Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2021-12-31, n. 202108762

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2021-12-31, n. 202108762
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202108762
Data del deposito : 31 dicembre 2021
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 31/12/2021

N. 08762/2021REG.PROV.COLL.

N. 05882/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5882 del 2015, proposto da
A S, rappresentato e difeso dall'avvocato A L D, con domicilio eletto presso lo studio Srl Placidi in Roma, via Barnaba Tortolini 30;

contro

Azienda Sanitaria Locale Bari, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato E T, con domicilio eletto presso lo studio Alfredo Placidi in Roma, via Barnaba Tortolini 30;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia (Sezione Seconda) n. 01567/2014, resa tra le parti, concernente risarcimento danno a seguito di diffida a interrompere attività libero-professionale incompatibile


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Azienda Sanitaria Locale Bari;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza straordinaria del giorno 12 ottobre 2021, svolta in modalità telematica, il Cons. D P e uditi per le parti gli avvocati come da verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con l’appello in esame la odierna parte appellante impugnava la sentenza n. 1567 del 2014 del Tar Bari, recante il rigetto dell’originario gravame. Quest’ultimo era stato proposto dalla stessa parte, in qualità di dirigente medico dipendente dell’Asl Ba2 assegnato al Servizio di Prevenzione e Protezione con funzioni di medico competente aziendale, al fine di ottenere l’accertamento e la relativa condanna risarcitoria dei danni subiti in dipendenza di diffida e conseguente ordine di servizio adottati dall’Amministrazione resistente, rispettivamente in data 21 e 27 dicembre 1995, nella qualità di datore di lavoro (contenenti la diffida dal continuare a svolgere attività di libera professione), dalla stessa successivamente annullati in sede di autotutela, giusta determinazione in data 15 gennaio 1999, n. 2431.

Nel ricostruire in fatto e nei documenti la vicenda, parte appellante contestava le argomentazioni di rigetto del Tar e riproponeva la domanda risarcitoria.

L’azienda sanitaria appellata si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto dell’appello.

All’udienza straordinaria del giorno 12 ottobre 2021, svolta in modalità telematica, in vista della quale le parti depositavano memorie, la causa passava in decisione.

DIRITTO

1. Oggetto della presente controversia è la domanda risarcitoria originariamente proposta, dedotta nuovamente nel presente giudizio di appello, attraverso la critica alle argomentazioni svolte dal Giudice di prime cure.

2. Il corretto inquadramento delle deduzioni, in merito alla sussistenza dei presupposti della responsabilità risarcitoria e delle conseguenti voci di danno, presuppone un riassunto della fattispecie, peraltro nella sostanza pacifica fra le parti nei termini anche correttamente ricostruiti dal Tar, risultando contestata la relativa qualificazione.

2.1 In fatto, l’appellante, dirigente medico dipendente dell’Asl Ba2, assegnato al Servizio di Prevenzione e Protezione con funzioni di medico competente aziendale, veniva dalla predetta Azienda diffidato ad interrompere la propria attività libero-professionale di medico del lavoro, ritenuta incompatibile con la funzione di medico addetto alla sorveglianza sanitaria dei dipendenti Asl. Tale determinazione veniva assunta sulla scorta di un’interpretazione del quadro normativo di riferimento.

2.2 Con nota del 2 gennaio 1996 lo stesso odierno appellante contestava in via interna l’atto, proponendo una diversa ricostruzione, tesa a rilevare che l’incompatibilità dovesse essere limitata ai compiti di vigilanza assegnati allo specifico Servizio dell’Asl, il cd. SPESAL. Con nota di risposta dell’Azienda sanitaria n. 884 dell’11 gennaio 1996 veniva mantenuta la posizione posta a base della diffida. Lo stesso appellante interrompeva l’attività come da nota datata 16 gennaio 1996.

2.3 Solo dopo due anni, la successiva iniziativa veniva assunta dall’interessato il 2 febbraio 1998, investendo della questione interpretativa il Ministero della Sanità e l’Assessore alla Sanità della Regione Puglia. Quest’ultimo, con nota del successivo 14 luglio, indicava una norma sopravvenuta operante nel senso favorevole all’interpretazione restrittiva della limitazione, chiedendo chiarimenti all’Azienda sanitaria circa eventuali rapporti gerarchici e funzionali dell’appellante con il menzionato SPESAL.

