Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2018-10-15, n. 201805905

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2018-10-15, n. 201805905
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201805905
Data del deposito : 15 ottobre 2018
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 15/10/2018

N. 05905/2018REG.PROV.COLL.

N. 09225/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9225 del 2015, proposto da:
P A, rappresentato e difeso dagli avvocati S C P, S M, domiciliato ex art. 25 cpa presso Segreteria della Sezione del Consiglio di Stato, in Roma, piazza Capo di Ferro, 13;

contro

Ministero della Giustizia - Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. CAMPANIA – NAPOLI, SEZ. VII n. 02048/2015, resa tra le parti, concernente accertamento diritto al risarcimento danni subiti a causa di ripetute condotte di mobbing


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero della Giustizia - Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 aprile 2018 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le parti gli avvocati S M e l'Avvocato dello Stato Gaetana Natale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1.Con l’appello in esame, il sig. Antonio Pace impugna la sentenza 10 aprile 2015 n.2048, con la quale il TAR della Campania, sez. VII, ha respinto il suo ricorso volto ad ottenere il risarcimento dei danni che assume aver patito a causa delle ripetute condotte di mobbing cui è stato sottoposto dall’anno 2011 ad aprile 2014, nello svolgimento del servizio presso l’Amministrazione penitenziaria (distaccamento cinofili di Benevento).

Per effetto dell’asserito mobbing sul luogo di lavoro, il ricorrente rappresentava varie voci di danno (biologico, esistenziale, alla personalità), quantificate in Euro 200.000 a titolo di danno biologico, in 100.000 Euro a titolo di danno esistenziale e in un importo da quantificarsi in corso di causa a titolo di danno all’immagine e alla professionalità.

1.1.La sentenza impugnata ha, innanzi tutto, affermato taluni principi in tema di “ mobbing ”, precisando in particolare:

- per mobbing, in assenza di una definizione normativa, “si deve intendere normalmente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell’ambiente di lavoro;
tale condotta si deve manifestare con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressione di un disegno finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegue un effetto lesivo”;

- “nel pubblico impiego, per configurarsi una condotta di mobbing, è necessario un disegno persecutorio tale da rendere tutti gli atti dell’amministrazione, compiuti in esecuzione di tale sovrastante disegno, non funzionali all’interesse generale cui sono normalmente diretti”.

Tanto premesso, la sentenza (pagg.

4-5 in particolare) ha analizzato le condotte e gli episodi “mobbizzanti” esposti dal ricorrente, giungendo ad affermare:

- quanto agli episodi intercorsi con il Nucleo regionale ed in particolare con il coordinatore dello stesso, essi “rientrano essenzialmente nelle mansioni spettanti al coordinatore, posto che i contrasti sorti tra il ricorrente e il Nucleo regionale riguardano proprio l’attività di controllo esercitata da quest’ultimo sul distaccamento di Benevento”;

- non ha rilevanza “la circostanza che in alcuni casi l’attività di controllo e vigilanza possa essere stata eventualmente inopportuna o eccessivamente accentratrice . . . atteso che tale valutazione rientra nel campo delle valutazioni di adeguatezza della gestione del servizio cinofilo ma non denota quei richiamati profili di gravità ed esorbitanza che avrebbero potuto giustificare l’accoglimento della domanda risarcitoria”;

- peraltro, “il ricorrente è inserito in un Corpo di Polizia ove il rispetto della struttura gerarchico-funzionale, e dei distinti ruoli di direzione e coordinamento – caratterizza ordinariamente tutte le manifestazioni dell’attività lavorativa e costituisce un elemento imprescindibile dei relativi assetti organizzativi”;

- infine, “è da escludere la finalità puramente persecutoria degli atti contestati, in quanto volta a pregiudicare intenzionalmente la sfera psicofisica del Pace e a mortificare la sua professionalità, anche in considerazione . . . dell’assenza di iniziative disciplinari e del giudizio positivo ottenuto (nel 2013 il massimo dei coefficienti valutativi)”.

1.2. Avverso tale decisione vengono proposti i seguenti motivi di appello:

violazione e falsa applicazione art. 41 Cost. e 2087 c.c.;
nonché vizio di motivazione (che si riverbera sulla sentenza) e di istruttoria;
eccesso di potere, irragionevolezza;
illogicità manifesta;
contraddittorietà;
violazione e falsa applicazione artt. 115 e 116 c.p.c.;
erronea valutazione della documentazione allegata;
erronea valutazione dei fatti;
ciò in quanto:

a) “gli episodi così come narrati hanno ognuno una valenza individuale e specifica che, anche se contribuisce a mostrare il quadro di insieme, non li priva però della loro esclusività e gravità, in relazione alla lesione della professionalità del dipendente”;

b) vi è stata “mancata pronuncia in relazione alla domanda istruttoria, formulata dalla parte in relazione all’acquisizione della prova testimoniale, considerato che la condotta può e deve trovare la propria consacrazione processuale nello strumento all’uopo dal codice predisposto”;

c) risulta ampiamente provata la sussistenza dell’elemento dei comportamenti ostili e vessatori, ammesso dalla stessa amministrazione (v. Relazione prot. n. 2737/SPEC);
allo steso modo, “giusta certificazioni mediche e relazione peritale risulta provato l’evento lesivo della depressione e il nesso eziologico, in quanto prima di subire tali atteggiamenti vessatori il Pace non accusava tali disturbi”;
né, in ogni caso, l’amministrazione ha fornito alcuna prova di aver posto in essere tutte le misure necessarie alla tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore;

d) in ogni caso, “sono dunque emersi elementi indiziari tali da far ritenere, ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., l’esistenza di un intento persecutorio in suo danno da parte dell’amministrazione, tale da integrare il cd. “ mobbing ”, essendo rilevabile “la sussistenza, nei confronti del dipendente, di un più complessivo disegno da parte dell’amministrazione, preordinato alla vessazione e alla prevaricazione”;

e) la sentenza impugnata “ha inteso respingere anche la domanda risarcitoria per il danno da dequalificazione, avendo il ricorrente distinto la domanda di risarcimento del danno derivante da mobbing da quella di risarcimento del danno da dequalificazione”.

