Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2024-06-24, n. 202405572

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2024-06-24, n. 202405572
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202405572
Data del deposito : 24 giugno 2024
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 24/06/2024

N. 05572/2024REG.PROV.COLL.

N. 00992/2022 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 992 del 2022, proposto da-OMISSIS-rappresentato e difeso dall’avvocato P E B, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e con domicilio fisico presso lo studio dell’avvocato B C in Roma, via Aurelia, n. 353;

contro

Ministero della Difesa e Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore , rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione Prima Stralcio, n. -OMISSIS- resa tra le parti;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa e del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri;

Visti tutti gli atti della causa;

Vista l’istanza di passaggio in decisione senza discussione del Ministero della Difesa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 11 giugno 2024 il Cons. Francesco Cocomile;

Per le parti nessun difensore è presente;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:


FATTO e DIRITTO

1. - L’odierno appellante -OMISSIS- (Maresciallo dell’Arma dei Carabinieri) con atto prot. n. 1399 del 5 ottobre 1991 era stato dispensato dal servizio permanente con decorrenza dal 17 settembre 1991 per “insufficiente rendimento e condotta in servizio”.

Tale provvedimento era stato impugnato dapprima innanzi al T.A.R. Molise e quindi innanzi al Consiglio di Stato (appello r.g. n. -OMISSIS-) che, con sentenza n.-OMISSIS- passata in giudicato, aveva accolto il gravame.

Nella sentenza il Consiglio di Stato aveva affermato che:

«… La cessazione del sottufficiale dal servizio continuativo, per scarso rendimento o per inidoneità a disimpegnare le attribuzioni del proprio grado, divisata dall’art. 33 della legge n. 599 del 1954, non è annoverata dalla legge di stato nel compendio delle sanzioni disciplinari (contemplate dagli artt. 63 e seguenti).

Invero, la dispensa dal servizio per inidoneità di un sottufficiale, comporta un giudizio ampiamente discrezionale sulle prestazioni e sul comportamento del militare, giudizio che non deve necessariamente riguardare l’intero periodo di servizio, ma può concernere specificatamente quello espletato nel grado ricoperto, al fine di accertare se il soggetto sia o meno idoneo a disimpegnare col normale rendimento le relative attribuzioni (C.d.S., sez. IV, 16 giugno 1986, n. 413).

Gli episodi della vita professionale, presi in considerazione ai fini della adozione del provvedimento di dispensa, non sono esclusivamente apprezzabili nell’ottica disciplinare, ben potendo esprimere il disvalore morale ed attitudinale del dipendente e la scarsa qualità delle prestazioni lavorative dallo stesso rese durante l’espletamento del servizio (C.d.S., Sez. IV, 5 settembre 2003, n. 4972).

Orbene, la Corte costituzionale (con sentenza n. 126 del 14 aprile 1995) ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 33 cit., nella parte in cui non prevede che al sottufficiale proposto per la dispensa dal servizio sia assegnato un termine per presentare le proprie osservazioni e sia data la possibilità di essere sentito personalmente.

Pertanto, come sancito dalla giurisprudenza della sezione, in caso di dispensa dal servizio permanente effettivo di un sottufficiale dell’Arma dei carabinieri per scarso rendimento, l’Amministrazione deve garantire all’interessato, oltre alla conoscenza dei fatti mediante apposita contestazione, anche l’assegnazione di un termine per la presentazione delle proprie osservazioni, nonché il diritto di accedere agli atti e di estrarne copia (C.d.S., Sez. IV, 20 novembre 1998, n. 1614).

3. - Ciò posto, il quadro fattuale della vicenda che ne occupa si caratterizza indubitabilmente per il fatto che il provvedimento di dispensa de quo non è in realtà stato emanato a conclusione del complesso iter procedurale disegnato dall’art. 33 cit. nella versione risultante dalla lettura costituzionalmente corretta, che ne ha dato la Consulta.

