Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2021-02-22, n. 202101552

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2021-02-22, n. 202101552
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202101552
Data del deposito : 22 febbraio 2021
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 22/02/2021

N. 01552/2021REG.PROV.COLL.

N. 01656/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1656 del 2015, proposto da
Comune di Norcia, in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dall'avvocato M M, con domicilio eletto presso lo studio Antonio Campagnola in Roma, via Lutezia, n. 8;

contro

A A, U C, C C, C C, A R C, rappresentati e difesi dall'avvocato S C, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, viale Trastevere n. 78;

nei confronti

Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici dell'Umbria non costituita in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Umbria (Sezione Prima) n. 379/2014, resa tra le parti, concernente ordinanza di demolizione e rimessa in pristino di opere eseguite in assenza di concessione edilizia.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di A A e di U C e di C C e di C C e di A R C;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 febbraio 2021 il Cons. L M T. Nessuno udito per le parti. L’udienza si svolge ai sensi degli artt. 25 del Decreto Legge 137 del 28 ottobre 2020 e 4 comma 1, Decreto Legge 28 del 30 aprile 2020, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto della circolare n. 6305 del 13 marzo 2020 del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa.

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con ricorso proposto dinanzi al TAR per l’Umbria il Sig. Oreste Capelli invocava l’annullamento dell’ordinanza del Sindaco di Norcia e del Responsabile dell’Ufficio Urbanistica n. 16 del 6/9/2002 prot. n. 10274 notificata l’11/9/2002, con la quale era stato disposto l’annullamento dell’ordinanza sindacale n. 54 del 17/05/1996 prot. 5659 ed era stata ordinata al ricorrente la demolizione di una baracca sita in località “Pratacce” di Castelluccio.

2. Il primo giudice accoglieva il ricorso, evidenziando che nonostante il decorso di quasi trent’anni dalla realizzazione della baracca, il Sindaco avrebbe completamente omesso di provvedere alla ponderazione degli interessi coinvolti ed in particolare avrebbe violato l’affidamento del ricorrente ingenerato dalla inerzia nell’esercizio del potere repressivo. Il TAR poneva in luce, infatti, come dalla documentazione depositata in giudizio emergeva come anche in sede di riunioni effettuate nella sede comunale alla presenza dei vari enti pubblici interessati (verbale del 18 febbraio 2002) fosse ben presente il problema della presenza da lungo tempo e comunque prima del 1967 di manufatti per il ricovero del bestiame nel Pian Grande di Castelluccio di Norcia, come ammesso dallo stesso consulente legale del Comune seppur in riferimento alla generalità dei manufatti esistenti in loco. Pertanto, in considerazione dell’inerzia dell’autorità comunale e della modesta entità dell’abuso, comunque realizzato ben prima dell’istituzione del Parco Nazionale dei Monti Sibillini, risultavano meritevoli di condivisione le censure di cui al II motivo di ricorso, dal momento che l’ordinanza gravata ometteva di effettuare qualsivoglia contemperamento tra l’interesse pubblico alla repressione dell’abuso e l’affidamento del ricorrente al mantenimento dell’opera pur abusiva stante la lunga inerzia nell’esercizio del potere repressivo.

3. Avverso la pronuncia indicata in epigrafe propone appello l’amministrazione comunale, lamentandone l’erroneità nella parte in cui il TAR ha ritenuto che il manufatto sarebbe stato realizzato prima dell’apposizione del vincolo in mancanza però di indizi gravi, precisi e concordanti. Inoltre, l’amministrazione comunale avrebbe adeguatamente soppesato gli interessi dell’originario ricorrente, tanto che avrebbe reiterato in modo approfondito un’istruttoria, che avrebbe condotto alla stessa conclusione del provvedimento sanzionatorio adottato nel 1996. Inoltre, in tema di esercizio del potere sanzionatorio in ambito edilizio non sarebbe validamente tutelabile alcun affidamento in capo al privato. Né sarebbe predicabile alcun limite temporale per disporre l’attività repressiva, stante la sua natura vincolata. Infine, non dovrebbe trascurarsi che il Comune di Norcia sin dal 1935 si sarebbe dotato di un regolamento che sottoponeva in virtù degli artt. 3 e 4 r.d. n. 640/1935 ad autorizzazione del podestà la possibilità di costruire. Inoltre, l’art. 32 della legge 1150 del 1942 prevedeva la possibilità di demolire.

4. Costituitisi in giudizio gli eredi dell’originario ricorrente invocano la conferma della pronuncia impugnata, sottolineando che dovrebbe adeguatamente essere presa in considerazione la buona fede soggettiva dell’originario ricorrente.

5. Nelle successive difese entrambe le parti insistono nelle proprie conclusioni.

6. L’appello è fondato e merita di essere accolto, sicché il ricorso di prime cure deve essere respinto.

7. Questa Sezione, come ricordato dalla difesa dell’amministrazione comunale ha già esaminato dei casi molto simili a quello in esame con le sentenze nn. 3350 e 3351 del 2018. In entrambi i casi si trattava di ordinanze di demolizione aventi ad oggetto manufatti abusivi realizzati prima della istituzione del Parco Nazionale dei Monti Sibillini, avvenuta con la l. n. 67 del 1988, in attuazione della l. n. 349 del 1986. Rispetto alle vicende procedimentali ivi esaminate non si ravvisano elementi di discontinuità tali da doversi discostare dalle conclusioni raggiunte dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la pronuncia n. 9 del 2017, secondo la quale: “ il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione alcuna in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso neanche nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino ”;
e “ nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione di un abuso edilizio, la mera inerzia da parte dell'Amministrazione nell'esercizio di un potere / dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l'edificazione “sine titulo”) è sin dall'origine illegittimo;
allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell'abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un'aspettativa giuridicamente fondata
”.

