istanza del 21 aprile 1998 (prot. 13217/1998) per il cambio di destinazione, cui non ha fatto seguito alcun provvedimento favorevole, stando alla documentazione in atti.

Deve aggiungersi che la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 9 del 2017, cui si è uniformata la giurisprudenza successiva (fra le tante: Cons. Stato, Sez. VI, 22 febbraio 2021, n. 1552;
id. 16 settembre 2022, n. 8044) ha espressamente affermato che « il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino ».

La sentenza impugnata, diversamente da quanto opina la parte appellante, si colloca nel solco di tale giurisprudenza consolidata, laddove ha richiamato la citata sentenza dell’Adunanza Plenaria.

In ragione della natura vincolata del provvedimento, pertanto, non era richiesto alcuno specifico onere motivazionale sulla preminenza dell’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso, essendo sufficiente al riguardo il richiamo alla abusività delle opere contestate.

7.2. In ordine alle censure formulate con il secondo motivo, peraltro in parte già affrontate nel primo, deve condividersi l’impostazione del primo giudice laddove ha valutato nella sua portata complessiva l’intervento edilizio abusivo, respingendo l’atomistica scomposizione dei singoli aspetti che lo integrano, come preteso dalla parte ricorrente.

Le singole opere abusive non possono godere di un trattamento differenziato rispetto agli abusi principali, consistenti nel cambio di destinazione con opere comportanti ampliamenti plano – volumetrici, fermo restando che, in ogni caso, per nessuno degli interventi individuati nell’ordinanza di demolizione risulta essere stato richiesto né rilasciato un titolo edilizio.

Segnatamente le singole opere che gli appellanti hanno indicato nel ricorso introduttivo (terrazzino, pilastrini in pietra, tavolato di legno, cunicolo di passaggio, demolizione di un setto murario) non risultano autorizzate da un provvedimento formale del Comune che possa aver prodotto effetti sul piano urbanistico-edilizio;
né a tale mancanza possono sopperire le eventuali autorizzazioni paesaggistiche ottenute per i singoli interventi.

Invero, da una parte deve considerarsi che le materie dell’urbanistica/edilizia e della tutela del paesaggio presidiano interessi diversi, quantunque complementari, che sono regolati da normative diverse, su cui sono competenti autorità diverse (cfr. Cons. Stato, Sez. VII, 5 febbraio 2023, n. 1229);
dall’altra, stante la consistenza delle opere innanzi riportata, sarebbe stata necessaria l’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 D.Lgs. n. 42/2004.

Inoltre, l’originaria destinazione rurale dell’immobile e l’assenza di autorizzazione al cambio di destinazione depongono per la riconduzione delle opere alla nozione di “ristrutturazione edilizia”, attività non ammessa dalla destinazione urbanistica dell’area su cui insiste l’immobile.

Del tutto indimostrata è la tesi per cui alcuni degli interventi contestati sarebbero riconducibili alle istanze di condono edilizio presentate ai sensi della L. 724/1994 e della L. 326/2003: non risultano infatti depositate in giudizio le relative istanze corredate dalla documentazione tecnica.

Va respinta anche la tesi di parte appellante secondo cui il Comune non avrebbe contestato il contenuto della relazione tecnica acclusa alla SCIA del 26 novembre 2019 e, quindi, le affermazioni in essa contenute dovrebbero considerarsi acquisite agli atti in forza del principio di non contestazione.

In proposito deve richiamarsi la nota del 4 novembre 2021, inviata agli appellanti, in cui, come già rilevato in precedenza, il Comune ha, da una parte chiarito che l'istituto della SCIA alternativa al permesso di costruire, di cui all'art. 23 del DPR n. 380/2001, non si applica alla sanatoria di interventi già eseguiti;
dall’altra ha espressamente evidenziato che, nel caso di specie, il procedimento di sanatoria potrà essere attivato solo ad avvenuta demolizione di tutte le opere non suscettibili di sanatoria (ampliamenti di volume e superficie), nonché di tutte quelle opere in contrasto con la strumentazione urbanistica e paesaggistica vigente.

La contestazione effettuata dal difensore di parte appellante nel corso della discussione, circa l’assenza di valore provvedimentale di tale nota, è corretta ma ininfluente in quanto con la stessa il Comune ha fornito soltanto chiarimenti su circostanze già ricavabili sia dalla disciplina di legge sia dall’esame della documentazione versata in atti.

Quanto alla censura secondo cui il TAR non si sarebbe avveduto che non sarebbe stato aperto alcun vano finestra, sebbene tale abuso sia stato contestato, il Collegio ne rileva l’infondatezza in punto di fatto dal momento che nella relazione tecnica a corredo della SCIA, fra le opere da “sanare”, risulta espressamente inclusa la “ apertura di un piccolo vano finestra, avente le dimensioni di circa 1,10 m x 0,40 m al piano primo sul prospetto sud-ovest dell’edificio ” (così al punto 6).

Conclusivamente, per quanto precede, l’appello deve essere respinto.

8. Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

Iscriviti per avere accesso a tutti i nostri contenuti, è gratuito!
Hai già un account ? Accedi