Esso è un provvedimento unilaterale, adottato all’esito di un procedimento privo di qualsiasi garanzia di partecipazione od interlocuzione da parte dell’interessato.

Provata dalle risultanze processuali risulta dunque, nel caso all’esame, la carenza delle garanzie procedimentali poste a presidio della difesa dell’interessato;
e ciò del tutto in contrasto con il paradigma astratto delineato dalla norma citata, così come “arricchita” dal veduto intervento additivo della Corte costituzionale.

Tanto basta, in via assorbente, a ritenere irrimediabilmente viziato il comportamento tenuto dall’Amministrazione nel caso all’esame, che ha così leso il diritto di difesa dell’odierno appellante in violazione della norma anzidetta, ai fini della cui applicazione questo Giudice non può non tener conto della citata sentenza della Corte costituzionale n. 126 del 1995, che, come tutte le decisioni della Corte dichiarative della illegittimità costituzionale di una disposizione di legge, ha effetti anche in ordine ai giudizi pendenti e ancora non conclusi, atteso che, ai sensi dell’art. 30, comma 4, della legge 11 marzo 1953, n. 87, "le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione".

È pur vero che la retroattività degli effetti delle sentenze della Corte costituzionale opera nei giudizi in corso, nei confronti dei rapporti contestati e non esauriti, solo quando l’oggetto del giudizio riguardi specificamente l’ambito di applicazione della norma dichiarata costituzionalmente illegittima.

Ma su ciò, sottolinea il Collegio, non v’è dubbio alcuno nel caso di specie, in cui il provvedimento in primo grado impugnato è appunto un atto di dispensa dal servizio permanente adottato ex art. 33 cit., nel giudizio di prime cure (peraltro introdotto e definito anteriormente alla citata decisione del Giudice delle leggi) il ricorrente aveva comunque sollevato profili di doglianza riconducibili alla compressione di facoltà e diritti tipici ormai non più del solo procedimento disciplinare in quella sede strumentalmente evocato ( tra cui, principalmente, la assenza di comunicazione dei fatti oggettivi, da cui è dipeso il procedimento di dispensa;
in proposito, C.d.S., Sez. VI, 12 dicembre 1989, n. 1623 ) ed in appello, infine, viene poi specificamente dedotto, come s’è visto, il vizio di violazione dell’art. 33 citato, nella versione risultante dalla veduta dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale.

Né dell’art. 33 in considerazione potrebbe, a parere del Collegio (che non può non rilevare incidentalmente l’assoluta assenza di difese da parte dell’Amministrazione appellata), escludersi l’applicabilità al caso di specie sol perché governato, a differenza di quello oggetto del giudizio costituzionale definito con la citata sentenza n. 126/95, dalla legge n. 241/90, la deduzione della cui violazione con l’atto di appello si rivela peraltro inammissibile, trattandosi di motivo nuovo non ritualmente dedotto in primo grado.

Ritiene, invero, in proposito la Sezione che l’art. 33 più volte citato, così come “integrato” dalla pronuncia della Consulta, sia in grado di garantire il carattere “disciplinare” del procedimento, che deve precedere la dispensa in discorso (nel senso di necessità del contraddittorio e di garanzia di partecipazione dell’interessato), in misura per certi versi più specifica ed incisiva (vedasi ad es. il passaggio della decisione della Corte, che garantisce l’interlocuzione personale dell’interessato, che ha diritto ad essere sentito personalmente) delle garanzie procedimentali assicurate dalla legge n. 241 del 1990.

