Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2019-02-19, n. 201901144

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2019-02-19, n. 201901144
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201901144
Data del deposito : 19 febbraio 2019
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 19/02/2019

N. 01144/2019REG.PROV.COLL.

N. 01957/2018 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso iscritto al numero di registro generale 1957 del 2018, proposto da
C F, rappresentata e difesa dall'avvocato M D, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Conca d'Oro, n. 184/190;

contro

Regione Marche, in persona del Presidente pro tempore , rappresentato e difeso dall'avvocato V I, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Sciré, n. 15;

nei confronti

M L, rappresentato e difeso dall'avvocato M C, con domicilio eletto presso lo studio legale dell’avvocato G D S in Roma, via Livorno, n. 6;

per la revocazione

della sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V n. 00598/2018, resa tra le parti.


Visti il ricorso per revocazione ed i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione Marche e di M L;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 31 gennaio 2019 il Cons. V P ed uditi per le parti gli avvocati Discepolo, Iorio e De Santis, in dichiarata delega di Cingolani;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

La dott.ssa Federica C, già dipendente di ruolo della Regione Marche con la qualifica di funzionario amministrativo esperto, categoria D3, partecipava al concorso bandito dallo stesso ente per la copertura di tredici posti di dirigente a tempo pieno e indeterminato, indetto con decreto del Segretario generale n. 23/SGG del 25 novembre 2013, in relazione alla posizione dirigenziale n. 1 (“ Segreteria della Giunta regionale e attività di supporto alla segreteria generale ”).

All’esito delle prove risultava classificata nella graduatoria finale, con un punteggio complessivo di 62,25;
primo classificato risultava il dott. M L, con un punteggio complessivo di 63,25.

Con ricorso al Tribunale amministrativo delle Marche la predetta impugnava gli esiti della selezione, lamentando l’erronea valutazione dei titoli da parte della Commissione di concorso, che avrebbe sovrastimato quelli posseduti dal controinteressato e sottostimato i suoi, con conseguente erronea attribuzione dei relativi punteggi.

Con un primo ricorso per motivi aggiunti, depositato in data 12 ottobre 2016, la ricorrente impugnava inoltre il verbale della Commissione n. 26 del 19 settembre 2016, con cui – in parziale accoglimento dei rilievi formulati dall’interessata e nell’esercizio dei poteri di autotutela – erano stati riesaminati i titoli di entrambi i candidati.

In particolare, l’amministrazione accoglieva il rilievo sul punteggio attribuito al controinteressato per il periodo di lavoro svolto nell’ultimo decennio, provvedendo quindi a ridurlo in maniera corrispondente;
sempre in sede di riesame, l’amministrazione provvedeva però anche ad incrementare di tre punti il punteggio assegnato al dott. M e di un punto quello precedentemente attribuito alla ricorrente per l’attività svolta da entrambi in qualità di avvocato.

La Regione Marche si costituiva in giudizio limitandosi a produrre una memoria formale.

Quindi, con un secondo ricorso per motivi aggiunti, depositato in data 25 ottobre 2016, la ricorrente impugnava il decreto di approvazione della graduatoria adottato dal Segretario generale della Regione Marche n. 32 del 30 settembre 2016, censurandolo per illegittimità derivata dai vizi degli atti della procedura concorsuale precedentemente gravati.

Costituitosi in giudizio, il dott. M proponeva a sua volta ricorso incidentale contestando sotto distinti profili l’operato della Commissione, con particolare riferimento alla decurtazione del punteggio operata nei propri confronti all’esito del riesame ed all’attribuzione di punteggio in favore della ricorrente per alcuni periodi lavorativi inferiori a quindici giorni, in violazione di quanto stabilito dal bando e dall’art. 3, comma 3, dell’allegato B alla d.g.r. n. 1353 del 2013;
contestava inoltre la valutabilità della pubblicazione indicata dalla ricorrente, in quanto non avente carattere scientifico ma di mera collaborazione.

L’adito tribunale con la sentenza n. 507 del 13 giugno 2017 dichiarava improcedibile il ricorso introduttivo per sopravvenuta carenza di interesse, respingeva i motivi aggiunti e dichiarava inoltre inammissibile il ricorso incidentale proposto dal dott. M per carenza di interesse.

Avverso tale decisione la dott.ssa C interponeva appello, nel quale si costituivano, in resistenza, sia la Regione Marche che il dott. M;
quest’ultimo proponeva anche appello incidentale, riproponendo le censure del ricorso incidentale di primo grado.