2.4 A seguito di ciò e di ulteriore sollecito dell’interessato di cui alla nota del 4 agosto 1998, il 15 gennaio 1999 l’Azienda sanitaria si determinava ad annullare il precedente ordine di servizio, dichiaratamente rimuovendo la causa ostativa all’esercizio dell’attività libero professionale extramoenia;
inoltre, con separata nota prot. n. 9437 del 15 febbraio 1999, chiariva all’Assessorato regionale l’insussistenza di qualsiasi rapporto gerarchico o funzionale tra l’appellante e l’organo di vigilanza aziendale suddetto.

2.5 Con atto di citazione datato 21 giugno 2000 l’odierno appellante proponeva domanda risarcitoria dinanzi al Tribunale civile di Trani che, all’esito del relativo giudizio, dichiarava il proprio difetto di giurisdizione con sentenza 3 luglio

3. Il rigetto della domanda pronunciato dalla sentenza di primo grado si fonda su di un duplice ordine di argomentazioni.

3.1 Da un lato, la sentenza sottolinea il comportamento complessivamente tenuto dal ricorrente, che ne evidenzia la colpevole inerzia. Secondo il Tar il ricorrente, sebbene attivatosi nell’immediatezza dell’evento potenzialmente causativo del danno, a fronte dell’inequivocabile chiusura dell’Amministrazione sanitaria stessa all’opzione interpretativa suggerita, è rimasto inerte, lasciando consolidare l’ordine di servizio a carattere negativo e determinandosi ad assumere ulteriori iniziative a tutela delle proprie ragioni – ancora una volta stragiudiziali - soltanto due anni dopo, un lasso di tempo sufficiente a rendere irreversibili i danni lamentati (perdita dell’avviamento e dei relativi profitti e pregiudizio all’immagine professionale). Pertanto, secondo la sentenza impugnata, il comportamento tenuto dall’interessato “non sembra essere stato ispirato ad una diligente cura delle proprie posizioni ed i paventati danni avrebbero potuto essere verosimilmente evitati attraverso un’azione più tempestiva a tutela delle proprie ragioni”

3.2 Dall’altro lato, per la mancanza della colpevolezza della condotta dell’Amministrazione, ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana, ex art. 2043 c.c.;
in particolare, per il Tar, il quadro normativo di riferimento, nell’immediatezza dell’entrata in vigore della norma che ha introdotto l’incompatibilità di cui si discute, non si presentava invero suscettibile di univoca lettura.

4. Sul primo versante, va ribadito che l’omessa attivazione degli «strumenti di tutela», costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini della mitigazione e finanche dell'esclusione del danno in quanto evitabile con l'ordinaria diligenza (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. V , 15/03/2021 , n. 2174).

4.1 Nel caso di specie il Tar risulta aver fatto buon governo di tali principi, avendo correttamente ricostruito e qualificato il comportamento dell’odierno appellante che, pur dinanzi alla immediata presa di posizione negativa dell’amministrazione, ha: per un verso non attivato alcuno specifico strumento di tutela, limitandosi a formulare osservazioni di carattere interno alla stessa amministrazione;
per un altro e preminente verso, lasciato consolidare l’ordine di servizio reputato lesivo e determinandosi ad assumere ulteriori iniziative a tutela delle proprie ragioni, peraltro sempre solo stragiudiziali, ben due anni dopo. Tale ultimo rilevante lasso di tempo appare correttamente valutato dalla sentenza impugnata come sufficiente a rendere irreversibili i danni lamentati (perdita dell’avviamento e dei relativi profitti e pregiudizio all’immagine professionale).