Anche a voler prescindere, quindi, dal rapporto lex generalis/lex specialis, che può ritenersi sussistente tra le due normative evocate, non può dubitarsi, ad avviso del Collegio, del rapporto di necessaria, reciproca, integrazione, che tra le stesse si instaura, sì che l’una (la legge n. 241/1990) non ha certo soppiantato l’altra (l’art. 33 della legge n. 599 del 1954 nella versione “costituzionalizzata”);
ne consegue, sul piano processuale, non solo che il vizio di violazione dell’art. 33 medesimo si rivela del tutto conferente alla fattispecie, ma anche che non è certo ricavabile una qualche preclusione a far valere vizi di legittimità fondati sulla norma “speciale” dalla mancata deduzione di vizi fondati invece sulla violazione della norma “generale”.

4. - L’appello, alla stregua delle considerazioni di cui sopra, va accolto, sì che, in riforma della sentenza gravata, deve essere annullato il provvedimento, in primo grado impugnato, di dispensa dell’odierno appellante dal servizio, come adottato dal Ministero della Difesa, dovendo trovare al caso di specie il disposto dell’art. 33 della legge 31 luglio 1954, n. 599, come risultante dalla sentenza della Corte costituzionale 14 aprile 1995, n. 126 (in Gazz. Uff. 19 aprile 1995, n. 16 - Serie speciale), che ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, nella parte in cui non prevede che al sottufficiale proposto per la dispensa dal servizio sia assegnato un termine per presentare, ove creda, le proprie osservazioni e sia data la possibilità di essere sentito personalmente. …».

A seguito di tale sentenza, il Maresciallo -OMISSIS-veniva reintegrato nel servizio con contestuale ricostruzione economica e giuridica della carriera.

Il -OMISSIS-presentava quindi ai sensi dell’art. 18 decreto-legge n. 67/1997 convertito, con modificazioni, nella legge n. 135/1997 istanza di rimborso delle spese legali sostenute relativamente al giudizio r.g. n. -OMISSIS- (conclusosi con esito per lui favorevole con la citata sentenza n. -OMISSIS-).

Con l’impugnato provvedimento del 27 settembre 2012 il Ministero della Difesa respingeva l’istanza “ per mancanza dei requisiti previsti dalla vigente normativa ”.

2. - Con ricorso al T.A.R. del Lazio il sig. -OMISSIS-chiedeva l’annullamento di tale provvedimento, deducendone l’illegittimità per i seguenti motivi:

«- Violazione e falsa applicazione dell’art. 18 della L. n. 135/1997 - eccesso di potere per difetto di presupposto - arbitrio - ingiustizia manifesta - violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della L. n. 241/90 - eccesso di potere per insufficienza della motivazione ».

Chiedeva altresì la condanna del Ministero della Difesa alla liquidazione delle spese legali e delle competenze dovute al proprio difensore.

3. - L’adito T.A.R., nella resistenza dell’intimata Amministrazione, con la sentenza segnata in epigrafe, respingeva il ricorso, ritenendo infondate le censure sollevate.

4. - Con rituale atto di appello l’interessato chiedeva la riforma della predetta sentenza, lamentandone l’erroneità e l’ingiustizia alla stregua di seguenti motivi di gravame:

« 1. Difetto istruttorio in relazione all’art. 18 l. 135/97. Falso ed erroneo presupposto di fatto. Erroneo convincimento del primo giudice.

2. Illegittimità costituzionale dell’art. 18 d.l. n. 67 del 1997 in relazione agli art. 3, 97 e 111 Cost. Rep. nella parte in cui limita il riconoscimento del beneficio economico ai soli giudizi promossi nei confronti del dipendente e non anche a quelli promossi dal dipendente per difendersi da provvedimenti manifestamente ingiusti e lesivi del ruolo istituzionale rivestito. ».

5. - Resistevano al gravame il Ministero della Difesa e il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, chiedendone il rigetto.

6. - All’udienza pubblica dell’11 giugno 2024 la causa passava in decisione.

7. - L’appello è infondato.

7.1. - Il primo motivo di appello va disatteso in quanto si fonda su una non condivisibile interpretazione della disposizione di cui all’art. 18 decreto-legge n. 67/1997 convertito, con modificazioni, nella legge n. 135/1997, trascurandone il chiaro dato letterale.