Con sentenza 29 gennaio 2018, n. 598, la V Sezione del Consiglio di Stato respingeva l’appello.

La dott.ssa C chiede la revocazione di tale ultima decisione, denunciando:

1. Omessa disamina della censura di violazione del bando di concorso in relazione all’attribuzione di punti 3 al dtt. M per preteso svolgimento di attività professionale di avvocato, come se detta attività fosse stata svolta a tempo pieno, nonostante che tale pretesa attività di avvocato negli anni 2001-2007 sarebbe stata contemporanea – se effettivamente svolta – allo svolgimento di lavoro dipendente .

2. Omessa disamina della censura di violazione del bando di concorso in relazione all’attribuzione di punti 3 al dott. M per preteso svolgimento di attività professionale di avvocato nonostante che l’attività di avvocato sarebbe stata svolta illegittimamente per mancata autorizzazione da parte del datore di lavoro Erap .

3. Errore di fatto in relazione alla disamina della censura di violazione degli artt.

4.8 e 9.3 del bando in relazione all’attribuzione di punti 3 al dott. M per preteso svolgimento di attività professionale di avvocato nonostante che tale titolo non è stato indicato nella domanda di partecipazione al concorso
.

4. Omessa disamina dell’eccezione di violazione sotto duplice profilo dell’art.

4.8 e dell’art. 9 co. 2 lett. c) e co. 3 del bando di concorso in relazione all’attribuzione di 1 punto al dott. M in relazione al periodo di servizio quale Ufficiale di complemento – Carenza di presupposti – Difetto di motivazione – Irrazionalità manifesta
.

5. Errore di fatto in relazione ai vizi di violazione dell’art. 9 del bando di concorso e dei principi generali in materia di titoli valutabili – Violazione dell’art. 9 del bando in relazione al riduttivo punteggio attribuito alla ricorrente per titoli di categoria III – Errato apprezzamento dei presupposti – Carenza e difetto di motivazione – Irrazionalità manifesta .

Costituitosi in giudizio, il dott. M ha eccepito l’inammissibilità del ricorso per revocazione, deducendo comunque l’infondatezza;
analogamente ha concluso la Regione Marche, limitatasi peraltro ad una costituzione formale.

Quindi all’udienza del 31 gennaio 2019, dopo la rituale discussione, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

Con il primo motivo di revocazione la sentenza viene censurata per non aver preso minimamente in considerazione il motivo di appello relativo all’illegittimità della valutazione del preteso titolo relativo alla professione di avvocato concomitante al lavoro part-time presso l’Erap.

L’omessa pronuncia integrerebbe un vizio revocatorio, traducendosi in un errore di fatto incorso nella fase della lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al loro significato letterale;
il giudice non avrebbe cioè avuto percezione di un fatto decisivo della controversia, già ritualmente proposto in primo grado. Il motivo non esaminato (che peraltro sarebbe stato ignorato pure nel precedente grado di giudizio) aveva rilevanza decisiva, concernendo la presunta erronea attribuzione di tre punti al dott. M, laddove a seguito della sentenza di primo grado (che aveva tra l’altro rilevato l’errata attribuzione di 1,25 punti a favore di quest’ultimo) la differenza tra la posizione di questi e della dott.ssa C si era ridotta a soli 43 centesimi di punto.

Nel merito della questione, la ricorrente deduce che anche in occasione dell’istanza di riesame della valutazione inizialmente effettuata dalla Commissione di concorso, il dott. M non aveva assolutamente dichiarato di aver svolto attività professionale nel periodo 2001-2006, essendosi limitato ad esporre di essere stato iscritto al relativo albo professionale: dunque i tre punti successivamente attribuitigli si riferirebbero ad una presunta attività professionale di avvocato mai dichiarata né nella domanda di partecipazione al concorso, né nella richiesta di riesame, attività che per di più sarebbe stata svolta contemporaneamente al lavoro part-time (al 50%) presso l’Erap. In ogni caso, anche a voler supporre legittima la valutazione di detta attività professionale, non sarebbe giustificabile l’attribuzione, per la medesima, del punteggio di 0,25 per semestre, come se fosse stato svolto a pieno titolo, essendo pacifico che il dott. M fosse contemporaneamente dipendente Erap in regime part-time al 50%, così che l’attività professionale al più avrebbe potuto essere considerata al 50%, in applicazione del principi generali sulla valutazione dell’attività lavorativa a tempo parziale.

Le argomentazioni prospettate non possono trovare accoglimento.