Rispetto ai principi in questione la buona fede soggettiva in capo all’originario ricorrente non risulta in alcun modo provata, dal momento che la stessa, per potere avere una qualche possibile efficacia, dovrebbe in qualche modo essere legata alla commissione dell’illecito edilizio. Ma in questi termini non è stata prospettata dagli appellati, che fanno leva erroneamente sul decorso del tempo entro il quale è stato sanzionato l’illecito. In altri termini la buona fede non può intervenire ex post in presenza di una chiara disciplina che prevedeva per la realizzazione di un manufatto dell’obbligo di munirsi di adeguato titolo giuridico.

Tanto premesso, va ribadito che in caso di abusi edilizi, l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato (che consegue alla commissione di un reato), che non richiede una valutazione specifica delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né – ancora – una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (in tal senso, Cons. Stato, IV, 28 febbraio 2017, n. 908).

Difatti, una giurisprudenza ormai costante ha riconosciuto all’illecito edilizio natura di illecito permanente in quanto un immobile interessato da un intervento illegittimo conserva nel tempo la sua natura abusiva tale per cui l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata è “in re ipsa”, quindi l’interesse del privato deve intendersi necessariamente recessivo rispetto all'interesse pubblico all'osservanza della normativa urbanistico - edilizia e al corretto governo del territorio (v.,“ex plurimis”, Cons. Stato, Sez. VI, n. 474/2015, IV, n. 3182/2013, VI, n. 6072/2012 e IV, nn. 4403/2011, 79/2011, 5509/2009 e 2529/2004).

Ciò posto, anche alla luce della menzionata sentenza dell’Adunanza plenaria n. 9 del 2017 emerge che “ la mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo.

Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere ‘legittimo’ in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata.

Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.

Non è in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare l’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta – e inammissibile – forma di sanatoria automatica.

Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria.

Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento: l’eventuale connivenza degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata conoscenza dell’avvenuta commissione di abusi non fa venire meno il dovere dell’Amministrazione di emanare senza indugio gli atti previsti a salvaguardia del territorio ” (conf. Cons. Stato, sez. VI, n. 1893 del 2018).

Sulla base di tali considerazioni, emerge la fondatezza della impugnazione nella parte in cui il Comune sottolinea la insussistenza – o comunque la irrilevanza - di un legittimo affidamento sulla liceità dell’intervento.

Non sono cioè individuabili atti o comportamenti dell’Amministrazione comunale dai quali possa desumersi l’avvenuta formazione di un affidamento legittimo in capo al responsabile dell’abuso (o al suo avente causa).

Difatti, il periodo di tempo intercorso tra la realizzazione dell’opera abusiva e il provvedimento repressivo non può assurgere a circostanza legittimante l’intervento abusivo, sia in rapporto al preteso affidamento circa la legittimità dell’opera che il protrarsi del comportamento inerte del Comune avrebbe ingenerato nel responsabile dell’abuso, sia in relazione a un ipotizzato ulteriore obbligo, per l’Amministrazione emanante, di motivare in maniera specifica il provvedimento in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico attuale a far demolire il manufatto, posto che il permanere nel tempo dell’opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza solo il suo carattere abusivo.

Fermo quanto rilevato, l’ordinanza di demolizione impugnata in primo grado risulta comunque adeguatamente motivata e sorretta da indicazioni adeguate su un bilanciamento tra i diversi interessi coinvolti, pubblico e privato.

Le considerazioni esposte sono risolutive ai fini dell’accoglimento dell’appello e, in riforma della sentenza impugnata, per il rigetto del ricorso di primo grado.

Perde dunque peso il rilievo svolto in sentenza secondo cui dagli atti di causa la realizzazione del manufatto risulterebbe comprovata negli anni Sessanta / Settanta, prima della nascita del Parco nazionale dei Monti Sibillini, potendo il Collegio considerarsi esonerato dall’obbligo di verificare quale possa essere stata la data di realizzazione del manufatto abusivo.

Peraltro, il Comune ha dato prova del fatto che sin dal 1935, e indipendentemente quindi dall’epoca – comunque successiva - alla quale risale la costruzione del manufatto su cui si controverte, esistevano norme locali volte a regolare e controllare gli interventi edilizi, così obbligando il privato a dotarsi di una licenza edilizia per poter realizzare un immobile.

Ugualmente, si può prescindere dal rimarcare che il manufatto in questione si trova all’interno del Parco nazionale dei Monti Sibillini, zona entro la quale le norme del Piano territoriale di coordinamento provinciale (art. 38) consentono solo interventi che non alterino le caratteristiche peculiari del luogo, la sua immagine e le prospettive panoramiche e dei punti di affaccio.

8. L’appello va dunque accolto e, in riforma della sentenza impugnata, il ricorso di primo grado va respinto.

9. Le spese del doppio grado seguono come di regola la soccombenza e si liquidano nel dispositivo.

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