A tal fine si riporta il passaggio dell’atto di appello (pag. 7):

«… Orbene è evidente che sebbene l’Amministrazione datrice di lavoro non abbia direttamente promosso un giudizio (civile, penale o amministrativo) nei confronti dell’odierno appellante, il Mar. -OMISSIS-- proprio in virtù della condotta tenuta nell’ambito dell’esercizio delle sue funzioni di pubblico ufficiale e dipendente - è stato costretto ad incardinare i giudizi innanzi al TAR e al Consiglio di Stato per difendersi dalle ingiuste accuse di scarso rendimento avanzate nei suoi confronti per cause riferibili ai suoi diretti superiori, e quindi per salvaguardare il proprio posto di lavoro e l’immagine collegata alla professione di pubblico ufficiale …».

Da quanto riportato, quindi, emerge che: 1) il -OMISSIS-chiede il rimborso delle spese legali sostenute in relazione ad un giudizio dallo stesso intentato;
2) l’appellante ha consapevolmente scelto di incardinare il giudizio (prima dinanzi al T.A.R. e poi davanti al Consiglio di Stato) nei confronti dell’Amministrazione di riferimento, a nulla rilevando la supposta “costrizione” enfatizzata dal suo difensore.

Così prosegue l’appellante: “ Da una lettura costituzionalmente orientata discende la ratio della norma che è sempre e comunque quella di tutelare il dipendente statale che sia stato costretto a difendersi in virtù del compimento dei propri obblighi istituzionali, e tanto a prescindere dal soggetto che incardina il giudizio: nel caso di specie deve quindi ravvisarsi il nesso di strumentalità tra l’adempimento del dovere ed il compimento dell’atto: in particolare il Maresciallo -OMISSIS-veniva ingiustamente accusato dal Comando di appartenenza per fatti inerenti a compiti e responsabilità dell’ufficio, cioè appunto, “in conseguenza di fatti e atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali” e da tale accusa veniva pienamente assolto dal Supremo Consiglio di Stato che ha giudizialmente accertato l’assenza della sua responsabilità ” (cfr. pag. 7 dell’atto di appello).

Sul punto va evidenziato che non è consentita una lettura costituzionalmente orientata della disposizione in commento, volta a suggerire l’estensione in via interpretativa del campo di applicazione di una norma (eccezionale), nel senso che la spettanza del rimborso vada affermata “ a prescindere dal soggetto che incardina il giudizio ” come sostiene parte appellante.

Inoltre, l’argomentazione del -OMISSIS-sovrappone in modo non corretto diversi piani: non è, infatti, possibile far discendere dal presupposto oggettivo della connessione con il servizio dei fatti contestati il ben diverso presupposto della spettanza del beneficio, a fronte di un giudizio volontariamente intrapreso e non già subito dall’interessato.

La conclusione cui perviene l’appellante sulla scorta delle censure richiamate viene poi così riassunta (cfr. pag. 8 dell’atto di appello): “ il primo Giudice avrebbe dovuto riconoscere la fondatezza della domanda del ricorrente senza subordinare il rimborso ad ulteriori condizioni eccessivamente stringenti rispetto a quelle chiaramente indicate dalla legge, la cui ratio perderebbe di significato alla luce di una lettura eccessivamente rigorosa, vanificandone la finalità e il suo ambito di applicazione ”.

Dette argomentazioni - come detto - vanno disattese.

In linea con quanto emerge dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28 novembre 2019, n. 8137;
Cons. Stato, Sez. IV, 10 gennaio 2020, n. 239) dal quale non vi è motivo di discostarsi, il rimborso delle spese legali risponde all’esigenza di sollevare i dipendenti di amministrazioni statali dal timore di eventuali conseguenze giudiziarie connesse all’espletamento del servizio e di tenere indenni i soggetti che abbiano agito in nome e per conto, e, quindi, nell’interesse dell’Amministrazione, dalle spese legali affrontate per i procedimenti giudiziari nei quali siano stati coinvolti, strettamente connessi all’espletamento dei loro compiti istituzionali.