Il rimedio della revocazione ha natura straordinaria e per consolidata giurisprudenza ( ex multis , Cons. Stato, V, 5 maggio 2016, n. 1824) l’errore di fatto idoneo a fondare la domanda di revocazione, ai sensi del combinato disposto degli articoli 106 Cod. proc. amm. e 395, n. 4 Cod. proc. civ., deve rispondere a tre requisiti:

a) derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto fattuale, ritenendo così un fatto documentale escluso, ovvero inesistente un fatto documentale provato;

b) attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato;

c) essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa (cfr. Cons. Stato, IV, 14 maggio 2015, n. 2431).

Inoltre, l’errore deve apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche (Cons. Stato, IV, 13 dicembre 2013, n. 6006).

L’errore di fatto revocatorio è configurabile nell’attività preliminare del giudice, relativa alla lettura ed alla percezione degli atti acquisiti al processo quanto alla loro esistenza ed al loro significato letterale, ma non coinvolge la successiva attività d’interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni, ai fini della formazione del convincimento.

Insomma, l’errore di fatto, eccezionalmente idoneo a fondare una domanda di revocazione, è configurabile solo riguardo all’attività ricognitiva di lettura e di percezione degli atti acquisiti al processo, quanto a loro esistenza e a loro significato letterale, per modo che del fatto vi siano due divergenti rappresentazioni, quella emergente dalla sentenza e quella emergente dagli atti e dai documenti processuali;
ma non coinvolge la successiva attività di ragionamento e apprezzamento, cioè di interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande, delle eccezioni e del materiale probatorio, ai fini della formazione del convincimento del giudice (Cons. Stato, V, 7 aprile 2017, n. 1640).

Così, si versa nell’errore di fatto di cui all’art. 395, n. 4 Cod. proc. civ. allorché il giudice, per svista sulla percezione delle risultanze materiali del processo, sia incorso in omissione di pronunzia o abbia esteso la decisione a domande o ad eccezioni non rinvenibili negli atti del processo (Cons. Stato, III, 24 maggio 2012, n. 3053);
ma se ne esula allorché si contesti l’erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali o di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio, ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o di un esame critico della documentazione acquisita.

In tutti questi casi non sarà possibile censurare la decisione tramite il rimedio – di per sé eccezionale – della revocazione, che altrimenti verrebbe a dar vita ad un ulteriore grado del giudizio, non previsto dall’ordinamento ( ex multis , Cons. Stato, IV, 8 marzo 2017, n. 1088;
V, 11 dicembre 2015, n. 5657;
IV, 26 agosto 2015, n. 3993;
III, 8 ottobre 2012, n. 5212;
IV, 28 ottobre 2013, n. 5187).

Peraltro, affinché possa ritenersi sussistente l’errore di fatto revocatorio nell’attività preliminare del giudice relativa alla lettura ed alla percezione degli atti, è necessario che “ nella pronuncia impugnata si affermi espressamente che una certa domanda o eccezione o vizio – motivo non sia stato proposto o al contrario sia stato proposto ” (Cons. Stato, V, 4 gennaio 2017, n. 8);
inoltre, ricorre l’errore revocatorio in ipotesi di mancata pronuncia su di una censura sollevata dal ricorrente “ purché risulti evidente dalla lettura della sentenza che in nessun modo il giudice ha preso in esame la censura medesima;
si deve trattare, in altri termini, di una totale mancanza di esame o di valutazione del motivo e non di un difetto di motivazione della decisione, non censurabile in sede di revocazione
” (Cons. Stato, VI, 22 agosto 2017, n. 4055).

Sempre in termini, Cons. Stato, V, 12 maggio 2017, n. 2229, secondo cui “ L’errore revocatorio è […] configurabile in ipotesi di omessa pronuncia su una censura sollevata dal ricorrente purché risulti evidente dalla lettura della sentenza che in nessun modo il giudice ha preso in esame la censura medesima;
si deve trattare, in altri termini, di una totale mancanza di esame e/o valutazione del motivo e non di un difetto di motivazione della decisione (cfr., Cons. Stato, Sez. V, 5/4/2016, n. 1331;
22/1/2015, n. 264;
Sez. IV, 1/9/2015, n. 4099)
”.

Va aggiunto che non sussiste errore revocatorio per il mero “fatto” che alcuni documenti o atti siano stati non esplicitamente esaminati o valorizzati in sentenza, giacché non sussiste alcun obbligo di motivare sulla corretta lettura di ciascun documento di causa, essendo sufficiente rispondere al motivo proposto, dando atto naturalmente di averlo rettamente inteso nella sua reale portata giuridica in ragione dei fatti a cui esso fa riferimento (Cons. Stato, V, 4 gennaio 2017, n. 8).