1.3. Si è costituito in giudizio il Ministero della Giustizia.

All’udienza pubblica di trattazione, la causa è stata riservata in decisione.

DIRITTO

2. L’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.

2.1. La giurisprudenza amministrativa (tra le altre, Cons. Stato, sez. IV, 10 gennaio 2012 n. 14), ha avuto modo di affermare, con considerazioni cui ci si riporta, che l'elemento oggettivo della fattispecie del mobbing è integrato dai ripetuti soprusi che, se posti in essere dai superiori, danno luogo al c.d. mobbing verticale, mentre se posti in essere dai colleghi danno origine al c.d. mobbing orizzontale, comportamenti che possono anche essere formalmente legittimi ed assumono connotazione illecita allorquando aventi l'unico scopo di danneggiare il lavoratore nel suo ruolo e nella sua funzione lavorativa, così da determinare il suo isolamento (fisico, morale e psicologico), all'interno del contesto lavorativo.

L'elemento psicologico è integrato dal dolo generico o dal dolo specifico di danneggiare psicologicamente la personalità del lavoratore.

Pertanto, ai fini della configurabilità della condotta lesiva, qualificata danno da emarginazione lavorativa o mobbing , è rilevante, innanzitutto, la strategia unitaria persecutoria, che non si sostanzia in singoli atti da ricondurre nell'ordinaria dinamica del rapporto di lavoro (come i normali conflitti interpersonali nell'ambiente lavorativo, causati da antipatia, sfiducia, scarsa stima professionale, ma che non sono caratterizzati dalla volontà di emarginare il lavoratore), che ha come disegno unitario la finalità di emarginare il dipendente o di porlo in una posizione di debolezza, con la conseguenza che la ricorrenza di un'ipotesi di condotta mobbizzante deve essere esclusa allorquando la valutazione complessiva dell'insieme di circostanze addotte ed accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro.

La fattispecie così descritta postula il riscontro di un elemento psicologico della condotta non semplicemente colposo, ma doloso, sia pur nella forma del dolo generico.

In caso di denunziato mobbing si può ritenere sussistente l'illecito solo se si accerti che l'unica ragione della condotta è consistita nel procurare un danno al lavoratore, mentre bisogna escluderlo in caso contrario, indipendentemente dall'eventuale prevedibilità e occorrenza in concreto di simili effetti.

Una restrizione del genere, se permette per un verso di rinvenire nel mobbing un'ulteriore manifestazione del divieto di agire intenzionalmente a danno altrui, che costituisce canone generale del nostro ordinamento giuridico e fondamento dell'" exceptio doli generalis ", consente per altro verso di escludere dall'orbita della fattispecie tutte quelle vicende in cui fra datore di lavoro e lavoratore si registrano semplicemente posizioni divergenti o perfino conflittuali, affatto connesse alla fisiologia del rapporto di lavoro.

2.2. In senso sostanzialmente conforme a quanto ora riportato, si è espressa la giurisprudenza civile di legittimità.

Si è affermato (Cass.civ. n. 17698/2014 ) che “il mobbing rientra fra le situazioni potenzialmente dannose e non normativamente tipizzate e che, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale e recepito dalla giurisprudenza di questa Corte, esso designa (essendo stato mutuato da una branca dell'etologia) un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo (vedi per tutte: Corte cost. n. 359 del 2003)”.

Secondo Cass. Civ. Sez. Un., n. 8438/2004), il termine mobbing può essere generalmente riferito ad ogni ipotesi di pratiche vessatorie, poste in essere da uno o più soggetti diversi per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro.

Più precisamente, si è affermato (da ultimo, Cass. Civ. n. 27444/2017 ord.;
v.anche Cass. Civ., 5 novembre 2012, n. 18927;
21 maggio 2011 n. 12048;
26 marzo 2010 n. 7382), che per mobbing deve intendersi:

“a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;

b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;

c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;

d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

Elementi questi che il lavoratore ha l’onere di provare in applicazione del principio generale di cui all’art. 2697 cod. civ, e che implicano la necessità di una valutazione rigorosa della sistematicità della condotta e della sussistenza dell’intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla (Cass., n. 7382 del 2010).

La necessità della sussistenza dell’elemento soggettivo e cioè dell’intento persecutorio, è stata riaffermata da Cass. n. 2142 del 2017 anche in relazione ad una fattispecie in cui veniva prospettata una situazione di inattività lavorativa, nonché da Cass. n. 2147 del 2017.

Pertanto il mobbing , venendo in rilievo il principio del neminem ledere , sia pure nel più ampio contesto di cui all’art. 2087 cod. civ. la cui violazione deve essere fatta valere con autonoma azione, di cui nella specie non è allegata la tempestiva proposizione, non è riconducibile a mera colpa, occorrendo la prova di un intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi”.

2.3. Nel caso di specie, come condivisibilmente affermato dalla sentenza impugnata, non sono riscontrabili, nei fatti oggetto di causa (anche come rappresentati dall’appellante, v. pagg.

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