Infatti, il citato art. 18, comma 1, decreto-legge n. 67/1997 convertito, con modificazioni, nella legge n. 135/1997, rubricato “ Rimborso delle spese di patrocinio legale ”, statuisce:

« Le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato. Le amministrazioni interessate, sentita l’Avvocatura dello Stato, possono concedere anticipazioni del rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza definitiva che accerti la responsabilità .».

Il tenore letterale della disposizione è dunque inequivoco: il rimborso spetta a condizione che il dipendente di un’amministrazione statale abbia subito un procedimento, dunque sia stato coinvolto in un giudizio per responsabilità civile, penale e amministrativa cui non abbia dato causa.

In modo ancor più chiaro, presupposto indefettibile affinché operi il beneficio in esame è che il giudizio in cui il dipendente sia stato coinvolto non sia stato dal medesimo intentato.

Diversamente, si finirebbe per snaturare la portata di una disposizione che nella sua genesi e nella sua funzione risponde alla finalità di tenere al riparo il dipendente pubblico, a fronte di un accertamento negativo di responsabilità, dalle conseguenze economiche che lo stesso sia stato costretto a subire per esercitare il suo diritto di difesa nel corso del procedimento.

Il presupposto dal quale muove la previsione normativa, in definitiva, è quello del coinvolgimento non voluto dal dipendente nel giudizio;
è allora ontologicamente incompatibile con la portata della disposizione pretendere una estensione del rimborso delle spese legali in quei casi in cui il dipendente sia stato promotore di un giudizio, soggetto attivo di una iniziativa giurisdizionale dallo stesso scientemente e liberamente intrapresa, rispetto alla quale ora intenda porre a carico della finanza pubblica gli esborsi economici sostenuti.

Una differente interpretazione estensiva della norma in commento finirebbe per coniare un indebito privilegio del quale si avvantaggerebbero coloro i quali, in modo del tutto consapevole, abbiano intentato un giudizio nei confronti dell’Amministrazione, salvo poi pretendere dalla stessa P.A. che hanno scelto di evocare in giudizio il rimborso delle spese legali sostenute.

Inoltre, si darebbe vita ad una totale deresponsabilizzazione del soggetto attivo del procedimento rispetto alle conseguenze economiche immanenti a ciascuna iniziativa giurisdizionale, in considerazione del fatto che il dipendente che avvii un giudizio nei confronti dell’Amministrazione finirebbe per astenersi dal ponderare i potenziali oneri connessi alla sua scelta.

Alle descritte ragioni di ordine teleologico-funzionale se ne aggiunge una ulteriore.

In giurisprudenza si è evidenziato che la previsione di cui al citato art. 18 decreto-legge n. 67/1997 è norma di stretta interpretazione, insuscettibile di interpretazione estensiva o analogica e, in quanto tale, deve ritenersi applicabile ai soli casi espressamente disciplinati dalla legge (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 13 gennaio 2020, n. 280 secondo cui “… La necessità che la disposizione sia oggetto di stretta interpretazione è del resto ricavabile dalla ratio che il legislatore ha inteso imprimere all’istituto del rimborso delle spese legali. Lo scopo della norma è quello di sollevare i funzionari pubblici dal timore di eventuali conseguenze giudiziarie connesse all’espletamento del servizio, nell’intento di impedire ‘che il dipendente statale tema di fare il proprio dovere’ (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28 novembre 2019, n. 8137). Il fine avuto di mira dal normatore consiste quindi nel tenere indenni i soggetti che abbiano agito in nome, per conto e nell’interesse dell’Amministrazione dalle spese legali sostenute per difendersi dalle accuse di responsabilità, poi rivelatesi infondate. … ”).