Ancora, “si può affermare che, laddove una sentenza menzioni nella parte descrittiva in fatto un motivo di doglianza, pur se ometta di pronunciarsi espressamente su di esso nella parte motiva, ciò non configura un vizio di omessa pronuncia, dovendosi considerare la pronuncia sul punto implicita nella statuizione complessiva della sentenza” (Cons. Stato, V, 19 ottobre 2017, n. 4842).

Va poi ribadita la distinzione tra motivo di ricorso ed argomentazione a ciascuno dei motivi sostegno del medesimo, così come delineata – proprio per delimitare l’ambito della revocazione – dalla sentenza dell’Adunanza plenaria 27 luglio 2016, n. 21. Il motivo di ricorso delimita ed identifica la domanda spiegata nei confronti del giudice, e in relazione al motivo si pone l’obbligo di corrispondere, in positivo o in negativo, tra chiesto e pronunciato, nel senso che il giudice deve pronunciarsi su ciascuno dei motivi e non soltanto su alcuni di essi;
a sostegno del motivo – che identifica la domanda prospettata di fronte al giudice – la parte può addurre, poi, un complesso di argomentazioni, volta a illustrare le diverse censure, ma che non sono idonee, di per se stesse, ad ampliare o restringere la censura, e con essa la domanda.

Rispetto a tali argomentazioni non sussiste un obbligo di specifica pronunzia da parte del giudice, il quale è tenuto a motivare la decisione assunta esclusivamente con riferimento ai motivi di ricorso come sopra identificati (Cons. Stato, V, 27 luglio 2017, n. 3701);

Alla stregua del delineato quadro giurisprudenziale, non si rinvengono nella fattispecie in esame i presupposti del vizio revocatorio.

In effetti, lungi dal circoscrivere l’esame ad una parte soltanto delle difese dell’appellante, la sentenza d’appello ha dato preliminarmente atto, in termini puntuali e precisi, proprio della circostanza attualmente controversa, come si legge a pag. 3: “[…] Sempre in sede di riesame, l’Amministrazione ha provveduto ad incrementare di 3 punti il punteggio assegnato al dottor M e di 1 punto quello attribuito alla ricorrente per l’attività svolta da entrambi in qualità di avvocato.

3. La dottoressa C, tuttavia, ha contestato tali attribuzioni, ritenendo, da un lato, che l’attività svolta dal controinteressato come avvocato non sarebbe dimostrata, atteso che, per il periodo considerato, risulterebbe la sola iscrizione all’albo, e che, in ogni caso, il punteggio andrebbe diminuito in ragione sia della situazione di incompatibilità con l’attività di pubblico dipendente, sia della non esclusività dell’attività libero-professionale, anch’essa presumibilmente svolta in part-time ”.

Ciò viene ribadito anche successivamente (cfr. pag. 5), laddove si ricorda che “ Il primo motivo di appello principale contesta la valutazione a favore del dottor M dell’attività libero-professionale svolta come avvocato dal 2001 al 2007 ”, per poi concludere che “ Il motivo è infondato in quanto: a) l’attività era stata indicata nel curriculum professionale;
b) l’autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza non era necessaria in quanto fino al triennio successivo all’entrata in vigore della legge 339/2013 (2.12.2016) l’attività liberoprofessionale di avvocato era consentita, senza bisogno di autorizzazione, ai dipendenti pubblici in part-time al 50%;
c) nel periodo dal 2.12.2016 al 14.10.2017 l’iscrizione è stata mantenuta con riserva in attesa della pronuncia della Corte costituzionale che ha poi confermato la legittimità della legge 339/03
”.

Sono pertanto smentiti, per tabulas , i presupposti logici e fattuali del dedotto vizio revocatorio, atteso che la sentenza impugnata, in realtà, dà preliminarmente atto della specifica censura che la ricorrente sostiene invece essere stata ignorata, per poi respingerla – motivando in termini doverosamente sintetici – in ragione innanzitutto del fatto che dell’attività libero-professionale contestata era stata fatta comunque menzione nel curriculum personale allegato alla domanda di partecipazione al concorso (dando atto dell’iscrizione al relativo albo, costituente la precondizione necessaria del suo svolgimento), menzione che non altrimenti si poteva spiegare – in un curriculum – se non che con l’intenzione che fosse valutata come titolo.