5. Anche sul secondo versante va condivisa la pronuncia impugnata.

5.1 In generale, va evidenziato come ai fini del riconoscimento della spettanza del risarcimento dei danni, l'illegittimità del provvedimento amministrativo di per sé non può fare riscontrare la colpevolezza-rimproverabilità dell'Amministrazione, rilevando invece altri elementi, quali il grado di chiarezza della normativa applicabile, la semplicità degli elementi di fatto, il carattere vincolato della statuizione amministrativa, l'ambito più o meno ampio della discrezionalità dell'amministrazione;
con specifico riferimento all'elemento psicologico la colpa della pubblica amministrazione viene individuata non nella mera violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ma quando vi siano state inescusabili gravi negligenze od omissioni, oppure gravi errori interpretativi di norme, in ragione dell'interesse giuridicamente protetto di colui che instaura un rapporto con l'amministrazione;
pertanto, la responsabilità deve essere negata quando l'indagine conduce al riconoscimento dell'errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l'incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. III, 4/03/2019 , n. 1500).

Ancora di recente questo Consiglio ha ribadito che l'illegittimità del provvedimento amministrativo, anche laddove acclarata con l’annullamento giurisdizionale, costituisce solo uno degli indici presuntivi della colpevolezza, da considerare unitamente ad altri, quali il grado di chiarezza della normativa applicabile, la semplicità degli elementi di fatto, il carattere più o meno vincolato (quindi, l'ambito più o meno ampio della discrezionalità) della statuizione amministrativa. Invece, l'elemento psicologico della colpa della P.A. va individuato nella violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ossia in negligenze, omissioni d'attività o errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili in ragione dell'interesse protetto di colui che ha un contatto qualificato con la P.A. stessa (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 8 settembre 2020, n. 5409;
cfr. altresì sez. IV, 4 febbraio 2020, n. 909)

In proposito, ai fini del giudizio risarcitorio a carico dei soggetti pubblici, il (necessario) requisito della colpa (c.d. d'apparato) deve essere individuato nella accertata violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ovvero nella negligenza, nelle omissioni o negli errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili, in ragione dell'interesse giuridicamente protetto di colui che instaura un rapporto con l'amministrazione;
viceversa, la responsabilità deve essere negata quando l'indagine conduce al riconoscimento dell'errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l'incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. V, 24 gennaio 2020, n. 601).

5.2 Applicando tali coordinate ermeneutiche al caso di specie, dall’analisi della complessa vicenda risultante dalla documentazione in atti, così come sopra ricostruita, emerge l’assenza della colpa nei termini evidenziati dal Tar.

A conferma di ciò la stessa necessità di ricorrere ad un approfondimento normativo ed applicativo presso l’assessorato regionale competente, non a caso attivato dallo stesso interessato a fronte delle incertezze esistenti all’epoca, conferma la sussistenza degli elementi tali da escludere la evocata colpa di apparato.

Sul punto, la critica alla ricostruzione svolta dai Giudici di prime cure, incentrata sulla distinzione tra vigilanza e sorveglianza, non convince.

5.3 Sul versante normativo, piuttosto, vanno condivisi i riferimenti contenuti nella sentenza impugnata.

L’art. 17, comma 7, d.lgs. n. 626/1994, innestandosi in un contesto normativo in cui l’Azienda sanitaria locale era stata chiamata ad espletare funzioni di controllo in materia di sicurezza sul lavoro, presentava una formulazione invero generica, ai fini in esame, statuendo quanto segue: “ Il dipendente di una struttura pubblica non può svolgere l’attività di medico competente qualora esplichi attività di vigilanza ”.

Una disposizione attuativa (l’art. 1, comma 3, D.M. 31.7.1997), peraltro successiva agli atti reputati illegittimi nella specie, ha fornito una interpretazione espressa, nel disciplinare l’attività libero-professionale e le incompatibilità della dirigenza sanitaria del S.S.N., circoscrivedo la limitazione in questione ai soli dipendenti dei “ dipartimenti di prevenzione di cui all’art.7, comma 1, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 ”. Non a caso proprio a tale disposizione, l’Assessorato regionale ha fatto riferimento nel suggerire l’interpretazione che ha poi determinato l’esercizio dell’autotutela da parte dell’Azienda stessa.

Invero, la stessa nota interlocutoria del 14luglio 1998, con cui l’assessorato regionale riscontrava la richiesta di chiarimenti, non aderiva ex abrupto all'interpretazione dell’odierno appellante né sconfessava l’operata dell’Asl, limitandosi ad indicare la nuova norma predetta.

6. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello va respinto.

Sussistono giusti motivi, stante la peculiarità e novità della particolare fattispecie, per compensare le spese del giudizio.

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