Sul punto anche Corte cost., 9 dicembre 2020, n. 267, ha rimarcato che “… Nel prevedere il rimborso delle spese di patrocinio legale sostenute nei giudizi promossi per fatti inerenti alla funzione e conclusisi con accertamento negativo di responsabilità, l’art. 18, comma 1, del d.l. n. 67 del 1997, come convertito, testualmente individua i beneficiari del rimborso nei «dipendenti di amministrazioni statali» e le «amministrazioni di appartenenza» quali obbligate, sicché è corretta la premessa da cui muove il rimettente, vale a dire l’impossibilità di estendere per via interpretativa il diritto al rimborso a soggetti che operano nell’interesse dell’amministrazione al di fuori da un rapporto di impiego.

D’altronde, per univoca giurisprudenza della Corte di cassazione (tra le tante, sezione prima civile, sentenza 10 dicembre 2004, n. 23138) e del Consiglio di Stato (da ultimo, sezione quarta, sentenza 13 gennaio 2020, n. 281), la norma censurata ha carattere eccezionale, è di stretta interpretazione, e quindi non è suscettibile di estensione per analogia . …”.

Pertanto, contrariamente a quanto sostiene l’appellante, la norma in questione ha natura eccezionale, come confermato dalla indiscutibile qualificazione della stessa in termini di norma di spesa.

Dunque, non è meritevole di positivo apprezzamento l’affermazione del -OMISSIS-anche nella parte in cui assume che il primo giudice avrebbe errato nel subordinare il riconoscimento del beneficio “ ad ulteriori condizioni eccessivamente stringenti rispetto a quelle chiaramente indicate dalla legge ” (cfr. pag. 8 dell’atto di appello), posto che il presente gravame aspira proprio ad ottenere in via interpretativa un risultato che è precluso dalla inequivoca formulazione letterale dell’art. 18 decreto-legge n. 67/1997.

D’altronde, la prospettazione delineata dall’odierno appellante collide anche con la consolidata interpretazione che il Consiglio di Stato ha fornito della norma in questione in sede consultiva (cfr. Cons. Stato, Sez. I, Adunanza di Sezione del 4 novembre 2009, parere n. 667/2010: “… trattandosi di norma di spesa, è di stretta interpretazione, sicché un’estensione della fattispecie domanda un intervento espresso del legislatore e non può essere affidata alla mutevole opinione dell’interprete ”).

Se ne desume che il rimborso delle spese legali può essere ottenuto dalle Amministrazioni di appartenenza solo ove siano state queste ultime a coinvolgere in giudizio il dipendente nei confronti del quale, all’esito, non vi sia stata una affermazione di responsabilità.

In sostanza, a conferma della correttezza della sentenza appellata, va rilevato che non può ravvisarsi - agli effetti del rimborso disciplinato dalla norma in esame - una identità funzionale tra la posizione del pubblico dipendente che consapevolmente decida di intraprendere un giudizio nei confronti della P.A. rispetto a quella del dipendente che detto giudizio abbia subito.

Correttamente pertanto il T.A.R ha valorizzato nella pronuncia appellata che: 1) la causa non è stata iniziata da terzi nei confronti del -OMISSIS- bensì da quest’ultimo per impugnare il provvedimento emesso nei suoi confronti dall’Amministrazione sua datrice di lavoro;
2) neppure si tratta di una causa avente ad oggetto la responsabilità civile, penale o amministrativa del -OMISSIS- posto che l’oggetto del giudizio intentato dal dipendente contro l’Amministrazione di riferimento attiene all’impugnazione di un atto che ha comportato la cessazione dal servizio del dipendente.

In conclusione, i distinti aspetti della immedesimazione organica e della connessione con il servizio sono privi di rilevanza alcuna allorquando si tratti di vicende - come nel caso di specie - rispetto alle quali alcun addebito di responsabilità si configura.