Tale attività, proseguiva la sentenza, era comunque consentita, all’epoca dei fatti, ai dipendenti pubblici in regime di lavoro a tempo parziale al 50% (così confutando l’implicita eccezione, ripresa anche nell’odierno ricorso – seppur non sviluppata – secondo cui vi sarebbe stata un’astratta incompatibilità tra lo svolgimento dell’attività libero-professionale e la qualità di dipendente Erap);
quindi, la pronuncia dava atto che l’iscrizione medesima – senza la quale, come già detto, il privato cittadino in alcun modo potrebbe esercitare l’attività di avvocato – era stata comunque conservata anche nel periodo 2016-2017, ossia nelle more del giudizio della Corte Costituzionale sulla legittimità della legge 25 novembre 2003, n. 339 (“ Norme in materia di incompatibilità dell'esercizio della professione di avvocato ”), il cui art. 2, in particolare, dettava una disciplina transitoria proprio per i pubblici dipendenti che – in regime di part time o a tempo pieno – avessero in precedenza ottenuto l’iscrizione nell’albo forense.

Alla luce di tali elementi l’argomento della ricorrente, secondo cui la mera iscrizione all’albo professionale – indicata dal dott. M nel curriculum vitae trasmesso all’amministrazione per la valutazione dei titoli e delle esperienze professionali – non avrebbe in realtà dato prova dell’effettivo svolgimento della professione, si traduce in definitiva in una censura in diritto delle motivazioni del giudizio d’appello, laddove queste parlano di indicazione dell’attività professionale e non già solamente di iscrizione all’albo, censura però inammissibile in sede revocatoria.

Solo per completezza espositiva, peraltro, va detto che ai sensi dell’art. 2, comma 3, della l. 31 dicembre 2012, n. 247 (così come già l’art. 1, comma primo, r.d.l. n. 1578 del 1933) la sola iscrizione ad un albo circondariale è condizione per l'esercizio della professione di avvocato, laddove l’obbligo della continuità professionale (originariamente prevista dall’art. 22 della legge 20 settembre 1980, n. 576 ai soli fini pensionistici, onde individuare i soggetti tenuti all’iscrizione alla Cassa forense) trova ingresso in termini generali – proprio ai fini del mantenimento dell’iscrizione nell’albo – solo con il recente d.m. 25 febbraio 2016, n. 47 ( Regolamento recante disposizioni per l'accertamento dell'esercizio della professione forense ), in vigore dal 22 aprile 2016, con la precisazione che, relativamente ai periodi di iscrizioni precedenti la sua entrata in vigore, detto accertamento non può comunque essere svolto “ per il periodo di cinque anni dalla prima iscrizione all'Albo ”.

L’accertamento – da svolgere sulla base di tassativi criteri predeterminati all’art. 2, comma 2 del regolamento – e la relativa attestazione competono unicamente al Consiglio dell'Ordine circondariale presso cui è iscritto l’interessato.

Deve quindi concludersi, alla luce del quadro normativo applicabile ratione temporis , che correttamente la Commissione di gara aveva valutato il periodo di iscrizione del dott. M nell’albo degli avvocati, non potendosi in tale contesto (anni 2001 - 2006) validamente distinguere tra mera iscrizione ed effettivo esercizio della professione forense.

Tutto ciò senza considerare che già nel corso del primo grado di giudizio il resistente dott. M aveva proceduto al deposito nel fascicolo di causa dell'intera situazione dei versamenti dei contributi previdenziali alla Cassa Avvocati per il periodo di riferimento (marzo 2001 - ottobre 2007), nel quale sarebbe stato titolare di un proprio studio professionale.

Con il secondo motivo di ricorso viene invece ripresa, in termini più specifici, la censura della presunta incompatibilità tra l’attività libero-professionale riconosciuta al dott. M ed il contestuale svolgimento di attività lavorativa (sia pure part-time ) alle dipendenze di un ente pubblico quale l’Erap. Secondo la ricorrente ogni attività professionale avrebbe dovuto essere autorizzata da quest’ultimo, laddove nel caso di specie non risulterebbe essere mai stata concessa alcuna autorizzazione. Si deduce in particolare che “ Codesto ecc.mo Consiglio di Stato è incorso in un errore di fatto, laddove ha dichiarato con la sentenza impugnata che «b) l’autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza non era necessaria in quanto fino al triennio successivo all’entrata in vigore della legge 339/2013 (2.12.2016) l’attività libero-professionale di avvocato era consentita, senza bisogno di autorizzazione, ai dipendenti pubblici in part-time al 50%». La ricorrente aveva tuttavia eccepito l’illegittimità della valutazione rilevando che l’obbligo di autorizzazione derivava dal contratto individuale di lavoro del dott. M, e non già dalla normativa generale in materia ”.

Il motivo è inammissibile.

A prescindere infatti da ogni considerazione in merito alla possibilità, o meno, per un contratto individuale di lavoro di derogare a norme di legge nazionali, v’è da dire che l’errore contestato al giudice d’appello attiene, in realtà, all’interpretazione da questi data al contenuto della domanda formulata dall’appellante, risolvendosi dunque in un errore di carattere interpretativo (dunque non di mero fatto, bensì giuridico).

La questione, inoltre, era stata ampiamente dibattuta tra le parti nel corso del giudizio d’appello, laddove nella propria memora difensiva del 21 agosto 2017 il controinteressato dott. M (p.tti 2.3 e seguenti) controdeduceva testualmente che “ il comma 6 dell'art. 53 del D.Lgs. 165/01 prevede ancora oggi l'esenzione dall'applicazione della norma sull'incompatibilità proprio per i dipendenti pubblici in part-time al 50%, richiamando - al comma 1 - l'art. 1, commi 57 e ss., della Legge 23/12/1996 n. 662, che consentì e consente a tutti i dipendenti pubblici di chiedere e ottenere il part-time proprio al fine di svolgere un'attività professionale mediante l'iscrizione all'albo ”.

Lo stesso, peraltro, riferiva di aver a suo tempo chiesto formalmente il mantenimento dell'iscrizione all'albo forense (esercitando l'opzione allora prevista dalla legge n. 339 del 2003), pur in costanza dell'impiego pubblico in part-time , impugnando il conseguente rigetto del Consiglio dell'Ordine presso il Consiglio nazionale forense, con conseguente eccezione di costituzionalità e richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte europea di giustizia.

Quanto sopra dava conto della legittimità dell'iscrizione all'albo del dott. M nel marzo 2001, così come della successiva cancellazione, avvenuta solo in data 5 novembre 2007 in ragione dei tempi procedurali necessari ai diversi ricorsi instaurati).

Per l’effetto, concludeva l’appellato, le censure dedotte dall’appellante C (ed oggi in parte riproposte) dovevano ritenersi “ palesemente infondate perché l'iscrizione all'albo è stata conseguita e legittimamente mantenuta indubitabilmente sino al 2.12.2006 e perché non vi era necessità di alcuna autorizzazione preventiva da parte della PA datrice di lavoro ”.

Del resto, anche “ il competente Consiglio dell’Ordine aveva autorizzato il mantenimento dell’iscrizione del M con apposita delibera e che la PA datrice di lavoro nulla aveva obiettato. […] né l'ente di precedente appartenenza del M né il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Macerata (all'epoca), né la Commissione giudicatrice del presente concorso, né l'Ente regionale (in sede di verifiche per il decreto di approvazione della graduatoria), né infine il Giudice di I grado hanno ritenuto di eccepire alcunché al riguardo al M ”.

Con il terzo motivo di ricorso (che costiutisce anch’esso una parziale rivisitazione delle censure precedentemente formulate) viene invece dedotto che “ la sentenza impugnata è errata laddove ha apoditticamente ritenuto che “a) l’attività (di avvocato) era stata indicata nel curriculum professionale ”, laddove alcuna indicazione circa l’attività professionale sarebbe stata data al riguardo dal dott. M, “ né nella domanda di partecipazione al concorso, e neanche nella istanza di riesame ”, avendo questi dichiarato nel curriculum allegato alla domanda di partecipazione al concorso di essere stato iscritto all’albo professionale, “ che è cosa ben diversa rispetto all’ effettivo svolgimento di attività professionale ”.

Per effetto di tale erronea lettura degli atti da parte del giudice d’appello, sarebbe stata disattesa la domanda di annullamento della valutazione impropriamente data dalla Commissione per l’attività professionale mai dichiarata dal controinteressato, in violazione dell’art. 4, comma 8 del bando (per cui “ Non saranno comunque tenuti in considerazione i titoli che non siano dettagliatamente specificati nel curriculum vitae allegato alla domanda ”).

Anche questo motivo è inammissibile, riducendosi (al di là delle forme) ad una censura – in punto di diritto – delle conclusioni a suo tempo raggiunte dal giudice di seconde cure, in particolare circa l’idoneità o meno dell’iscrizione all’albo a dimostrare l’esercizio effettivo della professione forense.