7.2. - Va parimenti disatteso il secondo motivo di appello, con conseguente infondatezza del sollevato dubbio di costituzionalità con riferimento ad entrambi i parametri invocati.

In primis va osservato che in relazione al parametro di cui all’art. 3 Cost. (addotto sia in punto di disparità di trattamento, sia in punto di deficit di ragionevolezza) la disparità di trattamento è riscontrabile unicamente in caso di assoluta identità di situazioni di fatto e di conseguente assoluta irragionevole diversità del trattamento riservato dal legislatore, situazioni la cui prova rigorosa deve essere fornita dall’interessato.

Per quanto qui rileva, la predeterminazione in via legislativa dei presupposti al ricorrere dei quali si configura la rimborsabilità delle spese legali sostenute dal dipendente (che abbia subito un giudizio nel corso del quale abbia dovuto difendersi) riflette pienamente e legittimamente la ratio dell’art. 18 decreto-legge n. 67/1997.

Con riguardo, invece, al dedotto contrasto con il parametro di cui all’art. 97 Cost., questo Collegio reputa non condivisibile la censura nella parte in cui istituisce un nesso di reciproca implicazione tra buon andamento e tutela dei diritti e delle libertà fondamentali;
nel caso di specie, si rileva che non si assiste ad alcuna compressione del diritto di difesa e/o di altre prerogative irrinunciabili.

Ciò premesso, l’appellante non considera che diretta derivazione del principio di buon andamento della P.A. è un più ampio criterio di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa, con la conseguenza che l’art. 18 decreto-legge n. 67/1997, per come correttamente applicato dalla sentenza impugnata, esprime un indirizzo di razionale utilizzazione delle risorse pubbliche disponibili. E tanto assicurando un equilibrato bilanciamento tra l’interesse alla corretta allocazione di costi a carico dell’Erario e l’esigenza che il dipendente sia tenuto indenne dalle conseguenze economiche connesse all’irrinunciabile esercizio del suo diritto di difesa ( ex art. 24 Cost.) in un giudizio (in cui lo stesso è convenuto) conclusosi con l’accertamento negativo della sua responsabilità.

Risulta allora conforme ai criteri interpretativi generali desumibili dall’art. 12 delle Preleggi ( ubi voluit dixit, ubi noluit tacuit ) ammettere che non si sia qui al cospetto di una vera e propria lacuna normativa, suscettibile di essere colmata in via di interpretazione analogica - come invece sostiene l’appellante -, bensì di una diversa disciplina congegnata e voluta come tale dal legislatore del 1997, espressiva di un non irragionevole esercizio di discrezionalità normativa.

Tale diversa disciplina trova giustificazione proprio nella peculiarità sottesa al fatto che il coinvolgimento del dipendente pubblico nel giudizio di responsabilità con l’Amministrazione di appartenenza sia non voluto;
se così non fosse, si avallerebbe una lettura (contrastante con il dato letterale ma anche teleologico) della disposizione invocata a fondamento della richiesta di rimborso e, con essa, una dilatazione del perimetro applicativo della norma oltre i confini segnati dal legislatore.

Tale scelta, quindi, costituisce espressione di discrezionalità legislativa che, non sconfinando nell’irragionevolezza, è insindacabile sotto il profilo della disparità di trattamento.

In ultimo, come già evidenziato in rapporto alla dedotta violazione dell’art. 97 Cost., osta alla soluzione interpretativa proposta dall’appellante la circostanza che ciascuna richiesta di rimborso delle spese legali, in difetto di un allargamento dei corrispondenti presupposti in via legislativa, sarebbe foriera di inaccettabili oneri a carico della finanza pubblica.

8. - In conclusione, alla stregua delle argomentazioni svolte l’appello deve essere respinto.

9. - In considerazione della peculiarità della presente controversia sussistono giuste ragioni di equità per compensare le spese di lite.

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