Invero, come già osservato in ordine al primo motivo di appello, l’indicazione nel curriculum dell’iscrizione all’albo degli avvocati costituiva adempimento idoneo a dimostrare il pregresso esercizio dell’attività professionale, ai fini della valutazione da parte della Commissione di concorso, non essendo tenuto l’interessato, nel particolare contesto considerato, a fornire ulteriori specifici argomenti a riscontro (del resto, neppure precisati dall’appellante).

Con il quarto motivo di gravame viene invece riproposta la censura – già dedotta in sede d’appello – per cui il servizio di ferma prolungata nell’Esercito precedentemente svolto dal dott. M non poteva essere oggetto di alcuna valutazione, stante il disposto dell’art. 9 comma 2 lett. c) del bando di concorso, a mente del quale “ sono inoltre oggetto di valutazione le esperienze/attività professionali desumibili dal curriculum vitae del candidato che abbiano attinenza con gli argomenti oggetto delle prove di concorso ed in particolare con il contenuto della prova teorico-pratica ”.

Il motivo è inammissibile, ove si consideri che la sentenza d’appello aveva preso espressa posizione sulla questione, rilevando che “ Anche questo motivo è infondato in quanto: a) il periodo svolto come ufficiale di complemento sebbene non indicato nel curriculum era comunque dichiarato nell’allegato alla domanda (e come rileva il T.a.r. domanda e curriculum allegato vanno valutati unitariamente);
b) la valutazione della commissione sulla pertinenza del servizio rispetto alla qualifica acquisibile per effetto del concorso risulta condivisibile e ragionevole e resiste, pertanto, alle censure mosse dalla ricorrente
”.

Del resto, il motivo revocatorio altro non contiene che una censura sulla correttezza – nel merito – del giudizio operato dal giudice d’appello, come risulta evidente dal tenore delle successive considerazioni, al riguardo, di parte ricorrente: tale valutazione, a suo avviso, sarebbe infatti “ destituita di qualsiasi fondamento obiettivo, perché neanche il servizio militare in ferma prolungata può effettivamente ritenersi pertinente rispetto all’attività propria di un dirigente amministrativo presso la segreteria della giunta regionale ”. Una siffatta censura, però, per le ragioni esposte in precedenza esula al perimetro della fase rescindente del giudizio revocatorio, né potrebbe rientrarvi ricorrendo all’artificio argomentativo di un’omessa pronuncia “ del motivo d’ appello, con il quale era stato precisamente contestato che la rilevanza dell’ attività indicata dal candidato va misurata precisamente rispetto alle materie oggetto delle prove concorsuali, secondo quanto stabilito espressamente dal bando di concorso, e non già in relazione alle funzioni proprie della qualifica dirigenziale acquisibile per effetto del concorso ”.

Risulta dagli atti che tale motivo di gravame era stato oggetto di approfondito contraddittorio tra le parti in entrambi i gradi del giudizio, laddove il dott. M aveva ampiamente dedotto in merito al fatto che l’esperienza di Ufficiale nelle Forze armate fosse particolarmente conforme al ruolo dirigenziale da assumere, quanto al ruolo manageriale, al possesso di competenze organizzative, relazionali (“ esercizio della leadership, negoziazione e gestione dei conflitti, comunicazione e sviluppo dei collaboratori, etc. ”);
proprio alla luce di tali documentate osservazioni la censura era stata infine respinta dalla sentenza d’appello, con una motivazione che, ancorché sintetica, da un lato non dà adito a dubbi circa l’oggetto cui si riferisce, dall’altro non può dirsi frutto di un evidente errore di fatto sulle risultanze di causa.

Infine, con il quinto motivo di ricorso viene riproposta la censura relativa alla mancata considerazione, da parte della Commissione di concorso, di una serie di titoli indicati dalla ricorrente (quali “ attività di insegnamento di discipline giuridiche ed economiche presso istituti di scuola media superiore e libera docenza a livello universitario, attività di collaborazione in relazione ad attività di particolare qualificazione e professionalità ”), per effetto dei quali la stessa avrebbe ampiamente raggiunto il punteggio massimo di quattro punti attribuibili per tale tipologia di titoli.

A fondamento della censura revocatoria, viene dedotto che “ L’errore di fatto risultante dalla sentenza impugnata è di palmare evidenza, ed è caduto sull’ apprezzamento di documenti risultanti dagli atti del giudizio senza che la durata delle esperienze professionali ivi indicate sia stato oggetto di controversia né di specifica disamina da parte del Giudicante ”.

In particolare, la decisione impugnata sarebbe “ basata sul presupposto inesistente che le esperienze professionali esposte dalla ricorrente avessero comportato un impegno di due soli semestri, quando invece risulta per tabulas che Ella è stata titolare di varie posizioni organizzative presso la regione Marche ininterrottamente dal 2000 al 2013 (non considerate in alcun modo), ed ha svolto attività professionale di avvocato dal 1994 al 1999 (considerata soltanto per gli ultimi due anni, e non anche per i tre anni precedenti di praticantato) ”.

Anche questa doglianza non può essere accolta.

Sulla specifica questione, così motivava (nella sua interezza) la sentenza d’appello: “ Il terzo motivo contesta la mancata valutazione di alcuni titoli a favore della C. Si tratta in particolare:

a) dell’attività svolta come avvocato dal 1994 al 1997: il motivo è, tuttavia, infondato perché la ricorrente non era iscritta nel relativo albo e, dunque, non poteva legittimamente svolgere attività di avvocato;

b) di alcune esperienze professionali per le quali avrebbe avuto solo 0,50 punti: anche questa censura è infondata, essendo il punteggio dal fatto che esse corrispondono a solo due semestri;

c) del corso di perfezionamento scientifico in diritto dell’U.E.: motivo anch’esso infondato, in quanto il corso non rientra tra i titoli per i quali il bando prevedeva l’attribuzione di un punteggio.

15. La ricorrente contesta poi il fatto che il bando limitasse ad n. 1 punto il punteggio massimo per le abilitazioni professionali (impedendo alla ricorrente di far valere anche l’abilitazione all’insegnamento). La censura non ha pregio: si tratta di scelta discrezionale compiuta dall’Amministrazione in sede di redazione del bando che non presenta profili di illogicità o contraddittorietà. Essa, pertanto, sfugge alle censure delle ricorrente, che sotto questo profilo sollecitano un sindacato sostitutivo, finendo per sconfinare nel merito della valutazione amministrativa ”.

Va al riguardo nuovamente ribadito che l’«errore di fatto» revocatorio, ai sensi dell’art. 395, n. 4, Cod. proc. civ., richiamato dall’art. 106 Cod. proc. amm.: a) deve consistere nella pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale di atti ritualmente prodotti in giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto;
b) deve attenere ad un punto non controverso sul quale la decisione non abbia espressamente motivato;
c) deve avere esercitato una valenza causale determinante sulla decisione impugnata (così l’Adunanza plenaria di questo Consiglio, 27 luglio 2016, n. 21).

La medesima Adunanza plenaria ha poi precisato che, nel caso di omessa pronuncia su autonoma domanda, eccezione, vizio-motivo impugnatorio (ipotesi sub. d), l’errore si configura solo se: I) risulta in via immediata e diretta dal testo della pronuncia;
II) nella decisione contestata non si sia fatto univoco (ancorché implicito) riferimento agli scritti difensivi di parte ed alle tesi ivi richiamate;
III) nella pronuncia impugnata si affermi espressamente che una certa domanda o eccezione o vizio – motivo non sia stato proposto o al contrario sia stato proposto (Cons. Stato, IV, 1° settembre 2015, n. 4099).

Di vizio revocatorio può parlarsi solo allorché il giudice, per svista sulla percezione delle risultanze materiali del processo, sia incorso in omissione di pronunzia o abbia esteso la decisione a domande o ad eccezioni non rinvenibili negli atti del processo, ma se ne esula allorché si contesti l’erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali o di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio.

Il che è quanto si verifica nel caso di specie, laddove vi è stata una precisa presa di posizione della sentenza d’appello su una censura (di merito) formulata dall’appellante, ad avviso di quest’ultima però fondata su una scorretta lettura delle risultanze di causa.

In tutti questi casi non è però possibile censurare la decisione tramite il rimedio – di per sé eccezionale – della revocazione, dal momento che, altrimenti, si verrebbe a dar vita ad un ulteriore grado del giudizio, non previsto dall’ordinamento ( ex multis , Cons. Stato, IV, 8 marzo 2017, n. 1088;
V, 11 dicembre 2015, n. 5657;
IV, 26 agosto 2015, n. 3993;
III, 8 ottobre 2012, n. 5212;
IV, 28 ottobre 2013, n. 5187).

Conclusivamente ricorso va dichiarato inammissibile.

Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

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